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IL RACCONTO - Don Precisino
15 dicembre 2006

In quella solare isola del Tirreno, la quale nel periodo estivo, da maggio sino a settembre, vede più che triplicate le presenze grazie all'afflusso dei turisti, era capitato un prete ultrasettantenne, il reverendo padre Fernando. Costui era stato missionario in America Latina, in Africa e ultimamente in India donde era rimpatriato perché afflitto da diverse malattie; i suoi superiori religiosi gli avevano imposto l'obbedienza di sostare in Italia, per curarsi nel migliore dei modi possibili. Padre Fernando era stato ricoverato in un ospedale del Nord Italia per la più grave e pericolosa forma di malaria; era stato trasferito d'urgenza da Nuova Delhi nel tentativo di salvargli la vita. Le cure mediche, il destino e una buona spinta da Lassù lo avevano strappato per un millesimo di pelo alla dipartita definitiva. Dopo due mesi di degenza, rimessosi in qualche modo, avendo ripreso peso e colorito, dai suoi superiori era stato inviato come coadiuvante del parroco in quell'isola. Occorreva cooperare nel celebrare messe, matrimoni, battesimi, oltre a confessare e ad affrontare altre necessità della comunità dei turisti che, durante la giornata di riposo e di divagazioni proprie delle vacanze, non intendevano trascurare le pratiche religiose. Il prete titolare della parrocchia di S. Anna, una chiesetta in stile barocco costruita negli ultimi decenni del 1600 e ormai circondata da villini con giardini prospicienti il mare, era il parroco Don Precisino, appena quarantenne. Egli indossava la veste talare non avendo accettato la “modernità” del clergyman. Don Precisino non rideva mai; sul suo viso di giovane uomo dai lineamenti decisi ma non sgradevoli – se non fosse per l'espressione di corrucciosa seriosità che ormai li immobilizzavano come in una maschera – non compariva mai anche l'ombra di un sorriso. Uno psicologo avrebbe diagnosticato questa sua postura facciale come la proiezione diretta di quella mentale; come una formale, molto formale difesa-maschera per camuffare a se stesso ed ai parrocchiani una buona dose di incertezze irrisolte nel suo sub-conscio. Era ostinatamente soggetto a tutto ciò che fosse apparenza, ordine esteriore, con la millimetrica precisione con cui controllava la disposizione dei banchi in chiesa, ad una determinata identica distanza, la quale andava ispezionata e corretta e ricorretta quando i fedeli lasciavano i banchi medesimi, una volta terminate le cerimonie religiose. Che azioni e pensieri di un essere umano potessero essere nutriti e rinvigoriti con la fantasia, una sana e creativa fantasia, era possibilità del tutto fuori della portata dell'intelligenza di Don Precisino. Don Precisino faceva venire a mente il Simplicio di galileana memoria: nel “Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo” scritto da Galileo Galilei e pubblicato nel 1632, Simplicio è il nome di uno dei dialoganti che, poverino, non sa osare oltre l'Ipse dixit. Nei testi aristotelici era ipotizzato che il sistema nervoso avesse origine nel cuore. Ebbene davanti all'evidenza di un cadavere sotto diretta osservazione (autopsia) grazie alla quale è lapalissiano che l'origine del sistema nervoso è nel cervello, Simplicio si aggrappava testardamente alla scrittura aristotelica. Ossia preferiva rifugiarsi nella cieca obbedienza all'Autorità (Ipse dixit!!!) piuttosto che rischiare, per capire e affrontare la realtà effettuale. Il missionario, vissuto a contatto con diverse tradizioni popolari dal Centro al Sud America, all'India, all'Africa aveva arricchito nonché fortificato la sua fede. Amava ed esigeva l'ordine e la nettezza in tutto e per tutto nelle sue sedi di missione; era infaticabile nella sua attività di progettista e operaio di chiese, scuole, ospedali nelle zone più povere della Terra e valutava con rispetto nonché accettava gioiosamente, nel nome del Signore, le folkoristiche esibizioni degli indigeni quando costoro proponevano di inserire le loro danze e i loro canti nelle cerimonie religiose. Pertanto