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I preparativi della salsa di pomodoro Quadretti di vita popolare molfettese: ricordi del rito dell'estate
15 luglio 2005

Fino agli anni '70 preparare la salsa di pomodoro era davvero una fatica per molte famiglie molfettesi, che amavano fare le provviste alimentari per la stagione invernale (pricoprà, pemedòele sott'ugghie, fàiche seccate, méréngéne a r'aciàiete, alàive 'nn'écque). Ma la fatica veniva vissuta come una festa, perché vi partecipavano parenti e amici con spirito di collaborazione e di disponibilità. Tutto questo si ripeteva nei mesi di luglio e agosto, allorquando i pomodori (“Lycopersicon esculentum”, appartenenti alla famiglia delle solanacee) sono ben maturi e pronti per essere raccolti. Dice, infatti, un detto in agricoltura: “Quénne u frutte è métaure, se ne cate da pe d'idde”. Il “rito” richiedeva varie fasi di lavorazione. Anzitutto per l'acquisto dei pomodori ci si rivolgeva ad un agricoltore di fiducia: “Patrune Colìne ónn'ammétrate le pemedòele? Gnorsì, la patrone. Te rachemménne, démme le pemedòele bùene cómme chire de mó fa ll'énne”. “Statte schetàte, le pemedòele mèie sò grùesse e métaure”. Appena ricevute a domicilio le casse contenenti la preziosa materia prima, aveva inizio la cernita, ossia la separazione dei pomodori sani dai pomodori rotti (scecattàte) e il lavaggio dei primi in grosse tinozze piene d'acqua. Questa prima fase iniziava prestissimo (verso le cinque del mattino). Indi si procedeva alla scottatura, versando i pomodori in una caldaia (di zinco o di rame) contenente acqua pari alla metà del volume della caldaia, riscaldata dal fuoco a legna. Si facevano bollire per alcuni minuti i pomodori, al fine di favorire il distacco della buccia dalla polpa, e con un colino metallico venivano scolati e adagiati in grossi canestri di vimini, ricoperti internamente da un panno pulito. E' a questo punto che il pavimento della cucina diventava acquitrinoso per l'acqua di cottura, che inevitabilmente cadeva a terra. Era la gioia dei bimbi che si divertivano a guazzare festosi in quel sudiciume, ma con grande disappunto da parte della padrona di casa, tutta presa dalla fatica di quel giorno: “Mequate fradece, sciàiete a re larghe a scequà, ca 'ddó me dàiete fastìdeie”, di tanto in tanto gridava ai piccoli. Ma tra loro c'era sempre l'impertinente che, non curante dell'esortazione della madre, continuava imperterrito a petescià (calpestare) il pavimento bagnato della cucina, tanto da essere minacciato: “Disgrazziàte a ttèieche ca stè, re stózzere, mó ci né la spicce, add'avè mézzate ó càule. Accepeniscete come don Mòere!”. Subito dopo aveva inizio la fase della spremitura con l'uso di un'apposita macchinetta (la mécchenétte de la sàlze), fatta girare manualmente mediante una manovella. Nella parte superiore della macchnetta c'era una specie di imbuto, all'interno del quale venivano introdotti con apposito “coppino” i pomodori da spremere. La coclea della macchinetta, fatta girare dalla manovella, spingeva i pomodori verso le pareti, provocando l'uscita del succo attraverso i fori. Questo cadeva in grossi recipienti di raccolta (u chéndarìedde), mentre in un altro contenitore si raccoglievano gli scarti (la scagghie). A volte accadeva che, per qualità meno pregiate di pomodori, la salsa non fosse densa ma piuttosto acquosa per cui si osannava il fornitore con parolacce: “Cuss'énne, le pemedòele ca ma ddàte cur crennéute, sò cómme la faccia sò a pórche, Criste méie predduneme tàue!”