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Il vecchio calamaio racconta la storia di Saverio De Candia
15 gennaio 2009

Sono un vecchio calamaio dell'Ottocento e mi piacerebbe realizzare un antico sogno: tirare fuori dall'ombra una persona che è stata condannata all'oblio, solo perché amava straordinariamente la libertà di pensiero ed aveva il torto di vivere in un paese molto tradizionalista e fin troppo ligio alle direttive delle autorità religiose. Per fortuna ho trovato un alleato, un giovane, (voglio dire uno di un paio di generazioni successive) che ha ormai i capelli bianchi, ma che continua, con grande passione, le sue ricerche storiche. Verso la metà dell'Ottocento, sono stato il fedele compagno di un giovane prete, Saverio De Candia, che studiava a Napoli. Al termine dei suoi studi, mi sono trovato nella sua casa di famiglia, in un paese costiero della Puglia. Dopo più di un secolo fui acquistato, assieme a vecchi libri, dal giovane di cui parlavo prima, interessato agli studi politico-religiosi. Questo giovane, che d'ora in poi chiamerò col suo nome, Giovanni, ha una qualità particolare: sa parlare con gli oggetti antichi, con le vecchie pietre, sa dialogare con le cose inanimate, perché è convinto che “le cose hanno un'anima”. Perciò, mentre io posso raccontargli molti fatti del passato, di periodi in cui lui ancora non era nato, lui può informarmi su ciò che è avvenuto “fuori” della casa in cui mi trovavo e di ciò che accade oggi, nella vita di tutti i giorni. Mi è piaciuta la frase di Gandhi, quando il mio amico Giovanni me l'ha detta. Sarebbe piaciuta anche a Don Saverio, se l'avesse conosciuta. Egli era un uomo mite e tranquillo, che però nascondeva, sotto l'aspetto fragile, una grande fermezza di spirito religioso. Saverio si trovò a vivere a Napoli, in un periodo terribile. Era terminata la prima guerra di indipendenza, durante la quale i vari governi tra i quali era divisa l'Italia, erano stati costretti dalla pressione popolare a concedere la Costituzione, cioè a limitare, con la creazione dei Parlamenti, il potere assoluto dei monarchi. I giovani di oggi, nati in un clima di libertà, non riescono a farsi un'idea di cosa era la vita di quel tempo: il cittadino, anzi il suddito, non aveva nessuna garanzia costituzionale ed era alla mercé di una polizia sospettosa e tirannica. Era il periodo della grande repressione borbonica ed era pericoloso persino partecipare ai funerali di qualche intellettuale che fosse, anche lontanamente, amico della libertà. Quel governo era nemico di ogni uomo d'ingegno, vivo o morto che fosse. Quando fu arrestato il letterato Luigi Settembrini, Saverio si precipitò dal suo compaesano Sergio per avvisarlo della cosa ed insieme nascosero in un sacco i libri francesi, che erano sospettati di liberalismo, e li appesero nella cappa del camino. Poco dopo, infatti, la casa venne visitata dalla polizia e perquisita da cima a fondo. Per fortuna, i libri non furono scoperti. Ormai la vita a Napoli era irrespirabile e i due giovani preti si misero a cercare una carrozza per tornare al paese. Il viaggio durava tre o quattro giorni; all'improvviso si imbatterono in una banda di briganti (la Capitanata ne era piena). Sergio, con la sua aria risoluta, imbracciò il fucile che i cocchieri, per prudenza, portavano sempre con sé e dopo aver colpito il cavallo di uno degli assalitori, riuscì a metterli in fuga. Saverio tirò un sospiro di sollievo: aveva trovato l'amico giusto per i suoi viaggi e Sergio intanto si avvaleva della grande preparazione culturale del suo compagno più giovane. Non perdevano tempo durante il tragitto. Io, che ero ben tappato in una valigia, li sentivo discutere animatamente tra di loro, mentre commentavano le ultime vicende politiche. “Non si può andare avanti con i complotti e le cospirazioni, come fa don Peppino Mazzini – diceva Sergio – tra l'altro, questo benedetto uomo sta mandando allo sbaraglio decine di giovani, perché le repressioni sono terribili. E sono i giovani migliori, i più generosi, che vengono sacrificati; così si sta distruggendo la futura classe dirigente! Il paese non è pronto per una rivoluzione, anche se tutti sono scontenti e vorrebbero dei cambiamenti”. “ Certo – riprendeva Saverio – bisogna trovare altre strade. Gli ultimi scritti di Vincenzo Gioberti possono essere utili, in questi casi. Tu sai che