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Il raggio davidico
15 maggio 2011

Procedeva cauto e silenzioso fra i cespugli, quasi carponi, bloccandosi poi di colpo: il nemico si guardava attorno, furioso per esserselo fatto scappare. Dopo un tempo che gli sembrò eterno pensò che l’unica arma contro la sagoma torva che pareva aver messo radici era il raggio, solo che per puntarlo avrebbe dovuto muoversi e questo voleva dire farsi scoprire. Il raggio non lo avrebbe ucciso, lo avrebbe solo fatto scomparire per un tempo abbastanza lungo perchè lui si mettesse in salvo. Comunque, per questa volta, l’avevano scampata tutti due: la fi gura tozza si allontanava riluttante inoltrandosi nel boschetto dietro la Chiesa sulla collina. Si alzò in piedi, indolenzito per la scomoda posizione forzata, e rimise in tasca l’arma. Era un’arma di sua invenzione. Il raggio, che solo lui poteva vedere, colpiva i nemici rendendoli invisibili. Quelli scomparivano – poi magari tornavano – intanto lui aveva avuto il tempo di escogitare una difesa, o di nascondersi, o solo di dimenticare, fi no al prossimo attacco. Si diresse a passi lenti verso il piccolo agglomerato di case ai piedi della collina. L’aria era già scura, quasi ora di cena. Se solo l’uomo non fosse tornato! Con lei era tutto più facile, tutto sommato era una brava donna, invece lui era già lì, irritato, insoff erente: “Eccolo, il signore, si è degnato di rientrare! – esclamò con quello che riteneva un tono sarcastico – Non hai cosa dire, vero? Ti addrizzerei io a cinghiate se solo quelli là poi non cominciassero a dare i numeri”. “Va’ su, – sussurrò la donna al ragazzo – dopo salgo io e ti porto la cena”. Il ragazzo si avviò a passi lenti su per la scala di legno che portava alla mansardina dove dormiva. Era uno spazio angusto, ma a lui bastava, e dal fi nestrino con le ante di legno si poteva vedere la Chiesa sulla collina. Era tutto buio ora, tranne che per una luce che brillava ad una fi nestra della casa canonica. Don Savino, il prete che era stato un pugile, sicuramente leggeva o pregava. Anche il boschetto dietro la Chiesa era immerso nel buio ma lui sapeva che non era deserto come poteva sembrare. Sentiva parlare i due nella stanza di sotto, a voce bassa. Tese l’orecchio. “Dagli ancora una possibilità – diceva la donna con voce lamentosa – è solo un ragazzo...” “Basta, sono stufo, è un idiota. Speravo di tirarlo su come un uomo perchè mi aiutasse nel lavoro, ma a scuola non rende e almeno per ora deve frequentare per legge, fa i suoi comodi, entra ed esce come gli pare. Fra un mese torna l’assistente sociale e allora...”. Non voleva sentire oltre, prese l’arma, puntò il raggio contro tutti due e li fece scomparire. Sì anche lei che non era capace di difenderlo. Al problema dell’assistente sociale avrebbe pensato poi, magari avrebbe parlato con Don Savino, chissà, poteva restare con lui. Non voleva andarsene. In fi n dei conti qui ci stava bene, poche case, pochi abitanti, la scuola, nel paese vicino, che si poteva raggiungere a piedi. C’erano i compagni che, in fondo, tranne il grosso, il nemico, quello che lo aveva preso come bersaglio, lo lasciavano in pace. Per gli insegnanti, tranne che per Don Savino che insegnava religione, era quello che non dava fastidio, bisogna lasciarlo stare, stupido non è, del resto nel nostro tipo di scuola basta la frequenza, la promozione non la si nega a nessuno. Per frequentare, frequentava, poi, fi nite le lezioni, c’era la libertà, anche solo di qualche ora, la libertà di andare al boschetto dietro la canonica e guardare le nuvole di giorno e ascoltare, di sera, le voci della notte. Non erano voci, erano solo fruscii, sibili, come un leggero alitare di vento, ma a lui sembrava di comprendere tutto. Come con la musica. Avrebbe potuto stare ore in Chiesa ad ascoltare Don Savino che suonava un vecchio armonium con le sue grosse mani e ne traeva suoni di un linguaggio intraducibile ma che a lui dicevano tante cose. Ora aveva anche il raggio davidico, l’arma di sua invenzione. L’aveva chiamata così perchè un giorno Don Savino aveva