. A dare man forte alle invettive contribuiva Nofaruddre ( consorte della padrona di casa), che si lasciava andare a suggestioni ossianiche e sepolcrali con morti e resurrezioni e morti ancora e resurrezioni di poi. In questa fase, l'addetto a girare la manovella era quello che faticava di più e lo si notava dal rallentamento dei giri man mano che trascorreva il tempo: “Nocchélle, facimme u chénge?”, esclamava chi provvedeva a pressare i pomodori nell'imbuto della macchinetta. “Sénd'a vòesce de Criste, me fasce méle tutt'u vràzze”, replicava Nocchélle. Terminata la fase della spremitura, si procedeva all'imbottigliamento. Mediante un mestolo e un imbuto, la salsa veniva travasata in bottiglie, preventivamente lavate e asciugate. Le bottiglie venivano poi tappate con tappi di sughero (fletàure), di diverse dimensioni a seconda della canna della bottiglia. I tappi venivano bagnati nell'olio e infilati in un attrezzo di legno sul quale si batteva con un martello fino a far entrare il tappo nel collo della bottiglia. Indi, per una maggiore sicurezza, con lo spago veniva fatta una legatura speciale che teneva il tappo stretto alla bottiglia. Per quest'ultima operazione era necessaria la presenza di due persone: la prima, per annodare e la seconda, per tenere fermo con l'indice il primo nodo, onde procedere ad un secondo nodo. A volte la forza esercitata dal dito non era ritenuta sufficiente: “Menè, vattìnne da' dd'ó ca tìene re méne de recott'a frèsceche, vìene tàue Nofarudde ca tìene re dèscetere de ciucce”. Lo sfottò veniva scherzosamente ricambiato: “Megghie re dèscetere de ciucce, ca u cerevìedde de gaddàiene”. L'ultima fase, la più delicata e pericolosa, era la pastorizzazione. Consisteva nel riporre delicatamente le bottiglie in una caldaia ricoperta di acqua. Si accendeva il fuoco sotto la caldaia e si portava l'acqua ad ebollizione. Dal momento dell'ebollizione si contavano venti minuti. Ad evitare che le bottiglie si rompessero durante l'ebollizione, sul fondo della caldaia venivano sistemati degli stracci. Trascorsi i venti minuti, si spegneva il fuoco e il tutto si lasciava raffreddare per 24 ore. Il giorno successivo si estraevano le bottiglie dalla caldaia e si sistemavano nello stipo (stàipe) pronte per il loro utilizzo invernale La salsa dei pomodori rotti costituiva l'ultima spremitura. Veniva mescolata con il sale e versata in larghi piatti di creta, esposti sul terrazzo al sole. Di tanto in tanto veniva rigirata per favorire l'evaporazione dell'acqua, fino ad ottenere una salsa densa e scura, la chenzèrve (la conserva), che si metteva in appositi recipienti di vetro (boccàcce) e veniva utilizzata per soffriggere il ragù domenicale. All'ora di pranzo, date le incombenze ancora da assolvere, ci si accontentava con “du felatìedde spezzàte ó sàuche “ (spaghetti al sugo). Ma c'era sempre qualche commensale che rimaneva insoddisfatto per il pranzo riduttivo, per cui veniva messo a tacere dalla padrona di casa: “Segnerì, ci tìene la chénn' a lónghe, grattete la pénze é statte chendénde! “. Risposta: “ Cé ssórte de quarèndènoeve! “. Non di rado capitava che alcune bottiglie scoppiassero o fermentassero, perché non tappate accuratamente o per una eccessiva ebollizione: “Nofarudde, démme né méne ad'apràie chèsse bóttiglie c'ónne date ngàpe. Acciàiese é nghénne, dóppe ténda fatàieche cùsse è u chembleménde…”, esclamava stizzita la padrona di casa, ma confortata dal suo aiutante consorte: “Nocchèlle, comme se dàiesce: nn'ùecchie ràite è u àlte chiénge. Penzìmme a la salàute: ci téiene salàute téiene recchèzze! “. Negli anni successivi la tecnica di preparazione subì modifiche: la macchinetta a manovella fu sostituita da quella elettrica, l'acido acetilsalicilico sostituì la fase della pastorizzazione, si usarono i tappi a corona e non più quelli di sughero, furono impiegati bruciatori a gas in luogo del fuoco a legna. Attualmente questo rito va scomparendo (è già scomparsa l'usanza di appendere i pomodori per l'inverno ai muri dei pianerottoli), sia per la sfacchinata che comporta, sia per la presenza di quel meraviglioso prodotto della natura sul mercato in tutte le stagioni, grazie alle coltivazioni in serra, sia infine per lo sviluppo dell'industria conserviera, nata per iniziativa di Francesco Cirio, che nel 1875 avviò la tecnica della conservazione del pomodoro, creando a Napoli il primo stabilimento di conservazione. E' un altro degli aspetti della vita delle passate generazioni, che le nuove conosceranno in numero sempre minore o non conosceranno affatto. “E pur mi giova…il rimembrar delle passate cose”, scrive Leopardi (“Alla luna”). Cosmo Tridente
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