i suoni emessi da strumenti musicali della tradizione locale (come la marimba del Nicaragua o i tamburi dell'Africa) non contaminavano la liturgia, era convinto il missionario, anzi ne diventavano gioioso corollario. In parrocchia comandava il parroco Don Precisino che esigeva ubbidienza anche dall'anziano missionario nell'esplicare i doveri di viceparroco, a tempo determinato. Molti parrocchiani asserivano – mormorando alle sue spalle – che questo parroco avrebbe gradito continuare a celebrare la messa con le spalle al pubblico. Quell'altare che il Concilio Vaticano II aveva predisposto in modo tale che il sacerdote sia sempre rivolto ai fedeli e parli nella loro lingua era da Don Precisino caricato di eccessivi fiori e candele e lumini, nonché di microfoni e un grande, troppo grande messale. Le sue messe erano un susseguirsi di rituali amorfi, di “rubriche” ossia piccole norme eseguite con ottuso formalismo. Non permetteva che alcuno partecipasse alla preparazione del pane e del vino, prima della consacrazione, né ammetteva che, se ci fosse un altro sacerdote a conc-elebrare la messa, al momento dello scambio del segno e impegno di pace reciproco, il con celebrante scendesse dall'altare per avviare quell'abbraccio così ricco di significati con i fedeli in prima fila, i quali a loro volta dovevano coinvolgere gli altri situati nelle file che li precedevano. Però… però… quando si cantava durante la cerimonia religiosa, la voce baritonale del nostro parroco, potenziata dal microfono sull'altare, sobillava e dominava il coro dei fedeli. Era evidente che Don Precisino non cantava insieme al suo prossimo ma si compiaceva che la sua voce si imponesse e venisse propagata fuori della chiesa da un apposito altoparlante… forse perché arrivasse prima alle sfere celesti. Il missionario che era esercitato a vivere tra coordinate geografiche umane e spirituali le più varie, istintive e tanto, tanto meno formali, osservava il tutto con silenziosa e paziente ironia. Don Precisino non aveva avuto la possibilità di osservare don Fernando in terra di missione, dove come progettista e operaio nell'erigere chiese, ospedali, scuole… aveva tanto insegnato agli indigeni trasformandoli in bravi operai e buoni cristiani. Don Precisino pertanto non poteva mai e poi mai immaginare – data anche la portata veramente da siccità della sua intelligenza – quale Achille sul campo di battaglia fosse quel missionario che ora, convalescente e silenziosamente paziente, coadiuvava come vice parroco, in regime di obbedienza. Gli episodi che connotavano quella maniera provinciale di vivere i doveri di parroco si susseguivano quotidianamente. Durante la messa domenicale aveva rifiutato - coram populo - l'Eucarestia ad una signora nota per la sua attività assistenziale e d'apostolato, perché la medesima era giunta in chiesa quando la messa era quasi alla lettura del Vangelo. Don Precisino dichiarava di non avere tempo per confessare. In quei due mesi estivi fu il missionario a sobbarcarsi l'onere della confessione, sacrificandosi alquanto poiché l'antico confessionale in quella torrida estate del Sud gli procurava eccessiva sudorazione con conseguente calo di pressione. Ma i fedeli in attesa erano sempre numerosi. Allora Don Fernando decise di aprire porticina e tendina del monumentale confessionale per ricevere una certa areazione. Ma per questa “scomposta” decisione fu rimproverato dal parroco. Se Dio non è Misericordia, se la Chiesa e la Liturgia non si pongono e propongono al servizio dell'uomo per sorreggerlo con decisione e dolcezza (messi da parte autoritarismo e formalismi) in questa esistenza che tra guerre, egoismi di individui e di nazioni, confusioni etiche e comportamentali sta andando in tilt… allora, meditava il missionario, la funzione sacerdotale a che cosa si riduce? Le sofferte e complesse esperienze di missionario, a contatto con condizioni disastrose nei sud della Terra, volutamente trascurate o “usate” dalle politiche maligne dei potenti prepotenti, gli imponevano coordinate religiose e umane ben diverse. Rimaneva turbato nel