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Ho visto uomini cadere
15 gennaio 2011

Sorprendente e degno di attenzione l’esordio poetico del ventiduenne molfettese Michele de Virgilio, Ho visto uomini cadere, pubblicato per i tipi di Sentieri meridiani (Foggia, 2010), nella collana “Le diomedee”, diretta dal Prof. Daniele Maria Pegorari dell’Università degli Studi di Bari. Il critico, recentemente autore del volume Les barisiens, pregevolissimo itinerario nella “letteratura di una capitale di periferia”, ha personalmente scelto i testi antologizzati, individuandone gli esiti più felici nelle liriche in cui la scrittura diviene “forma di pensiero”, si discosta dall’“autobiografi smo sentimentale” e intesse una propria peculiare “relazione col mondo circostante”. Numerose sono le tematiche contemplate nella raccolta. Non mancano omaggi ai numi tutelari della scrittura del giovane poeta: John Fante (da noi noto soprattutto per la cosiddetta “saga di Bandini”), di cui il molfettese intreccia una ruvida “biografi a per emozioni” (Ira facit versus), insistendo anaforicamente sul concetto di fi lialità, non a caso uno dei nodi della narrativa dell’italo-americano; Jack Kerouac, al quale de Virgilio consacra una sorta di inno del dover esserci. Quest’ultimo aspetto ci sembra l’ossessione che pervade la scrittura di Ho visto uomini cadere. Spesso la meditazione si eleva all’universale. “Nel tempo aiutate / da bianche nude mani di donna / tutte le sagome sanguinano / ma certe, a differenza di altre, soffrono meno”. L’immagine vigorosa, per certi aspetti riconducibile anche al dolore nel momento della nascita stessa, sembra suggerire l’idea che un destino di sofferenza attenda ciascun individuo. La sua scarna durezza è altrove attenuata nel momento in cui anche l’esperienza del dolore viene assimilata a una piccola “perdita da un muro chiamato ‘vita’”. La stessa felicità, un po’ come la Fortuna dell’ariostesco monte della Luna, a tratti appare inafferrabile, a tratti sembra annidarsi negli arabeschi di un chewingum o nell’atmosfera sonnolenta di un locale, impregnato degli odori di cucina, dove si annullano i già vaghi confi ni tra presente e ricordo. Persino un bulgari al tè verde si colora d’Eden (il colorarsi del mondo è unaltro Leitmotiv della raccolta)... In uno dei componimenti, poi, fi gurandosi di tracciare, da vecchio, un bilancio della propria esistenza, il giovane molfettese dà, forse inconsapevolmente, vita a un’incursione nei meandri dell’antico genere del plazer, in cui compaiono cose come un “campo da calcio” (tra i versi più meritevoli d’attenzione ci sono quelli dedicati al giocatore Kamata) o “un’idea nella quale nessuno credeva” e la postazione d’onore è riservata all’amore. L’amore nella silloge è esperienza assaporata nel suo essere fuoco e sale, nella gioia che irrora l’anima come nella non gemmea petrosità di un immaginato abbandono. L’aura di mito che la circonfonde è tutta in quel tremore improvviso e poetico che coglie il giovane al suo primo scorgere le nudità dell’amata. Se anche un giorno il mondo intero si rivelasse nient’altro che il montaliano “inganno usato”, all’io lirico resterebbe la consapevolezza che il fremito d’amore provato almeno non era pura costruzione psichica. Lo sguardo di de Virgilio si posa poi in Lampedusa sull’arrivo di indesiderati gommoni; l’aura gelida circostante diventa forse fi gura della frigida non-accoglienza cui tali approdi sono fatalmente destinati. L’esperienza professionale della malattia mentale (de Virgilio studia a Bari “Tecniche della riabilitazione psichiatrica) suggerisce all’autore, oltre al verso-titolo della silloge, anche la poesia-racconto Attenzione ai leoni. La delineazione di una fi gura femminile che, ricoverata in una “clinica sciatta”, “solo a volte si veste a sposa”e si aggira “sola / in un mondo senza più memoria”, è senz’altro tra i momenti migliori della raccolta. Silloge che spesso indugia sui vinti, nella certezza che anche nella più cocente sconfi tta esistenziale rifulga una sorta di epica grandezza.

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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