MOLFETTA - Memoria è propriamente la facoltà di ritenere un ricordo, di tenerlo presso di sé. Non come qualcosa da rievocare per certe occasioni, quando ci fa comodo, ma come qualcosa da assumere nel nostro stesso modo di fare, nella cultura, nella propria identità.
Ora, la giornata della memoria è da ritenere come un modello, un esempio pratico di ciò a cui può condurre una cultura che si impregna di intolleranza, come l’archetipo di una degenerazione identitaria in cui si costruisce il proprio riconoscimento nell’eliminazione totale della diversità. E tale modello è tanto più pregnante per il nostro contegno morale, quanto più rivela la propria realtà.
Non è vero, allora, che il ricordo dell’olocausto, di un fatto determinato, reale, storico, è poco utile al fine di una critica dell’attuale stato di cose, in cui il razzismo riemerge piano dal sistema valoriale meschino in cui si è insinuato, in anni di politica malsana che ha gradualmente recuperato antichi sentimenti di esclusione della diversità dal proprio orizzonte umano e di diritto. Quell’esempio ci ricorda praticamente gli effetti di un certo modo di rapportarsi alla diversità che, sedimentandosi nella cultura dominante, tende a radicarsi e a crescere, fino alla chiusura identitaria su cui si consolida un punto di vista assoluto sul mondo, al di fuori del quale ogni sorta di violenza e oppressione è legittimata, o addirittura necessaria.
L’assunzione di tale modello è il modo migliore per non prendere con troppa leggerezza la chiusura di uomini e donne sfuggiti alla fame e alla disperazione in Centri di identificazione e di espulsione in cui non contano l’umanità e i bisogni delle persone, ma la loro appartenenza geografica; per non assistere con troppa naturalezza alla morte di esseri umani che, su navi di fortuna, mettono in gioco la propria vita nella speranza di essere liberi; per non demandare alle logiche del diritto internazionale il fatto che un popolo opprime un altro; per non ignorare le conseguenze di un modello economico che fonda il proprio successo sulla creazione di masse di diseredati.
L’olocausto nazista e l’antisemitismo fascista ci fanno toccare direttamente, nei fatti, gli effetti di certi valori che, più che fenomeni estranei al nostro modo di essere, sono veleni striscianti nelle sacche di passività delle culture che sfuggono al confronto per rispiegarsi nella propria esclusività, per occupare un punto di vista privilegiato sul mondo a partire dal quale il diverso viene sempre più osteggiato, fino ad essere disprezzato e spinto in basso al rango di essere inferiore. Fino ad essere escluso dall’universalità dell’umanità, che costituisce non un valore fra gli altri, ma la sostanza stessa del nostro stare al mondo, e che ci rende, come tutti gli altri, degni di essere liberi, escludendo ogni presunto privilegio e consegnando la nostra identità alla possibilità di scegliere, di decidere di sé stessi.
L’olocausto è la storia di uomini e donne private fino alle estreme conseguenze dell’umanità, del carattere supremo che fa di ogni uomo una persona “ospitata” in un mondo, e proprio per questo libera.
Se questo è un uomo (Primo Levi)
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
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