Gianni Carnicella la verità a 20 anni da una morte inutile
Sì, l’ho ucciso io. Ho fatto una pazzia!, si conclude così, quasi 48 ore dopo, con la costituzione dell’assassino al commissariato di Canosa e la sua confessione resa alla Questura di Bari davanti al Procuratore capo Saverio Nunziante e al sostituto Betty Pugliese, la tragedia dell’assassino del sindaco di Molfetta Gianni Carnicella. Il reo confesso Cristoforo Brattoli, detto “Piedone”, con un fucile a canne mozze sui gradini della Chiesa di San Bernardino, attigua al Comune, aspetta Carnicella per chiedergli per l’ultima volta il permesso per un concerto di Nino D’Angelo. Ne riceve un “no” deciso e subito gli spara in direzione dell’addome e fugge via, senza che nemmeno l’autista del sindaco, il vigile urbano Michele Fumarola riesca a fermarlo. Mentre due strani e inquietanti personaggi controllano la scena ad una certa distanza, prima di allontanarsi anch’essi. E, ironia del destino, lo stesso giorno in cui Brattoli uccideva Carnicella, il sindaco di Giovinazzo concedeva l’area per lo spettacolo di D’Angelo, ma l’assassino non lo sapeva. E’ questo lo scenario di quel maledetto 7 luglio 1992: alle 14.30 fu ucciso un sindaco quarantacinquenne, eletto da pochi mesi il 14 febbraio (di qui il nome “Sindaco di San Valentino) superando l’eterno candidato sconfitto Mimmo Corrieri (che poi organizzerà con Rocco Altomare la fronda al suo sindaco, all’interno del partito e successivamente, nel 2008, passerà nelle fila del centrodestra con Azzollini, ricevendone in campo un assessorato prima e una dirigenza dopo). Carnicella era un sindaco né eroe, né martire, che faceva semplicemente il suo dovere, negando il permesso di un concerto per oggettivi motivi di sicurezza. Venne ammazzato non da «un mostro, e neppure da un pazzo, e forse neppure da un criminale nel senso classico del termine. Non è un mostro. E’ un nostro! E’ un nostro concittadino che, come ultima miccia, ha dato fuoco alle polveri di cui, almeno un granello, ce lo portiamo tutti nell’anima». Sono parole dell’indimenticabile vescovo don Tonino Bello, oggi servo di Dio, dell’omelia pronunciata al momento delle esequie, a conferma del clima di illegalità dell’epoca nell’indifferenza generale di una città degradata che credeva di liberarsi la coscienza eliminando un ostacolo, il sindaco che voleva una cosa normale: rispettare e far rispettare le leggi. Da quel maledetto giorno sono passati 20 anni. Brattoli ha pagato il suo debito con la giustizia, è tornato in libertà e avrebbe manifestato anche il suo pentimento per il suo folle gesto. All’epoca “Quindici” non c’era, né era in programma un nuovo organo di informazione, che sarebbe stato, invece, sollecitato a chi scrive, impegnato allora in altri livelli professionali, qualche mese dopo proprio da don Tonino soprattutto per spezzare «l’irresponsabilità di tanti chierici che, con criminale leggerezza e senza il supporto di verità saldamente provate, alimentano la protervia di chi, di fronte allo spettacolo del degrado istituzionale, si ubriaca del mito perverso della giustizia sommaria». Di questo delitto si è scritto e parlato anche tanto, con molta retorica e anche a sproposito, si sono impossessati di questo sacrificio personaggi che ne hanno fatto uno strumento di ascesa personale e politica. Torna alla mente la celebre frase «Oh libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome», gridata da Madame Roland nel 1793 prima di essere ghigliottinata. “Quindici” nacque due anni dopo la morte di Carnicella e un anno dopo la scomparsa di don Tonino proprio per rispondere all’esigenza della società civile che chiedeva un’informazione diversa, libera, qualificata, un prodotto di qualità sia sul piano giornalistico, sia su quello del rispetto dei valori, della legalità, delle regole, nel segno della giustizia sociale. Oggi, a distanza di 20 anni da quell’orribile fatto di sangue, destinato a cambiare le vicende politiche della città e a 18 anni dalla pubblicazione del primo numero di “Quindici” (dicembre 1994), vogliamo cercare di ricostruire la verità storica, non quella gridata nelle piazze o su blog fantasma di chi parla senza conoscere, solo per tornaconto personale, mettendosi una maglietta che non gli appartiene. Con questo Speciale da conservare, vogliamo ricordare Gianni Carnicella che abbiamo conosciuto bene e del quale siamo stati amici, attraverso le testimonianze dei protagonisti dell’epoca di due sindaci che si sono passati il testimone: Enzo de Cosmo che lo cedette a Carnicella, quando si dimise per candidarsi al Senato (all’epoca esisteva anche un’etica sconosciuta oggi al sindaco Antonio Azzollini accentratore di potere in due incarichi) e Annalisa Altomare che, con grande coraggio, raccolse giovanissima, il testimone insanguinato come successore del sindaco ucciso, in un momento drammatico per la città per governare una difficile transizione. Abbiamo ascoltato anche il sindaco “del rinnovamento”, dopo il crollo dei partiti tradizionali, quel Guglielmo Minervini anch’egli giovanissimo, oggi assessore regionale ai Trasporti, all’epoca rappresentante del movimento civico “Il Percorso” che avviò quella che si sperava fosse una nuova stagione politica e che cambiò molte delle abitudini tradizionali, delle consuetudini politiche consolidate, emarginando anche le sacche di illegalità diffusa dell’epoca (che oggi sono ritornate prepotentemente alla ribalta). Abbiamo dovuto superare l’ostinata resistenza di questi personaggi, dopo che si erano chiusi nel silenzio per 20 anni. Li ha spinti a parlare, la determinazione di “Quindici” a ristabilire la verità storica dei fatti travisati, interpretati, strumentalizzati, perfino romanzati in qualche caso. Compito di un giornale è quello di essere testimone del tempo o raccontare la cronaca che, col tempo, diventa storia. Ma c’è un altro motivo che ci spinge oggi a ricostruire quel tragico evento e il contesto politico-sociale in cui è maturato, la consapevolezza che, a 20 anni di distanza, la storia si ripete e il sacrificio di Gianni potrebbe apparire inutile. Oggi a Molfetta è tornato il clima di illegalità diffusa, di mancanza di regole, quel senso di impunità che accresce la violazione delle leggi a cui si aggiunge l’assenza delle istituzioni, in particolare dell’amministrazione comunale che, invece, di sanzionare, tollera o addirittura sana le illegalità in nome di un liberalismo che si è trasformato in libertinaggio per molti cittadini di Molfetta. Il sangue si secca in fretta entrando nella storia.
Autore: Felice de Sanctis