sentire che i figli di una donna in gravissime condizioni, alla quale Don Precisino aveva portato il viatico poco più di due settimane prima, si lamentavano che il parroco si fosse rifiutato di ritornare al capezzale delle moribonda, su richiesta pressante della medesima. La poverina era consapevole di stare per morire, aveva pertanto bisogno di un'assistenza amorosa; né i figli con la loro assidua presenza riuscivano ad arginare le sue angosce; ella chiedeva l'aiuto e la parola del sacerdote. Ma don Precisino si era rifiutato; un viatico era sufficiente, aveva replicato ai figli. Si trattava del viatico in se per se o di accompagnare con affettuosa tenerezza di sguardi, parole, magari tenendole la mano, una creatura nel momento ultimo e più difficile della Vita? Altri episodi venivano chiacchierati in paese o sulla spiaggia durante le passeggiate serali sui marciapiedi del lungomare, passeggiate che si protraevano ben oltre la mezzanotte poiché il caldo invogliava turisti e residenti a rimanere all'aperto, sotto le stelle. Chi ricordava che ad una signora quasi ottantenne, alla quale il vescovo aveva concesso il permesso di distribuire l'eucarestia, don Precisino aveva vietato di esercitare l'incarico. Ancor più grave pareva ad alcuni parrocchiani il trascurare gli anziani. Infatti nella zona vivevano donne centenarie sole, trascurate dai parenti, dimenticate. Visite periodiche del parroco sarebbero state gradite come una boccata di ossigeno. Al missionario che si era reso disponibile per recarsi presso quelle vecchiette don Precisino aveva vietato tassativamente il permesso. Ma don Fernando, durante la celebrazione della messa, con garbo e abilità riusciva a mettere da parte qualche ostia consacrata… Così per qualche settimana di quell'estate le centenarie della parrocchia ricercavano eucaristia, consolazione e considerazione. Nonostante la temperatura particolarmente afosa e umida – incalzava un'altra fedele – il parroco aveva dato ordine di chiudere porta e finestre della chiesa durante le cerimonie religiose, perché il chiasso del mondo non contaminasse le sue cerimonie, il suo cantare assordante che dall'altoparlante veniva trasmesso fuori e imposto ai passanti. Ma l'afa asfissiante aveva esasperato i fedeli; alcuni erano usciti dalla chiesa prima che terminassero le cerimonie, altri avevano protestato ad alta voce nella chiesa stessa. Don Precisino era seduto alla sua scrivania, nell'ufficio parrocchiale. Evidente l'ordine su di essa; ben sistemati alcuni testi sulla parte destra del prete, mentre a sinistra un telefono lucidissimo e un crocifisso di notevole fattura si distanziavano; una piantina di violette africane faceva da separé tra religione e tecnologia. Don Fernando bussò con le nocche della mano sulla porta già aperta e attese che il parroco, alzando la testa china sul foglio sul quale stava scrivendo e, vedendo chi fosse, desse il permesso di entrare. Sentì… non sentì… sta di fatto che don Fernando dovette bussare per la terza volta affinché il “capo ufficio”, sollevando appena lo sguardo dicesse: a v a n t i ! Era il penultimo giorno di permanenza del missionario in quella località sul mare, nel profondo sud. Don Fernando si sedette ad una delle sedie prospicienti la scrivania (senza aspettare l'invito del parroco) e subito disse: “Domani mattina prenderò la prima corriera per l'aeroporto; per salutarla non voglio disturbare a quell'ora così inopportuna; pertanto ringrazio per l'ospitalità sperando di essere stato coadiuvante secondo le spirituali esigenze dei parrocchiani…”. Questa frase fu pronunciata con naturalezza e a voce bassa; in effetti conteneva quasi una provocazione nella speranza che Don Precisino, rispondendo, offrisse l'appiglio per un dialogo che rivelasse quella diversa maniera di interpretare e vivere la funzione sacerdotale, giacché l'anziano missionario sperava che il giovane parroco fosse invogliato a capire l'assurdo di certi suoi atteggiamenti. Don Precisino rispose: “Sappiamo benissimo entrambi che la convivenza nella mia parrocchia è stato possibile solo perché doveva