da tempo me ne sto occupando. Questo abate piemontese ha delle idee molto concrete. Egli vorrebbe creare una federazione tra i sette stati in cui è diviso il nostro infelice paese, un po' come è organizzata la Svizzera. Niente rivoluzioni, niente guerre, niente spargimento di sangue. I sovrani rimarrebbero sui loro troni ed ogni Stato potrebbe conservare le proprie tradizioni. Potremmo diffondere queste idee, che ne dici? ” “Va bene, ma come creiamo l'unione tra questi Stati? Ci sono mille problemi. Metti: la lingua! Come comunicare tra persone che non parlano l'italiano? Se un contadino delle nostre parti va in Piemonte, non lo capisce nessuno. Tutti parlano nel proprio dialetto e sono pochi quelli che sanno leggere e scrivere l'italiano! Poi ci sono monete diverse tra loro, leggi, tributi, eccetera. E' molto lunga la strada verso l'Unità”! “Caro mio – replicava Saverio - questa è l'unica strada possibile, io non ne vedo altre. Gioberti mi sembra molto realista quando fa leva sul sentimento religioso del popolo italiano. Egli vorrebbe che la presidenza di questa futura federazione sia affidata al Papa. Non possiamo, noi, ipotizzare che ci sia un Papa con sentimenti patriottici? Il clero è una parte importante della classe dirigente e, soprattutto, ha molta influenza sulle masse popolari, in tutte le regioni italiane. Se il clero fa proprie queste idee, noi vedremo dei gran bei cambiamenti! Sul problema della lingua, sono d'accordo con te, c'è da fare un mucchio di lavoro. Bisogna creare quanto prima delle scuole elementari, preparare un esercito di buoni maestri e mandarli nelle campagne”. Quando raccontavo queste cose al mio amico Giovanni, lui mi ricordava che Don Saverio fu, nel suo paese, il primo direttore della scuola elementare, da lui fatta intitolare ad Alessandro Manzoni, grande studioso della lingua italiana. La madre di Giovanni, da bambina, aveva frequentato quella scuola e ricordava il “signor Direttore”, che aveva il dono di farsi amare, e insieme temere, da tutti. Quando le bimbe lo incontravano nel corridoio, dovevano inchinarsi e salutarlo con un “riverito!”, e lui rispondeva amabilmente con un cenno del capo. Ma torniamo ai problemi politici del Risorgimento Italiano. Sarebbero passati molti anni prima che si potesse realizzare il sogno dei due studiosi, di creare cioè uno Stato nazionale, libero da ingerenze straniere, soprattutto austriache. Era necessario l'aiuto della Francia, come anche l'impresa di Garibaldi. E intanto si era arrivati all'unificazione del 1861. Rimaneva la “questione romana”, cioè il fatto che il Papa non voleva cedere Roma come capitale del nuovo Stato. Oh, quanto ho dovuto lavorare, come calamaio, in quel periodo! Don Saverio scriveva a lungo ai suoi amici e ricordava che nel Vangelo non si parla mai di potere temporale. Gesù aveva detto: 'Il mio regno non è di questo mondo'; 'Date a Cesare quel che è di Cesare', cioè lasciate ai politici il loro compito e occupatevi del Regno di Dio. Ed ancora: 'Andate senza mantello e senza bisaccia'. La casa del sacerdote, comoda ed ospitale, accoglieva intanto periodicamente un piccolo gruppo di studiosi. Erano vecchi compagni di studi, che a Napoli si erano formati alla scuola liberale di Francesco De Sanctis. Le discussioni, gli scambi di esperienze, la lettura in comune di testi fondamentali, creavano un'atmosfera molto stimolante. Ricordo alcune idee ricorrenti che Don Saverio sottolineava con la sua solita chiarezza: “La Chiesa primitiva era povera, ma libera. Purtroppo il Papa è anche un sovrano, un Papa-Re e questo lo rende odioso a quelli che vogliono l'Unità d'Italia e perciò favorisce un'ondata di anticlericalismo che danneggia il paese e per giunta diffonde l'incredulità. Anche Dante condannò, ai suoi tempi, la confusione della spada col pastorale. Vi ricordate la sua famosa teoria dei “due soli”? Lo Stato e la Chiesa erano, a suo parere i “due soli” che dovevano splendere autonomamente, i 'papisti' invece, parlavano del 'Sole e della luna', cioè lo Stato doveva ricevere la luce dalla Chiesa. Tutto questo scambio di idee, portate avanti con molta passione ed intensità, produsse una petizione a Pio IX, firmata da circa settecento preti meridionali (quasi 9.000 in tutta Italia!), che chiedevano la pacifica risoluzione del conflitto. Il Papa avrebbe dovuto cedere Roma al nuovo Stato e in cambio