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Il capitano De Candia e gli altri liceali caduti nella Grande guerra
15 novembre 2008

Tra i liceali guerrini, cioè partecipi alla “grande guerra”, possiamo per un opuscolo (“Tommaso De Candia eroe e pittore”), pubblicato dal fratello Ignazio nel 1936, avere discreta nozione del capitano De Candia, a mio sapere più d'un altro capitano, cui Mauro Uva dedicò una sobria biografia nella “Galleria degli uomini illustri di Molfetta”, Domenico Picca. Ma questi è molto più noto, perché il suo nome sostituì il toponimo storico “Piscina Comune”, piazza di confluenza dalle settecentesche “Camere nuove” e dall'ottocentesco rione San Gennaro, per la presenza del “palazzo” di famiglia in capo alla via dallo stesso nome e per la notissima caserma barese a lui intitolata. Uva lo dice eponimo d'altri più importanti edifici in città portuali. La via De Candia invece, sita tra gli edifici secondonovecenteschi ad est di via Baccarini, non ha rilevanza. La celebrazione del novantesimo anno di Saverio La Sorsa, scritta dal figlio di questo, annovera tra i suoi discepoli il futuro capitano. I due capitani ebbero comuni l'anno di nascita (1892), la milizia in Libia, la partenza qual tenenti per il fronte alpino, ed attigue nel tempo le rispettive licenze liceali (Picca il 1900-01, De Candia il 1901-02). Le due stirpi iscrissero al liceo alquanti rampolli. L'aura democratica del governo ”salveminiano” di Francesco Picca (1902) può aver circonfuso i congeneri, mentre Ignazio De Candia, anch'egli ufficiale nella guerra che uccise Tommaso, ascrisse ai suoi una diversa cultura e tradizione (ha avuto influenza sull'opinione pubblica?): impegno etico-professionale, completato dal manuale (esercizio agricolo), artistico (compresa la musica) e diportivo (tra cui caccia, ciclismo, nuoto, pesca, perfino biliardo e scacchi). Il padre commerciante per esempio era pianista, Tommaso pittore. L'arte di questo, esplicata anche in armi, Ignazio ampiamente espose nella biografia e in una mostra contemporanea a questa. Tommaso fu “tetragono” nell'espressione dei valori, inculcatigli da “nonni paterni, genitori ed uno zio” filosofo, comprendenti “la necessità di gerarchia e disciplina” e confermati dalla madre “pia senza affettazione ma un po' spartana coi figli”. Fu “spartana” un po' tutta la pedagogia di casa, non ostanti le arti liberali e il biliardo, e tale qualità fa presagire al lettore l'incontro con un altro spartanismo etico-fisico e politico. Tommaso non vide nascere il fascismo, ma suo fratello non esitò a definire la famiglia “cattolica e nazionalista - che poi vuol dire fascista per natura”. In definitiva un fascismo prefascistico. E non insisto sulla sua identificazione di cattolicità, nazionalismo e fascismo. Sono questi i motivi della qualifica d' “eroe” e della scelta del tempo di pubblicazione, a vent'anni dalla morte di Tommaso e dopo l'impresa d'Etiopia: “ora solo possono ricomparire le figure eroiche che sognarono già nella grande guerra [mio il corsivo] l'Italia imperiale. Lasciamo quindi che questi giganti si levino”. Quanto alla grande guerra, aveva ragione quel soldato che difese Tommaso Fiore, come ha scritto Ignazio Pansini su questo mensile, ed avevano torto coloro che, come Gaetano Salvemini, furono affascinati da una rivivente retorica risorgimentale. Dagli stralci di lettere nel libro si desume la coerenza del pensiero del giovane con la cultura familiare. In Libia infatti Tommaso andò volontario e furono autentici gli amori sia della patria sia della pittura. Non m'interessano gli eroismi né le sublimazioni militari, è tuttavia corretto riconoscere una scelta ideale e la coerenza con essa. Ma quella guerra fu un imbroglio della monarchia, della casta militare, delle