protrarsi solo per due mesi circa. Comprendo che i missionari, abituati a vivere tra latitudini e longitudini così lontane e diverse dalla civiltà occidentale, siete un po' tutti strani … vi compiacete di fare gli originali e spesso siete incuranti o dimentichi delle direttive di Santa Romana Chiesa!...” Don Fernando sorrideva appena, in silenzio, poiché aveva previsto un commento del genere alla sua pur prudente (nonché frenata) e temporanea partecipazione all'assistenza religiosa di quella comunità parrocchiale. “Lo sa, caro Don Precisino, che nella Santa Romana Chiesa ci sono menti eccelse di sacerdoti, di prelati che studiano e ristudiano i testi sacri nonché meditano gli avvenimenti della Storia umana attraverso i secoli e, insieme ai Pontefici, ritengono necessario proporre, a determinati periodi di tempo, la convocazione di Concili durante i quali riunirsi e analizzare e discutere dei gravi problemi spirituali, morali e dei bisogni dell'umanità alla luce di un autentico Cristianesimo?” Stizzito, Don Precisino lo interruppe esclamando a voce alterata: “Che vuol dire autentico Cristianesimo …? Quali libertà dovremmo concedere alle nostre pecorelle smarrite? Dobbiamo elargire ulteriori “comprensioni” alle loro debolezze? Passare sotto silenzio eresie di pensieri e di comportamenti? …”. Don Precisino avrebbe continuato chi sa per quanto tempo con la sua voce possente e alterata se don Fernando, sollevando ambo le braccia e sempre con un bonario sorriso sulle labbra non avesse quasi sussurrato: “Precisino, permetti che ti dia del tu e che ti chiami figlio mio avendo trentadue anni più di te. Non devi assolutamente sentirti giudicato da me. È vero, siamo diversi ma intendiamo entrambi elevarci al Cristo, con tutte le creature che ci vengono affidate. Io prego che, andando avanti negli anni, tu possa capire e sentire il bisogno di una spiritualità con costruita con regole esteriori e fittizie, ma di una spiritualità consistente in un abbandono dolcissimamente fiducioso e senza condizioni nelle mani e nel cuore di Cristo. I grandi Santi… Francesco d'Assisi…. Vincenzo de Paoli…. Giovanni Bosco… padre Kolbe ed altri, tanti altri, spesso sono stati accusati di 'anticlericalismo' proprio per aver voluto vivere il Cristianesimo soprattutto come 'carisma' ossia dono di se al prossimo, amare il quale è la via maestra anzi è la scorciatoia per raggiungere Dio…” Don Precisino non lasciò che egli terminasse; si alzò infastidito esclamando: “Don Fernando, il vostro parlare è generico, pericolosamente generico … Ci sono delle regole da rispettare, ci sono delle tradizioni che non si toccano, ci sono dei “modernismi” che vanno combattuti perché diabolici mezzi per confondere ancora di più l'umanità e allontanarla dalle Istituzioni …” “Appunto le Istituzioni… - intervenne sempre con voce moderata il missionario – Se le Istituzioni fagocitano tutta la funzione religiosa e sociale della Chiesa, il Carisma viene arginato e sostanzialmente soffocato tra carrierismi, prestigiosi acuta ed 'esigenze' finanziarie … ossia tutto ciò che contraddice il comportamento e la Parola di Gesù … Il sabato è per l'uomo, don Precisino, non l'uomo per il sabato! Ricordiamo più spesso quella pagina del Vangelo e meditiamola: per gli Ebrei del tempo in cui viveva Gesù sulla Terra durante il sabato non si doveva lavorare, né addirittura camminare oltre i cinquanta passi. Però per salvare un asino caduto in un fossato (indispensabile mezzo di trasporto e di lavoro) alcuni si sentirono giustificati a camminare oltre i cinquanta passi 'regolari'… tuttavia i medesimi, scandalizzati, criticarono Gesù che di sabato aveva miracolato un pover'uomo dal braccio anchilosato il quale chiedeva con fede sincera di essere guarito…”. “Il sabato è per l'uomo non l'uomo per il sabato …” ripetè don Fernando e, alzandosi, salutò con un cenno del capo don Precisino che rimase seduto a guardarlo stupito, visibilmente contrariato, alquanto confuso. * Fatti e personaggi sono frutto di fantasia.
Autore: Gianna Sallustio
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