avrebbe ottenuto la 'pace religiosa' e la fine di tante violenze e agitazioni. Pio IX invece, rispose: 'Non possumus' e dopo la breccia di Porta Pia e l'invasione piemontese del 20 settembre 1870, si considerò prigioniero dello Stato Italiano e condannò alla scomunica tutti gli uomini del Risorgimento. Qualche anno dopo Don Saverio scrisse un libro che creò scompiglio nella sua famiglia e nel paese. In esso si chiedevano alcune riforme alquanto audaci: l'abolizione del celibato ecclesiastico, l'elezione dei parroci e dei vescovi da parte dei fedeli e la messa in italiano. Il libro fu condannato e l'autore perse il posto di insegnante nel locale Seminario. Ma il peggio fu che in casa il nostro amico fu sottoposto a fortissime pressioni da parte della madre. Ho assistito a penosissimi colloqui tra Donna Caterina e Saverio. “Figlio mio, ascoltami! Io sono molto preoccupata per te! Ti vedo già tra le fiamme dell'inferno. Ma, lo sai che chi vuole togliere Roma al Papa è scomunicato? E poi mi hanno detto che leggi Leopardi che è un ateo ed è nell'Indice dei libri proibiti! Ma io non ti capisco più! Come ti hanno cambiato la testa a Napoli, tutti quei miscredenti e senza Dio! E, per giunta, danneggi la famiglia!” La donna, intanto, guardava con sospetto tutti quei libri che vedeva nella camera del figlio, tutti libri che lo avevano portato lontano dalla “retta via”. E guardava con malevolenza anche me, calamaio, e la penna! Eravamo stati noi a rovinare il figlio, secondo lei… Inutilmente Saverio cercava le parole giuste per spiegare alla madre che lui non voleva distruggere la religione, lui la voleva solo purificare da tante superstizioni e sovrastrutture che l'avevano danneggiata nei secoli. Donna Caterina ricordava solo le parole del suo confessore che la mettevano in guardia contro le idee del figlio “liberale”, in un'epoca in cui essere liberale equivaleva a “rivoluzionario”. Per giunta, in quel periodo ci fu la rottura del fidanzamento di Rosinella, la nipote prediletta di Don Saverio. La famiglia del fidanzato si rifiutava di imparentarsi con degli scomunicati. Donna Caterina adoperò tutti i mezzi a sua disposizione per convincere il figlio a ritrattare le idee contenute nel suo libro e a riportare la pace in famiglia. Ma egli fu irremovibile e la madre non gli rivolse più la parola fino alla fine dei suoi giorni. Giovanni mi dice che i ragazzi di oggi a sentire parlare di “scomuniche” si mettono a ridere. Come sono cambiati i tempi! Ma nell'800 c'era poco da ridere. Si trattava di una specie di morte civile: perdevi gli amici, almeno quelli più tradizionalisti, e non riuscivi, per esempio, a tenere una conferenza culturale nel paese. Allo scadere del XIX secolo, don Saverio era stato invitato a commemorare pubblicamente la morte del suo maestro Vito Fornari. All'ultimo momento la cerimonia fu impedita dal veto della Curia locale e allora egli pubblicò a sue spese il discorso che aveva preparato e lo distribuì agli amici. Giovanni ha fatto ricerche nell'Archivio diocesano per trovare traccia di queste “censure”, ma non ha trovato niente. Ha saputo però che il sacerdote, dopo la pubblicazione del libro, cioè dopo il 1881, non celebrò più messa nelle pubbliche chiese, ma solo nella cappellina fatta da lui costruire accanto alla sua abitazione. Don Saverio continuò comunque i suoi studi su S. Agostino e sulla filosofia di Gioberti e si dedicò all'educazione dei numerosi nipoti che vivevano con lui nella grande casa. Un giorno, il mio amico Giovanni mi raccontò delle due nipoti, Rosinella e Angelina, rimaste nubili, che lui aveva conosciuto ormai anziane. Egli era capitato nella loro abitazione, assieme ad un suo amico, per acquistare i libri dello scomparso sacerdote. I due giovani si meravigliarono di trovare due casalinghe che si orientavano benissimo tra gli argomenti culturali che loro proponevano, che conoscevano Dante alla perfezione e che sembravano aver frequentato un buon liceo. Le due donne descrissero loro la vita austera del loro “signor zio”, come lo chiamavano: la mattina egli si alzava alle cinque e celebrava la messa nella cappellina. Poi prendeva una camomilla e, con la compagnia di un bastone, si recava a piedi in campagna, percorrendo 4-5 chilometri al giorno. Lì incontrava gli altri nipoti che coltivavano gli uliveti di famiglia. Si informava dei lavori, seguiva le varie