aristocrazie gentile e capitalistica (troppo noti i motivi, per ripeterli) ai danni d'un popolo ignaro del suo diritto a non guerreggiare senza ragione. Non lasciamoci fuorviare dall'epopea (vera!) del Piave. Se il cafone murgiano e il terragnolo langhigiano per esempio trovarono al fronte la comune italianità e i contadini analfabeti v'impararono a scrivere, posto che siano entrambi parimenti beni dell'individuo e della nazione, ciò è motivo di biasimo per la politica e l'istruzione pubblica, che non avevano saputo formarli ed istruirli in tempi e luoghi civili. Non deve far scuola un massacro. Ma ai politici era bastato che i rappresentanti dei latifondisti meridionali in parlamento svendessero agl'industriali del nord gl'interessi del sud. Il pittore-eroe era stato intraprendente, perfino temerario nelle azioni di guerra e trascinava la truppa con l'esempio sia in Libia a Misurata sia sulle Alpi ad Oslavia. Prima dell'immane quarta battaglia dell'Isonzo (novembre 1915), in cui conseguì una medaglia d'argento, scrisse al fratello: “Senza rimpianti, se è destino, si lascerà la vita per la grande causa”. Fu due volte gravemente ferito (donde la medaglia e la promozione a capitano) e tornò al fronte, ma il 15 agosto 1916, durante una rassegna dei suoi soldati in trincea, per dare pane e coraggio, mentre aspettava un attacco della fanteria austriaca, fu sorpreso da un improvviso fuoco nemico e morì accidentalmente. Prima d'esser traslato a Redipuglia, egli ebbe sepoltura in un cimitero intitolato a lui e suo fratello vi fece apporre una lapide. Nel discorso di dedica d'un'aula agli studenti caduti il prof. Domenico Magrone ricordò di Tommaso l'audacia e l'amore della pittura: “ […] Anima temprata nel pericolo e nell'audacia, calma nella persona modesta e gentile. Desti tutto alla Patria, cadesti col sorriso nel volto esanime; artefice dei colori della natura, giacesti forato come selvaggio bugno […]”. Anche Picca dopo due mesi morì nella strage causata da un proiettile casuale. Di lui disse l'oratore: “Biondo, bello era, e di gentile aspetto; occhi cilestri, d'oro la barba e il crino, alto e robusto, anima di fanciullo, impavido eroe […] portava seco le ali fulminee della vittoria […]”. Primo tra i nostri liceali dopo soli nove giorni di guerra cadde il tenente bersagliere (medaglia di bronzo) Angelo Lusito (così nei registri), studente di prima classe nel 1901-02: “Ma il tuo sguardo […] è sempre attraente, come il tuo canto, e ben altre virtù si appalesarono in te, quando spingevi all'assalto il tuo irresoluto reparto”. Nello stesso anno, insigniti rispettivamente di bronzo e d'argento, caddero il “capitano Umberto Magrone, scelto fra gli scelti, che pagasti col tuo sangue la conquista del San Michele, nome imperituro di Gloria e di martirio”, giunto alla licenza liceale nel 1890, e il sottotenente Silvestri Michele, liceale dal 1907 al 1909, che il prof ricordò così: “conquista il colle più volte contrastato dal nemico: è alla testa della sua compagnia, si slancia, discaccia il nemico”. Frasi un po' generiche (perché svogliato lo studente?), ma il sacrificio alla patria è superiore ad ogni altra prova e riscatta un corso scolastico mal condotto. E' nell'etica del sistema (che ne pensava il ventiseienne Silvestri?), che non ammette obiezioni alla leva e a chi decide anche una superflua guerra, ma commina ed esegue fucilazioni e costringe altri giovani a farsi “levare”. Se in guerra insieme con “le teste gloriose” non andassero teste coatte, dovrebbero andarvi coloro che vi pongono i propri interessi (richiamo il commilitone di Fiore), ma restano a casa. Giacomo Ciccolella conseguì la licenza liceale nel 1899-1900. Seguono quelli che, come Silvestri, appartengono ad una generazione scolastica di mezzo. Entro