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I cafeterini della signorina Rossi
15 dicembre 2011

L’ISOLA DELLE STORIE Via G. Salepico, 47 MOLFETTA http://ilghignolibreria.spaces.live.com la tua libreria I “cafeterini” della signorina Rossi furono poi sempre, in realtà, degli ottimi the con latte o limone accompagnati da una soffice torta casalinga, quanto mai gradita al nostro sano appetito di diciottenni con perenne nostalgia di casa. “ Mo’ dai, ragasòle, venite a prendere un bel cafeterino domenica. Sempre che non abbiate di meglio da fare”. Non avevamo, non volevamo avere di meglio da fare, e comunque i pomeriggi domenicali con la signorina Rossi ci piacevano moltissimo. Ci andavamo insieme, Elena ed io che eravamo sempre all’unisono nelle nostre scelte. Elena era la mia compagna di stanza nel Pensionato Universitario dove alloggiavamo e la nostra amicizia era cominciata con una violenta, reciproca antipatia. Poiché ero quella che si fermava di più al Pensionato avendo l’obbligo della frequenza al Venturi, l’Istituto d’Arte di Modena godevo di una stanza tutta per me, così quando mi mandò a chiamare la Superiora delle Suore che mandavano avanti il Pensionato, la brutta, aristocratica, coltissima Suor Maria Luigia, per un momento la odiai. Mi disse che mi aveva assegnato temporaneamente una compagna di stanza che mi avrebbe fatto ottima compagnia. Salutai con un sorriso forzato la mamma di Elena, che mi veniva presentata, e con diffidenza la ragazza, che mi dette l’idea di essere “mammona” e viziata, cioè la mia immagine speculare. Elena mi ricambiò con un sorriso a denti stretti. Diventammo in breve tempo inseparabili, almeno nelle ore libere dai nostri impegni scolastici. Elena frequentava la scuola di figurino ed era veramente brava. Tutte due avevamo una intensa nostalgia di casa e volevamo solo studiare per evitare bocciature e non prolungare così il nostro pur piacevole soggiorno a Modena, e perciò una volta finite le ore di lezione non frequentavamo i nostri compagni di studio. Oltretutto all’epoca ero timidissima. Anni dopo ho incontrato a Roma Gastone, detto Gas-Gas, uno dei più bravi del mio corso, che essendo anche un gran bel ragazzo era uno dei più concupiti. “Sai, tutti noi maschi ti avremmo corteggiata, ma sembravi così inaccessibile!”. E io che pensavo che nessuno mi facesse il filo perché non piacevo a nessuno. Che idiota! Ma non avevamo voglia né di avventurette né di legami seri. Un giorno Elena mi dice: “Senti, che ne dici se domenica andiamo a trovare la signorina Rossi?” “Chi? – dico io – Di dove salta fuori questa signorina Rossi?”. Elena ride: “E’ un’amica di mia nonna che mi ha ripetuto tante volte di andare a trovarla. Dai, vieni con me!”. Un desiderio della nonna di Elena non si poteva che esaudirlo, sono stata ospite da loro per qualche fine settimana in Liguria e mi hanno colmata di gentilezze e di affetto. “Va be’, andiamo a trovare l’amica di tua nonna!.”, dico senza entusiasmo. La domenica pomeriggio riusciamo a trovare il grande palazzone di tipo popolare. “Sesto piano!”, brontolo. “Ma dai che c’è l’ascensore!”, sdrammatizza Elena. Viene ad aprirci subito, “Sei quasi brutta, priva di lusinga.” Già, Gozzano, il nostro Gozzano. Diventò un compagno abituale delle nostre serate con lei, con Leopardi, Pascoli, Carducci, D’Annunzio… Sessantenne, forse, ai nostri occhi di diciottenne da guardare con rispettosa distanza, e invece una immediata simpatia reciproca ce la fece sentire amica e vicina. Senz’altro brutta, con quegli occhi esoftalmici, piccola di statura, “ e rivedo la tua bocca vermiglia, così larga nel ridere e nel bere,” Ci introdusse subito nella sua cucinetta che una stufa a legna rendeva calda e accogliente, “M’era più dolce starmene in cucina” Ci offre subito un buon the, forte e caldo, e la sua torta che diventò una costante dei nostri pomeriggi insieme. Qualche volta andavamo a prenderla all’ufficio di polizia dove lavorava come impiegata, e andavamo a fare quattro passi sotto i portici o a prende il frullato all’amarena da Molinari o al Nazionale. Furibonde discussioni fra me ed Elena su chi dovesse offrire, volevamo farlo tutte due, e magari lei, inavvertita, aveva già pagato il conto. Quando andavamo a trovarla, generalmente di domenica, c’erano ogni tanto i suoi amici. Due o tre persone “anziane”, gentili senza affettazione con noi due ragazze. C’era Vellani, lo ricordo ancora bene, un uomo alto e distinto…”Vengono dal cielo a farmi compagnia”, ha detto una volta, quando la signorina Rossi gli ha chiesto se non gli pesasse pranzare sempre da solo. Occhiata furtiva e costernata fra me ed Elena, messaggio chiaro e inequivocabile: “Questo è partito|” e intanto lui spiega serafico