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Il movimento vetero-cattolico in Italia Frammenti di storia
15 maggio 2015

L’attuale posizione dei vetero-cattolici, aderenti alla Unione Internazionale Cattolica Antica di Utrecht, non è facile da inquadrare, in quanto si tratta di gruppi minoritari, molto attivi e critici, che, in mezzo a mille controversie, sono stati spesso travisati o misconosciuti, o, nella maggior parte dei casi, ignorati e considerati come scomparsi dalla circolazione. Rivolgersi al passato può illuminare in certo modo il presente e orientare nell’attuale “babele” di lingue che caratterizza il campo religioso, campo che comunque sta vivendo oggi un periodo di grande fioritura (“revival del sacro”). Già nel ‘400 il movimento della così detta “devozione moderna” nei Paesi Bassi, era giunta ad una concezione non dogmatica del Cristianesimo, basata su un’esperienza personale e immediata del messaggio evangelico, col ritorno così alla pratica delle prime comunità cristiane. Il fortunato libretto della “Imitazione di Cristo” di Tommaso da Kempis (1380-1471), presentava efficacemente l’ideale evangelico alle masse devote. Queste idee erano propagandate da PICCOLE COMUNITA’ DI LAICI INDIPENDENTI, che si propagarono per tutta l’Europa e talvolta si trovarono anche in contrasto con le strutture dell’apparato ecclesiastico (Sergio Moravia). Tutto ciò preparava il clima in cui si diffusero, nel corso del ‘500 i movimenti riformatori che via via si consolidarono nelle chiese protestanti luterana, anglicana, calvinista ecc. La chiesa cattolica fece un notevole sforzo per riorganizzare e rinnovare la dottrina e la disciplina ecclesiastica, attraverso il Concilio di Trento, che isolò le posizioni delle varie chiese riformate e instaurò il centralismo accentuato della Curia Romana e del Papato, centralismo perdurante tuttora, soprattutto nella prassi quotidiana, nonostante la svolta del Concilio Vaticano II. In particolar modo, attraverso l’ordine dei Gesuiti, venne ribadito il PRINCIPIO DI AUTORITA’, per il quale la valutazione morale non dipende dalla sofferta responsabilità del singolo, ma da una complicata ed esteriore “casistica” di cui il confessore diviene interprete “autorizzato”. Contro questa tendenza insorse polemicamente il vescovo fiammingo Cornelio Giansenio (1585-1638) che, rifacendosi alle idee di S. Agostino, insisteva sulla malvagità umana e su un Dio assolutamente trascendente e imperscrutabile, (un vero “Dio nascosto”, come fu detto), il quale dalla gran massa destinata alla perdizione, sceglie solo un piccolo numero di eletti. Una posizione, come si vede, molto vicina a quella riformata calvinista. Il giansenismo, molto avversato e combattuto dai gesuiti, ebbe in Francia, col filosofo Biagio Pascal e il monastero di Port-Royal, il suo centro maggiore ed influenzò in gran parte il pensiero europeo, anche laico; infatti la borghesia nascente e le monarchie nazionali, ostili alla teocrazia papale, trovavano appoggio alla loro azione nella distinzione che il giansenismo faceva tra sfera temporale e sfera spirituale dell’uomo, distinzione che già Dante nel medio evo aveva espresso con la immagine dei due soli, rappresentanti la vita politica e la vita religiosa, indipendenti tra loro. Nel campo educativo l’accento era posto sulla AUTONOMIA DELLA PERSONALITA’ e, anche se le regole delle “piccole scuole” giansenitiche erano severe e talvolta un po’ dure, i maestri erano RISPETTOSISSIMI DELLA COSCIENZA dei loro allievi “ospitanti nel loro cuore innocente lo Spirito Santo”, “li trattavano con carità e dolcezza e avevano trovato il segreto di farsi ad un tempo amare e temere da essi” (E. Codignola). Al Giansenismo si ispira il “poco cono- sciuto” movimento ecc l e s i a s t i c o -po l i t i c o napoletano, formato da uomini di dottrina e fermezza non comuni” (B. Croce), che respinsero le ingerenze e le p r e p o t e n - ze della Curia Romana, nel Regno di Napoli, considerato, sin dal tempo degli Angioini, feudo della Chiesa. A tal proposito si ricorderà che ogni anno veniva offerta al papa, dal Re di Napoli, una cavalla bianca carica di denaro, la “chinea”, in segno di vassallaggio. Questa usanza venne messa in discussione nel corso della lotta giurisdizionalista del ‘700, per l’indipendenza dello Stato dalla Chiesa. Gli uomini che portarono avanti questo movimento di politica ecclesiastica furono Antonio Genovesi e i suoi discepoli, Domenico Forges Davanzati, vescovo di Canosa e Giovanni Andrea Serrao, vescovo di Potenza, i quali in seguito parteciparono di persona alle vicende drammatiche della giacobina Repubblica Partenopea. Essi furono detti “regalisti”, perchè erano vescovi nominati dal re e poi confermati, sia pure con molte resistenze, dal Papa. L’elezione dei vescovi era (ed è tuttora) una questione molto