il 1910 studiarono Michele Carabellese, licenziato nel 1909-10, nato nel 1890 e caduto capitano nel 1918; Vincenzo Francavilla (“Sorride tuttora il poeta della vita e dell'amore […] dalla chioma ricciuta e nera, dall'occhio mobile, nero, vivace; di brigate lieto cantore, vate soave, guerriero impavido e valoroso, come nel foro”), nato a San Ferdinando di Puglia nell'87 e licenziato nel 1905-06, forse avvocato (“nel foro”); Giuseppe Introna (“Mesta rimembranza è la tua […] anima gentile, rapito all'amore di tua madre […] Il tuo ideale fu sempre: fede e patria”) in prima classe il 1902-03, e Vincenzo Marcolongo (“ancora imberbe […] acceso di vivo amore, cade pugnando, col nome Italia”), nato nel 92 e studente in prima nel 1909-10 (forse l' “imberbe” si riferisce agli anni del liceo: nel 1910 Vincenzo aveva 18 anni). Il decennio meglio studiabile sui registri è il 1900-09, gli altri sono difettosi o per irreperibilità o per combustione di registri. Molto eloquente l'evocazione del Carabelle-se (un argento, tre bronzi) forse anche per la sfortunata morte, ma più per riguardo ai tre intellettuali di tal lignaggio (uno storico, un penalista e un filosofo) e alla “stirpe”, in cui i liceali furono frequenti. “Ai giovani leoni, tutta notte nutriti dall'odore dell'aspra terra, tu, capitano Michele Carabellese, col tuo umano alito magnificasti la morte, e l'anìma tua pura vinse un più puro ideale. Preferisti ai degni e meritati riposi, la durezza del campo: invalido con le ancora aperte ferite corresti alla tua gloria. Avevi nello sguardo la nobile fierezza della stirpe [corsivo mio], nella voce, spesso rotta e dardeggiante, la espressione di una volontà indomita, anche ribelle: voce di scherno che fischia, sfonda e taglia, come la tua spada infranta. Cadesti a Vittorio Veneto il dì che precedette alla vittoria, perchè fossi il messaggero del superbo avvenimento nei superni cieli.”D'Antonio Panunzio al momento non è certificabile l'identità, pur essendo stati quattro gli studenti di tal nome tra il 1900-01 e il 1913-14. Il Giovanni Panunzio dell'inqualificante targa nella modesta via, che costeggia la scuola “Battisti”, è il preside del liceo vescovile e poi del comunale, fondatore d'un collegio per studenti forestieri in corso Vittorio Emanuele II e dedicatario della biblioteca comunale. Restano, se Antonio Panunzio non è tra loro, i più giovani degli studenti celebrati dal Magrone: Nicola Lezza (96), caduto il 17, Giuseppe Rotondo (96), Mauro Marzocca (97), caduto il 17, Diego De Donato (98). D'essi solo il Lezza ricevette più tardi l'onore d'una via molto lontana da quelle del gruppo guerrino. Essi frequentarono il liceo negli anni immediatamente precedenti e nei primi della guerra: 1915-16 in seconda Lezza (“ […] tornasti dai tuoi, dalla Romania, per portare il tuo sincero contributo alla Patria. […] Rimanesti solo nell'aspra pugna in quella triste giornata, non cedesti al nemico, lo guardasti negli occhi, e spingevi all'assalto, fino a che la barbara scheggia non ebbe infranto il tuo bel corpo”), in terza De Donato (“Il tuo sguardo attira il passante, Diego De Donato, fanciullo leggiadro, amore delle sorelle, sempre lieto e gaio: cantavi i versi della Patria che non vedesti vittoriosa […]”), 1914-15 in terza Rotondo, in prima Marzocca (“Caro ricordo lasciaste di voi: Bufi Sergio ed il buon Marzocca, veri pionieri del nuovo amore dell'italo sacro suolo […]”). Questi ragazzi furono strappati alla scuola e mandati a morire nei micidiali (per loro) assalti di Cadorna fino a Caporetto, poi toccò ai “ragazzi del 99” far argine sul Piave. “La scuola ebbe il suo ultimo slancio. Non mancò all'appello: le sue aule addivennero mute e deserte; pochi i rimasti”, “E' il nuovo esercito: sono le Compagnie dell'ultimo