parlato in classe dei Salmi davidici. Non aveva capito molto ma gli piacevano, avevano un suono che somigliava alla musica e li aveva composti Davide, un re di migliaia di anni fa che da ragazzo aveva sconfi tto un gigante con una fi onda, un’arma certo non più grande della sua, e che era biondo e con gli occhi chiari, come lui. Quasi ai piedi della collina, in posizione opposta al villaggio, c’era una grande casa, “la villa”, la chiamavano, dove non andava mai nessuno, tranne una don-na per le pulizie, dal carattere chiuso e l’aspetto ingrugnito che nessuno osava interrogare sul proprietario. L’uomo viveva solo, si diceva che fosse una persona importante e che avesse perduto moglie e fi glio in un incidente di macchina – guidava lui – e da allora si ritirava per lunghi periodi alla villa, in compagnia di un grosso cane e dei suoi libri. Sulla sommità della collina c’era ancora sole e una luce morbida sfi orava radente il pavimento di cotto del salone già immerso nell’ombra. L’uomo sedeva in una grande poltrona, vicina all’impianto stereo, con un alano sdraiato ai suoi piedi. Il concerto n.4 in sol maggiore per pianoforte e orchestra di Beethoven era sempre riuscito a rasserenarlo. Gli sembrò di udire un rumore all’esterno, anche l’alano aveva teso le orecchie. Si alzò, accostandosi piano alla grande porta a vetri: c’era qualcuno fuori, immobile. Stranamente il cane non aveva abbaiato ed era tornato a sdraiarsi sul tappeto. Aprì cautamente la porta fi nestra, senza rumore, munendosi per precauzione di un grosso bastone che aveva sempre a portata di mano. Il ragazzo era accovacciato vicino a un cespuglio, “Mascalzone, – pensò – che starà combinando?” Lo guardò ancora, incredulo: ascoltava! Stringeva in una mano quello che sembrava un bastoncino di legno e non si mosse fi nchè non risuonarono gli ultimi accordi del concerto. La stranezza del caso gli dette da pensare per il resto della serata. Il giorno dopo, verso il tramonto – ascoltava Brahms, si avvicinò piano alla porta fi nestra, generalmente solo accostata. Sentì uno strano rimescolio: eccolo. Era lì, immobile, si era sdraiato accanto al cespuglio. Il cane corse fuori. Stava per richiamarlo, preoccupato, poteva essere pericoloso per gli estranei, ma si bloccò in tempo. La bestia non abbaiava, si accostò al ragazzo che non si mosse, e si sdraiò accanto a lui. Che stava succedendo? Per tutta la settimana si ripetè lo strano evento. L’uomo continuava a mettere sullo stereo i suoi concerti preferiti, soprattutto quelli per strumento solista e orchestra: pianoforte, violino, violoncello, Tchaikowsky, Liszt, Bruch, Mendelshon, Rakmaninov, Schumann...Appena la musica cominciava a riempire la grande sala si alzava dalla sua poltrona e andava a spiare se il ragazzo fosse lì, e ritrovarlo gli riempiva il cuore di un sentimento indefi nibile. Poi una sera gli venne uno strano impulso, voleva provocare il ragazzo, dispettosamente. “Vediamo se ti piace questo”, pensò. Scelse il Concerto campestre per clavicembalo e orchestra di Poulenc. Non era una musica facile, con quei suoni ora metallici ora dolci degli a solo del clavicembalo. Durante il secondo tempo si sporse cautamente dalla porta fi nestra: il ragazzo era lì, seduto per terra, col capo rivolto verso l’alto, le labbra semiaperte, gli occhi chiusi, e vedeva schiere di Angeli che ruotavano vorticosamente, travolgendolo. Il giorno dopo l’uomo andò trovare Don Savino. Parlarono a lungo, si rividero il giorno successivo. La sera l’uomo scelse con cura un disco che gli era caro e che non aveva ascoltato più da allora, la Quarta sinfonia di Mahler, “Ode alla gioia celestiale”. Al canto dolcissimo del soprano, all’ultimo movimento, uscì fuori, si fece vedere dal ragazzo che ascoltava con la mano sulla testa del cane accucciato vicino a lui. “Entra”, disse semplicemente. Il ragazzo si irrigidì visibilmente, si alzò, esitò solo per un attimo poi, prima di entrare, gettò via il bastoncino di legno che portava sempre con sè. Non gli serviva più.

Autore: Marisa Carabellese
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