dibattuta. Andrea Serrao sosteneva che “il gran potere attuale dei papi non è affatto quello dato da Gesù Cristo a S. Pietro, ma quello che in tempi di ignoranza essi avevano usurpato a tutti i vescovi, i quali, secondo la disciplina antica, erano eletti dal popolo in accordo col clero e che al Concilio di Trento ERANO ANDATI VESCOVI E TORNATI VICARI”. (Attualmente tra i vecchi-cattolici, “il vescovo viene eletto dal sinodo che è composto per tre quarti da laici e un quarto da ecclesiastici. I laici inviati al sinodo, sono a loro volta eletti dai parrocchiani. Il vescovo quindi non viene imposto DALL’ALTO, ma è scelto dal popolo di Dio; il che significa, parimenti, che i fedeli sono corresponsabili della nomina” (Kraft, dei Vecchi Cattolici a “Jesus”, 1989). Tra i giansenisti italiani troviamo ancora Scipione dei Ricci, vescovo di Pistoia, Eustachio Degola a Genova, Pietro Tamburini a Pavia, Monsignor Bòttari a Roma, e ancora nel Regno di Napoli, Monsignor Capecelatro a Taranto, il Troisi e il Cestari. Essi influenzarono la vita religiosa italiana fino a tutto l’ottocento, attraverso uomini come Alessandro Manzoni, Cavour, Mazzini, Lambruschini, Capponi e altri cosiddetti “cattolici liberali”. In seguito, nel clima arroventato dei rapporti Stato-Chiesa del periodo postrisorgimentale, ritroviamo l’eco dei secoli precedenti nel movimento cattolico modernista: un’ansia di rinnovamento, un bisogno di libera discussione, una indagine che non debba pervenire necessariamente a conclusioni prestabilite. Ci furono, in realtà, vari modernismi: uno dogmatico-filosofico, dell’irlandese George Tyrrell, imperniato sul concetto della evoluzione del dogma, che dovrebbe mutare secondo i periodi storici; poi il modernismo storico di Alfred Loisy, che studia i Vangeli come documenti storici qualsiasi, che vanno affrontati con strumenti scientifici appropriati, indipendenti da presupposti religioso-soprannaturali. (Il Loisy, discepolo di Renam, considera la religione come una ESPERIENZA MORALE, o meglio come “lo spirito” che anima la condotta dell’uomo). C’è poi un modernismo politico che vagheggia una Chiesa conciliata con la democrazia e, se possibile, col socialismo (movimenti questi condannati dal Sillabo di Pio IX il 1864), una Chiesa avvocata dei poveri contro i ricchi (pensiamo alla recente “teologia della liberazione” in Sudamerica). Ed inoltre un modernismo che guardando alla struttura interna della Chiesa, pensava ad una riforma democratica, con la elezione “dal basso” dei vescovi e la soppressione del celibato ecclesiastico. Infine un modernismo preoccupato di eliminare contrasti tra scienza e fede e di dare così al “Genesi” una interpretazione COMPATIBILE CON LA DOTTRINA della evoluzione e con i risultati della paleontologia. Esigenze ben diverse, tutte queste, legate però dal bisogno di abbandonare la tradizione e di eliminare l’obbedienza umile e incondizionata all’insegnamento della Chiesa. In Italia il movimento modernista andò da moderati come Bettino Ricasoli e Ruggero Bonghi a studiosi come Ernesto Bonaiuti, Salvatore Minocchi, padre Semeria, Romolo Murri, Tommaso Gallarati- Scotti, duca di Molfetta, Umberto Zanotti-Bianco ed in fine al popolare romanziere vicentino Antonio Fogazzaro. Il modernismo venne condannato da Pio X il 1907, ma ormai le sue idee sono in gran parte entrate nel patrimonio culturale comune, specie dopo la svolta del Concilio Vaticano II, che ha “aperto” la Chiesa di Roma alle sollecitazioni del mondo moderno. Per concludere vorrei riportare quanto dice il vescovo Kraft nella intervista a Jesus a proposito della infallibilità pontificia, questione che aveva diviso la cattolicità, specie nei paesi tedeschi al tempo del Concilio Vaticano I (1870), suscitando le proteste del teologo Ignazio von Dollinger e la formazione del movimento dei Vecchi Cattolici. Tra i Vecchi Cattolici “uso dell’autorità e ministero vengono dal basso verso l’alto, come era agli inizi del cristianesimo. Tutto ciò corrisponde – al contrario del centralismo – alle reali esigenze locali dei fedeli”. Esiste il “diritto alla parola e il diritto di decidere comune a tutto il popolo di Dio, battezzato e cresimato... Il problema che noi definiamo del PETRUSAMT (ufficio di Pietro) è distinto dal PETRUSDIENST (il servizio di Pietro). Noi non respingiamo affatto il “servizio di Pietro”, ma troviamo eccessivo il fatto che il Papa decida da solo; è qualche cosa che non esisteva agli albori del cristianesimo e non pensiamo debba esistere oggi. Noi Vecchi Cattolici siamo dell’avviso che un collegiale PETRUSAMT, come viene esercitato da noi nei nostri sinodi e che non porta a decisioni solitarie, possa servire maggiormente alla causa del Vangelo e alla sua diffusione”.

Autore: Liliana Gadaleta Minervini
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