Il Venerdì Santo nella narrazione di Vito Pansini
Scatti fotografici con la Leica e con la Rolleiflex Il Venerdì Santo nella narrazione di Vito Pansini
Nei primi anni ’50 del Novecento, Vito Pansini (figlio del farmacista Ignazio, priore della arciconfraternita di Santo Stefano dal 1914 al 1919 e autore de ”La chiesa e l’arciconfraternita di Santo Stefano”, pubblicato proprio da Vito nel 1955) realizzò una serie di scatti fotografici, utilizzando rullini in austero e severo bianco e nero; in quegli scatti riprese più volte lo svolgersi della processione di Cristo Morto nel Venerdì Santo, immortalando alcuni volti di confratelli anziani, i portatori, il pubblico, le statue e tutto ciò che nel suo immaginario fotografico meglio poteva immortalare le scene che osservava e che interpretava con l’obbiettivo fotografico, giacchè fotografare è interpretare. Pansini scattava con la Rolleiflex (ma anche con la Leica) una macchina di medio formato caratterizzata dal click di scatto, impensabile nelle attuali reflex digitali; una macchina che produceva anche il rumore di avanzamento della pellicola, con la rotazione della leva sul lato ed i click di apertura e di chiusura delle meccaniche, dal pozzetto alla lente per la messa a fuoco. Ed erano anche questi suoni a rendere l’esperienza della fotografia analogica irripetibile. Ciò che appare nelle fotografie, realizzate da Pansini, lascia spazio alla riflessione di Roland Barthes a proposito della distinzione, nell’arte fotografica, tra la dimensione del denotativo e quella del connotativo. Il primo termine indica il significato letterale dell’immagine al suo livello elementare, mentre il secondo indica «gesti, atteggiamenti, espressioni, colori ed effetti dotati di certi significati in virtú della pratica di una determinata società». Il connotativo è quello che Graham Clarke ha definito «linguaggi o codici visivi, il riflesso di un processo piú ampio e sotterraneo di significazione, interno a quella cultura». Barthes (ne La camera chiara) ha distinto due parametri che denotano la quintessenza del nostro rapporto con l’immagine. Il primo è lo studium, «l’applicazione a una cosa, il gusto per qualcuno, una sorta di interessamento sollecito», il secondo è il punctum, «puntura, piccolo buco, macchiolina, piccolo taglio». Lo studium implica una reazione passiva alla narrazione fotografica, mentre il punctum rende viva una lettura critica ed evoca il nostro spazio interiore, psicologico ed emozionale.