vicende degli operai, faceva da mediatore negli inevitabili contrasti che nascevano sul luogo di lavoro e poi tornava a casa, sempre a piedi. Non per nulla lo zio era riuscito a mantenersi in buona salute fino alla veneranda età di 89 anni! Le due sorelle raccontarono poi un simpatico aneddoto: quando erano bambine, al mattino, dovevano salutare il “signor zio” baciandogli la mano. Nei giorni di festa, egli apriva un cassetto della scrivania e le bimbe intravedevano un bel mucchio di confetti. Ma com'è, come non è, sarà che la mano dello zio tremava, sarà che lo faceva apposta, perché la parsimonia era di casa, i confetti che arrivavano alle bimbe erano sempre non più di tre. E così in famiglia, era rimasto il detto “i confetti di signor zio”, per indicare una situazione che si presentava deludente, dopo molte aspettative. Per quanto riguardava gli studi, poi, don Saverio era severissimo: gli orari di lavoro dovevano essere rispettati quotidianamente dai familiari, maschi e femmine. Due suoi nipoti, Giuseppe e Tommaso, furono da lui mandati a studiare a Napoli. Giuseppe ebbe degli ottimi maestri al Conservatorio e divenne un buon compositore di musica. Giovanni mi ricordava che di lui si conserva una marcia funebre ispirata al muggito del bue, che ha per titolo, appunto, “Il bove” e che viene suonata ancora oggi, con molta partecipazione popolare, durante le processioni della Settimana santa. Tommaso, invece, diventò un bravo pittore di scuola napoletana. Il ritratto che egli fece a suo zio rivela le sue capacità di osservazione psicologica del carattere. Don Saverio, con un libro in mano, guarda ad un orizzonte lontano, come assorto in un suo progetto avveniristico. Lo stesso nipote, poi, racconta Giovanni, fu decorato durante la prima guerra mondiale e di lui si fa memoria nel paese, che gli ha dedicato una importante strada ed una scuola materna ospitata nella vecchia casa di famiglia. Il ricordo di Don Saverio è stato invece cancellato nella memoria cittadina. Sempre dal mio amico, ho appreso con molto piacere che al giorno d'oggi i temi dibattuti nel famoso discusso libro del 1881 sono stati ripresi da una scrittrice molto combattiva, Adriana Zarri, una delle prime teologhe donne operanti in Italia. L'autrice, alla bella età di 89 anni, ha immaginato che, nel prossimo conclave, alla morte di Benedetto XVI, dopo mille contrasti venga elevato al soglio pontificio non un cardinale, ma un semplice prete. Egli prenderebbe il nome di Celestino VI, cioè si rifarebbe a quel Celestino V, che al tempo di Dante osò “il gran rifiuto” ed aprì la strada a Bonifacio VIII, papa simoniaco e fortemente autoritario. Le prime riforme che questo papa avrebbe fatto, sarebbero state: l'abolizione del celibato ecclesiastico, come avviene nelle Chiese ortodosse e protestanti, l'elezione dei vescovi e dei parroci da parte dei fedeli, l'abolizione dei cardinali e della Curia, e infine, cosa che ai tempi di Don Saverio era impensabile, il sacerdozio femminile. Il libro della Zarri è solo un romanzo storico o, meglio, “fantastorico” che però divulga idee che probabilmente sono più attuali di quanto si possa pensare. Io continuerò, intanto, col mio amico Giovanni, a esplorare tra gli scritti di don Saverio, perché mi sembra che quest'uomo meriti di essere conosciuto e che gli si dia voce anche dopo oltre un secolo di “oblio” e ringrazio coloro che mi hanno seguito con attenzione e tanta pazienza. lilianagad@alice.it P. S. – Il racconto è in parte frutto di fantasia e in parte riferito a persone realmente esistite. Per quanto riguarda la parte storica, mi sono servita dei ricordi di mio marito Giovanni Minervini e dell'unico scritto su don Saverio, pubblicato in “Luce e Vita – Documentazione”, n.1, Molfetta 1991, dal Prof. Giovanni de Gennaro. Il saggio è stato poi ripreso nel volume dello stesso de Gennaro, intitolato “La città di Salvemini – La classe dirigente di Molfetta dall'Unità al primo Novecento”, Ediz.Mezzina, Molfetta, 2000. (Qui ringrazio pubblicamente l'autore per le altre notizie fornitemi a voce). Il libro di Adriana Zarri ha per titolo: “Vita e morte senza miracoli di Celestino VI”, romanzo, Ediz.Diabasis 2008. Da citare anche Candido Arasieve (Saverio De Candia), La religione e i partiti estremi – Lecce 1881
Autore: Liliana Minervini-Gadaleta
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