bando, ultimogeniti della Madre sanguinosa, pei quali nel solco della battaglia è risorto l'alloro”, disse il professor Magrone, glorificando la riscossa e la scuola, dopo aver deplorato Caporetto: “E gloria sia imperitura a te, Peppino Rotondo, dalla mente vasta, di un cuore indomito, fanciullo di precoce ingegno, indagatore severo dei classici, nutrito di patrio amore, dal suo studio alimentato; non potevi tu sopravvivere al disonor di Caporetto, desti te stesso in olocausto, perchè l'onta fosse vendicata”. Del ten Sergio Bufi, morto nel 16, nessuna notizia scolastica, se egli non è registrato con altro nome personale, perché spesso i registri tralasciano parti di multipli nomi. Qui finisce la lista dell'appello del prof. Magrone. Ma un'altra lista è sulla lapide, affissa nel vestibolo del Liceo e differente dalla magroniana, salvi (perché?) tre nomi: Marzocca, De Donato e Rotondo. E questo è un problema. Potremmo pensare che Magrone abbia commemorato i nativi di Molfetta e la lapide abbia recuperato i forestieri, ma Marcolongo e Francavilla sono dauni per nascita (e a quei tempi di solito si viveva dove si fosse nati, i parti avvenendo nelle case), mentre il tenente Michele (non Giuseppe come sulla lapide) Galeppi, nato nel 93 e caduto nel 16, dal “Nastro Azzurro” risulta molfettese. Il molfettese Lezza Giuseppe della lapide esiste nei registri, ma nacque nel 70 e si maturò nel 90. Ma potrebbe essere lo stesso Nicola, nato da molfettesi a Campina (Romania) e citato con un secondo nome. Del tenente Paolo Poli per esempio i registri non riportano un primo nome, inciso in iniziale (F.) nella lapide. In questa sono foresti per nascita solo Barile (Terlizzi), De Toma (Andria), De Venuto (Giovinazzo). Non continuo la disamina ed, omettendo i non reperiti nei registri, dopo quella del luogo natale considero la discriminante dell'età (anagrafica e scolare). Barile nacque nel 95 e fu liceale dal 12-13 al 14-15; in terza frequentò il solo primo trimestre. Poi, ventenne, volle darsi alla patria o dovette arrendersi alla leva. De Toma nato nel 96 era in seconda il 13-14; De Venuto era impigliato in difficoltà e nell'esame di licenza del 14 ottenne solo l'idoneità alla seconda classe. Di De Donato, Marzocca e Rotondo s'è già detto che tra i celebrati dal Magrone sono più giovani. Resta Paolo Poli: nato il 96 e studente di seconda nel 13-14, fu, se i corsi, come pare, non erano distinti in sezioni, nel 12-13 compagno di (prima) classe di Barile, De Toma, Rotondo e De Venuto (oltre un Bufi). Neanche l'età dunque discrimina i due gruppi. Non è valida nemmeno la discriminante delle decorazioni con medaglie e croci: tra i liceali in lapide Galeppi ebbe l'argento, tra quelli dell'elogio magroniano alquanti non ne furono insigniti. Forse il criterio della lapide fu quello di completare l'elenco del Magrone in ordine agli ultimi di leva e di studi e rimediare alla loro esclusione dall'onore dell'aula e della lampada votiva. O i loro corpi furono identificati dopo la dedica e il discorso. Ma con quale criterio furono loro dedicate vie della città? Le vie Bufi e Galeppi sono in zona primonovecentesca parallele a via Cavallotti e quelle degli altri, tranne Lezza, in una secondonovecentesca affluenti a via Baccarini (cui la De Candia è parallela). Dei molfettesi della lapide furono onorati con strade solo Poli (“titolare” anche dello stadio) e Galeppi oltre che Marzocca e forse Lezza, già celebrati dal professore. A quali impulsi obbedirono i consigli comunali, per onorare questi giovani, studenti o già studenti liceali? Fu la qualità della medaglia (d'oro: unica “guerrina”) a rendere a Picca l'accesso alla pinacoteca degl'illustri nel Palazzo di città?
Autore: Antonio Balsamo
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