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Fuga dal Congo
15 novembre 2011

Quella estate la trascorsi tutta al Villaggio del Sole. Una strana estate. Il Villaggio era un villaggio turistico molto accogliente, fuori del turismo di massa, ora, a quanto mi hanno detto, è sovraccarico di costruzioni plurifamiliari che l’hanno snaturato. Era sorto per volontà e su progetto di mio cognato, il marito ingegnere di mia sorella, dove prima c’era solo una zona paludosa e qualche volta i moscerini si prendevano la rivincita e un giorno che mi ero spinta a dipingere in una zona non completamente bonificata, mi hanno punta dappertutto, rendendomi impresentabile, dolorante e furiosa per un paio di giorni. Vi si accedeva da un lunghissimo viale fra due pareti ombrose di alberi alti e poi c’erano diverse villette monofamiliari con il loro giardino, qualcuna delle ville era molto grande, ma tutte armonizzavano con il paesaggio ampio, aperto, che si apriva sul lido di sabbia dorata, il mare verde e pulito e aveva come fondale il Gargano, Un giorno ho visto il fenomeno della Fata Morgana. C’era un galoppatoio con i ponies, delizia dei bambini, il Lido, una bassa costruzione che non invadeva il paesaggio, con ampie sale, bar e pista da ballo – ora certamente ci sarà una discoteca – lo spaccio, il ristorante, dove spesso si andava a pranzo quando non si aveva voglia di cucinare. L’alternativa al ristorante era la trattoria del cuoco Renato e della moglie, che aveva un gran repertorio di storielle oscene, raccontate con finto candore e generalmente divertenti. Un gran bel posto ancora incontaminato. I miei avevano acquistato una delle villette, una delle prime, arrivando al villaggio, e più avanti c’era quella più grande di mia sorella, le aveva progettate tutte mio cognato, e la nostra era stata appena completata, così precedetti i miei genitori e vi andai per sistemare i mobili, semplici ma funzionali e nuovissimi. Com’era bello liberarli dagli imballi, sistemarli nelle stanze, spostarli e orientarli alla ricerca di soluzioni migliori. Mi aiutava una ragazzina, figlia di un dipendente di mio cognato, dolce, tranquilla e talmente silenziosa che non riuscirei a ricordare la sua fisionomia se non fosse che mi fece da modella per uno dei quadri che dipinsi in quei giorni. Quanti ne ho dipinti in quella estate: ritratti, nature morte, paesaggi! E poi nuotate, bagni di sole e una avventura che stava diventando qualcosa di più impegnativo e per mia buona sorte si concluse nell’inverno successivo. Mi consentì comunque qualche romantica serata al night, furiose litigate – non ho mai rinunciato a pensare con la mia testa - e poco convinte riappacificazioni. Ma questa è un’altra storia. Mi piaceva anche, prima che arrivassero i miei, andare allo spaccio a fare provviste, mi sentivo molto donna di casa, esperienza per me insolita. Lo spaccio era gestito da una coppia di milanesi, i signori Martini, lui, un uomo sbrigativo e cordiale, dalla tipica aria indaffarata ed efficiente dei milanesi, lei magra, dai lineamenti severi ma non brutta, piuttosto aggressiva nei modi. Ho scoperto poi che aveva subito una mastectomia e le avevano tolto anche dei linfonodi dalle ascelle che avevano vistose cicatrici e lo raccontava con aria spavalda. Un giorno non ho trovato nessuno dei due ma una donna bionda, i capelli raccolti con un elastico dietro la nuca a formare una coda di cavallo, che mi è venuta incontro chiedendomi gentilmente se avesse potuto essermi utile. Piuttosto piccola di statura, solida, non certo grassa, con spalle robuste e braccia forti, un seno prorompente ma armonioso, un paio di pantaloncini che le lasciava scoperte due gambe abbronzate e dritte, anche se non particolarmente snelle. Mi piacque subito e io sentii di piacere a lei. Cominciammo a chiacchierare e nei giorni successivi io le chiesi se nelle ore libere dal suo servizio allo spaccio, dove faceva la commessa e donna tuttofare, le sarebbe piaciuto di posare per me. Acconsentì con entusiasmo. Avevo conosciuto anche il marito, un uomo alto con remoti occhi azzurri che sembravano persi nel vuoto, silenziosissimo, si limitava a salutare e poi scompariva nel retro, o fuori, a sistemare casse e scatoloni, era una specie di uomo di fatica, ma aveva un portamento insolito per uno che avesse fatto sempre lavori del genere. E così Nadia venne a posare per me. Mi accorsi, qualche giorno dopo, che la signora Martini si era chiusa in un riserbo ostile, ma non mi riusciva di capire il perchè e non ci feci troppo caso mi assorbiva troppo la mia modella che, come sempre poi è capitato con chi posava per me, cominciò a raccontarmi di sé, ma per accenni, con riferimenti casuali, e così seppi