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I racconti di Mirka. La poesia di Maria Addamiano
15 aprile 2011

Gigante / la mano / callosa, / forte, / che mi ha portato / via / ogni cosa. / La stretta / sicura / ha deciso / la mia vita / futura: / non più / una madre / distratta / da mille pensieri, / non più / un padre / alto e severo, / né semplici / giochetti / coi fratelli, / né cugini, / né amichetti. / Intorno a me / il vuoto / folto / di silenziosi / aff etti / mai spesi. Questa poesia di Maria Addamiano, presente nella silloge Dell’amore... il silenzio, può considerarsi il primo nucleo dell’agile romanzo I racconti di Mirka, recentemente pubblicato dall’autrice per i tipi di Ed Insieme, con due introduzioni: interessante e documentata quella di Leonardo La Forgia; poetica, direi, quella di Renato Brucoli, il quale coglie ed esplicita il “grido” “sotterraneo”, ma “intenso”, “da spaccare i timpani”, che percorre l’intero ordito dell’opera. La versatilità dell’autrice, pittrice, scultrice e poetessa, emerge nitidamente nelle volute di una prosa estremamente armoniosa e a tratti lirica, non priva di qualità pittoriche, evidenti nella capacità dell’Addamiano di far risaltare i cromatismi insiti nel paesaggio lucano (e non solo) e di procedere, in numerose descrizioni, per macchie di colore altamente evocative. Si pensi, ad esempio, all’immagine della cappa nera, che desta inquietudini in Mirka al punto da trasfi gurare il tutto sommato mite zio Tino in una sorta di demone; in un altro passo del romanzo, anche i contadini in attesa di essere ingaggiati per lavori occasionali, avvolti in tale abbigliamento-bozzolo, saranno paragonati a “fantasmi neri”, vittime della piaga della disoccupazione. Il nero assume connotazioni di negatività agli occhi dell’estrosa e sognante Mirka anche perché colore dell’auto che, scientemente e poco pietosamente, l’ha condotta via dalla famiglia di origine per affi darla a una coppia senza fi gli, in un paesino lucano senza nome – “spersonalizzante, anziché identitario”, come scrive Brucoli. Forse proprio per cancellare il ricordo traumatico di quell’auto nera, Mirka scoprirà la sua vocazione di artista, di cui seguiamo la genesi nel momento in cui la piccola comincia a far incetta di gessetti, allo scopo di colorare la realtà che la circonda. Una realtà che, almeno inizialmente, ella respinge con forza: prova ribrezzo per l’odore della dimora degli “zii”; il dialetto lucano le appare incomprensibile litania, quasi la magica formula di un’inquietante fattucchiera; si sente una “conchiglia vuota” “che, cacciata violentemente da un’onda, non è più tornata in mare”. Patisce la solitudine e si affi da a un Angelo Custode; la mancanza di una vera madre – non riconosce come tale la “gigantesca” zia Clara – la indurrà a improvvisarsi tale per una pupa di pezza da lei stessa modellata (come Maria plasma le sue sculture in terracotta o in cartapesta) e, successivamente, per il fi glio di una vicina, Anna. La vicenda di Mirka, con il suo senso di spaesamento nell’adattarsi alla nuova realtà, conoscerà una sorta di correlativo in quella del riccio, dallo zio Tino strappato al suo letargo e al suo habitat per rallegrare la solitudine della piccola. La diff erenza tra i due destini consiste nel fatto che l’animale sarà restituito, per le insistenze di Clara, alla naturale libertà, mentre la piccola trarrà conforto solo da periodici ritorni alla famiglia d’origine e dalla memoria del tempo passato, da cui scaturiscono anche preziosi e sapidi quadretti come il salvataggio di un’oca incautamente sprofondata in un pozzo. I racconti di Mirka sono, tuttavia, anche la storia di un graduale adattamento al dapprima straniante contesto e della germinazione lenta di un nuovo senso di appartenenza, complici il sorriso gratia plenus di Sant’Eufemia e la recita di un rosario che la bambina comicamente deforma attraverso il fi ltro di una smodata fantasia. Complice un lievito d’amore che diviene social catena contro la piaga di una cocente povertà, Leitmotiv dell’intera opera... Mirka comincia a nutrire un sincero aff etto per quel mondo in prima battuta rifi utato e per quegli zii a cui misteriosamente Dio ha negato il conforto di una tanto desiderata prole. Decide, emulando il padre carabiniere, di salvare lo zio dalle sbornie del disadattamento e comincia, lei, bambina, a narrare fi abe a una Clara sempre più soff erente. E i racconti di Mirka assumono così una funzione consolatrice e traghettano la piccola nell’universo degli adulti.

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