che mangia vicino alla finestra aperta, quando non è troppo freddo, e cosparge di briciole il davanzale e i passeri vengono a becchettare le briciole e così solo non lo è più. Ci guarda con bonaria ironia e noi sorridiamo con evidente sollievo perché ci è simpatico. Dolci pomeriggi domenicali, con l’odore della legna che arde nella stufa e la fragranza delicata della vainiglia nello zucchero a velo sulla torta, il lieve profumo di lavanda della signorina Rossi e i nostri casti diciott’anni. E soprattutto la voce calda, sommessa, della signorina Rossi che declama per noi, cedendo alle nostre pressanti richieste. Aveva studiato recitazione all’Accademia d’Arte Drammatica a Firenze ed era stata amica di Titta Ruffo, di Ruggeri, di Vellani Marchi, conosceva gran parte della “gente bene” di Modena, ma non si vantava di questa amicizie, qualcosa ce la diceva così, quando capitava, qualcosa intuivamo noi, come l’aver dovuto abbandonare qualsiasi attività artistica alla morte dei genitori adottivi che l’avevano amata molto ma, evidentemente, non le avevano lasciato altro che una eredità d’amore, o il fidanzamento con un Ufficiale, andato a monte proprio per la sua condizione di illegittima. La solitudine è stata la compagna implacabile dei suoi ultimi anni. La rividi una volta sola perché volle ospitare mio Padre e me per due o tre giorni in occasione di un nostro viaggio in Emilia. Di notte non si riusciva a dormire per il caldo e così uscivamo dalle piccole case soffocanti del condominio e ci sedevamo sulle scale a chiacchierare. Per me, che grazie a Dio, ho sempre dormito sodo, era un’avventura: quel parlottare basso, seduti sugli scalini, con la poca luce che veniva dalle finestre del vano scala spalancate, e le risatine, la familiarità che il buio e il disagio comune creavano. “Penso l’arredo,- che malinconia! – Penso l’arredo squallido e severo” Non c’era niente di squallido nella piccola cucina della sua casa, né “le buone cose di pessimo gusto”, ma con noi a prendere il the, evocate dalla sua voce, sedevano Carlotta e Nonna Speranza, e la signorina Felicita, ed era sempre bene accetta la “cattiva signorina”, la Cocotte. Quando lei leggeva il soffitto della stanza si dilatava o scompariva e potevamo vedere le vaghe stelle dell’Orsa. I nostri giorni volavano sereni, anche se pieni di nostalgia di casa, fra i brontolamenti di Suor Dionisia, la suora portinaia dal gran cuore, gli scherzi leggeri che facevamo a Suor Agnese, la suora più giovane, la scuola: le ore di pittura con Spazzapan, terrore e vanto del Venturi, le ore di plastica, quelle di Architettura con quel gran gentiluomo di Domenico Chini. Un giorno siamo andate con la signorina Rossi e la mamma di Elena, venuta per l’occasione, a vedere la sfilata di moda organizzata dalla scuola di figurino, sfilavano le stesse allieve, con abiti di loro creazione, Nel gran finale comparve Elena, che incedeva sognante, bellissima, con un abito da sposa, semplice e bello, adatto ai suoi giovani anni, e sua madre scoppiò in pianto perché temeva che secondo la superstizione, non si sarebbe sposata più avendo indossato l’abito da sposa prima del tempo, invece dopo alcuni anni, in una delle ultime lettere di “Ena”, c’era una istantanea che la ritraeva felice, con un bell’uomo vicino e due bellissimi bimbi. Non ho saputo più niente di lei per anni, le ho scritto, l’ho cercata, poi uno dei fratelli a cui mi ero rivolta non avendo risposta, mi ha detto che stava male, che aveva un grave esaurimento nervoso- E poi il silenzio. Forse uno di questi giorni la cercherò ancora, o forse no: voglio ricordarla così, con la sua innocenza, la sua lealtà, radiosa come nel giorno della sfilata di moda o nella foto con la sua famiglia. Ci ritroveremo “altrove”. La signorina Rossi continuò a scrivermi, ho ancora qualcuno dei suoi biglietti: un cartoncino bianco vergato con una grafia larga, scorrevole, disordinata. “Prega la Madonna che mi faccia morire!”, era la sua richiesta accorata nei suoi ultimi desolati anni: lei era sola nella sua casa e fuori, ostile c’era “… il mondo, quella cosa tutta piena di lotte e di commerci turbinosi la cosa tutta piena di quei “cosi con due gambe”che fanno tanta pena” I ricordi mi han preso la mano, vorrei fermare così, nel tempo l’immagine delle due ragazze affacciate, come in tante sere, alla finestra del Pensionato: il loro parlottare basso, le fresche risate, il profumo delle magnolie del giardino, le lucciole, il futuro così lontano e così prossimo, il vento fra gli alberi, la Chiesa vicina, i loro interrogativi e la luna, che “sopra il campanile antico pareva “un punto sopra un I gigante”.

Autore: Marisa Carabellese
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