che lei e il marito erano esuli dal Congo. Il Congo si chiamava ancora così, nel 1960 era diventato quasi all’improvviso indipendente dalla dominazione Belga, alla fine del ’59 si erano manifestati i primi torbidi politici, il 30 giugno del ’60 era stata proclamata l’indipendenza. Nel ’61 cominciò il calvario per missionari e suore e anche per i laici, culminati nei massacri del novembre del ’64, molti cristiani furono massacrati o rischiarono la loro vita per difendere i missionari. Nadia lavorava come infermiera volontaria in una Missione risparmiata non so più perché dai ribelli e li’ capitò, ferito, disorientato, disperato, l’uomo che poi sposò con rito abbreviato prima di lasciare il Congo per poter andare via con lui. Il marito era medico, aveva lavorato nei pressi di K. e i ribelli gli avevano massacrato la moglie e i figli, due bambini, era rimasto in vita perché lo avevano creduto morto, soccorso da altre persone in fuga aveva fortunosamente raggiunto la Missione. A tratti ricordava quello che gli era successo, più spesso un oblio pietoso lo aiutava a vivere, finché non lo riassalivano i ricordi e i suoi incubi, lei una notte lo aveva sentito gemere, gli si era avvicinata, lo aveva tenuto stretto fra le braccia cullandolo piano, come un bambino, e non lo aveva lasciato più. Tutto questo però lo ricostruivo man mano che il quadro procedeva. L’ho dipinta con un fondo verde, arboreo e luminoso, pur senza accenni paesistici, con un abito verde, di tre quarti di spalla, le sue forti spalle, il profilo deciso con i capelli illuminati da una luce calda, un quadro che mi è stato acquistato in una lontana Personale. Si parlava di tanti argomenti anche minimi e casuali, un giorno, per esempio, mi aveva detto che non stava bene perché aveva il suo ciclo. “Sa, solo ora riprende a regolarizzarsi – mi ha detto, lo ricordo come se fosse ora – perché in Congo, dato il gran caldo, passavano anche tre mesi da un flusso all’altro e stavo spesso male”. Un’altra volta è entrato trotterellando il mio primo, adoratissimo nipote che aveva poco più di un anno, è venuto a stringersi alle mie gambe, io ho interrotto di lavorare e l’ho preso su. “Quanto amore c’è in quella creatura, - ha detto, la sua voce era sommessa e calda. – quanto amore è concentrato in questo bambino!”, sembrava trasfigurata, il suo viso era bellissimo. Un paio di giorni dopo, non vedendola arrivare, vado allo Spaccio, c’è solo la Martini, sta trafficando con la merce. Risponde laconicamente al mio saluto, acquisto qualcosa poi mi decido a chiedere di Nadia. “Sono “spariti” stamattina”. “Cosa?!”, chiedo. “Sono andati via senza avvertire nessuno, del resto c’era da aspettarselo”. La mia delusione è evidente: “Ma perché andar via così, hanno portato via qualcosa?”, da come lo ha detto sembra che siano andati via con la cassa. “No, - risponde a malincuore – hanno portato via solo le loro quattro cose!” “Ma perché andare via così, - ripeto io – e dove?” “Chi lo sa!”, dice lei. “Qui avevano trovato un rifugio e un lavoro, dopo la loro fuga dal Congo…”, mormoro io. “Ma quale fuga dal Congo! – dice. Sono esterrefatta. Si corregge: “E vero, lui era in Congo ed è un medico, ma lei in Congo non c’è mai stata”. “Ma non è possibile, - replico – mi ha detto che a lui han massacrato moglie e figli”. “E’vero anche questo - ammette– ma quando è arrivato in Italia, tre anni fa, lui l’ha trovata con una inserzione su un giornale”. Non le credo e non voglio darmi per vinta. “Ma che motivo aveva per mentirmi! Avrebbe potuto non dirmi niente. Poi quei particolari banali che non erano necessari”. “Lo faceva per darsi arie”. “Ma quali arie! – dico irritata – Mi ha detto cose che non aggiungevano o toglievano niente a sé stessa o a lui, come il particolare del suo ciclo ritardato a causa del clima. Sono cose che non c’è ragione di dire se non sono vere!” “Ma sì, – sbuffa lei – si è immedesimata nella parte, citava cose sentite da lui che a volte la credeva sua moglie. Non si sono mai sposati e vagano da un posto all’altro finché lui non si stanca. Non trova pace”. Sta arrivando il marito di lei: “Ha sentito? Sono andati via alla chetichella. Mi dispiace, erano due brave persone”. La moglie lo guarda con evidente irritazione, io saluto senza fare commenti e vado via. Raggiungo la spiaggia, è ancora presto, non c’è nessuno, cammino per un po’ facendomi lambire dalle onde brevi e tiepide. Mi piace quest’ora sulla spiaggia, gli ombrelloni sono ancora chiusi e il sole ne proietta le ombre sulla sabbia fresca, l’acqua è limpida e trasparente. E’ un momento magico… come il momento della verità. Ma quale verità?

Autore: Marisa Carabellese
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