di Marco de Santis
(Centro Studi Molfettesi)
Nelle relazioni sociali, per avallare un rilievo o un consiglio c'è sovente bisogno di un appiglio o di un termine di paragone. I predicatori e gli scrittori del medioevo, per i destinatari dei ceti medio-bassi, ricorrevano agli exempla, brevi narrazioni agiografiche, didascaliche o parenetiche destinate a fornire un modello di comportamento o un esempio morale.
Analogamente, nella tradizione popolare, i dialettofoni si appoggiavano e si appoggiano soprattutto ai motti sentenziosi, agli aneddoti arguti e agli esempi rappresentati da alcune figure proverbiali. In quest'ultimo caso i personaggi popolari sarebbero spesso piombati nel più completo oblìo, se la loro residuale sopravvivenza non fosse affidata ai superstiti detti in vernacolo. Del resto, quando non siano del tutto immaginarie o simboliche, tali figure non sono sempre chiaramente identificabili.
Per esempio, si può prendere in considerazione il personaggio che vive nel modo di dire Fa l'arte del Michelaccio: mangia, beve e se la spassa. Ebbene, già nel XVI secolo, Anton Francesco Doni nella raccolta di “cicalamenti, baje, chiacchiere, dicerie” intitolata La zucca (1551) ha proposto l'identificazione di Michelaccio con un certo Michele Panichi fiorentino, che, avendo raggranellato un discreto gruzzolo, si sarebbe ritirato dagli uffici pubblici per condurre vita tranquilla. È di tutt'altro parere il grande filologo Bruno Migliorini, il quale, nell'opera Dal nome proprio al nome comune (1927), da un lato ha collegato il nome del personaggio proverbiale al francese miquelot 'pellegrino; vagabondo', che ricorda i pellegrinaggi al santuario di Mont Saint-Michel, dall'altro non ha escluso la diffusione del nome Michele e la suggestione della rima, la quale peraltro induce a trovare l'origine della frase fuori della Toscana.
In effetti nell'Italia del Nord corre il detto far la vita del Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso, nel quale la rima è perfetta. Un'altra testimonianza settentrionale, abbastanza precoce, ci è offerta da Thomaso Garzoni da Bagnacavallo, che nello zibaldone La piazza universale di tutte le professioni del mondo (1585) ha parlato del mestiero di Michelazzo. Ma anche nel Sud non mancano locuzioni quasi identiche. Ad esempio a Napoli è documentata l'espressione Fa l'artë 'e Michelàssë: magnë, vévë e va a spàssë (Fa l'arte di Michelaccio: mangia, beve e va a spasso).
Nel Mezzogiorno, tuttavia, il modello napoletano, se ha generato un'eco in Bari (Mëchëlàssë), non ha trovato repliche dappertutto. Anzi, in Puglia, il personaggio prende pure nomi diversi. A Bitonto e Monopoli è Caifàsso, certo per influsso evangelico, mentre a Molfetta, Barletta e Terlizzi è Galàsso, attestato anche come cognome. In particolare a Molfetta si dice: Fascë l'artë du Galàssë: mêngë e vvèëvë e stè a la spassë.
Certo Galàssë potrebbe essere aferesi di (Mi)calàssë, ma non è detto che non si debbano fare i conti anche con papa Galeazzu, un prete salentino di cui si raccontavano storielle soprattutto gioconde e salaci e in cui qualcuno ha voluto ravvisare un arciprete di Lucugnano vissuto nel Cinquecento. Se si considera poi che tale prete trova un degno compare nel napoletano Frangalàssë, dietro cui si nasconde un fratacchione gaudente e scioperato, si comprende bene che ci troviamo di fronte alle varianti paesane del tipo eterno del perdigiorno crapulone e vagabondo che l'ozio produce in ogni contrada e che quindi sfugge ad ogni perentoria identificazione.
Omologo a Michelaccio è Pëtëlòënë, un personaggio caratterizzato da indolenza e sciatteria, ma non privo del consueto appetito. Pëtëlòënë è accrescitivo di pètëlë 'lembo di camicia che sfugge dai pantaloni'. Di lui a Molfetta dai più anziani si dice: Pëtëlòënë: a mêngià sàinë, a fadëgà nòënë! Bracalone: a mangiare sì, a lavorare no. Analogamente in Toscana si diceva: Che la duri, Giambracone! A Napoli o pëttulónë 'e Pulëcënèllë è il largo camicione di Pulcinella. Per Molfetta va aggiunta anche la locuzione calzë a pëtëlòënë, calzoni a bracaloni o a bracarella.
Agli antipodi dei primi due personaggi si colloca Rócchë Më-tócchë, una figura paradigmatica resa eccitabile dalla frenetica attività in cui è impelagato col suo gruppo, lavorando senza requie e di gran carriera dalla prima mattina fino a tarda notte. L'inevitabile conseguenza è la facilità ad incorrere nell'irritazione nervosa (attëqquà la nervatàurë). Il motto assonanzato e rimato che lo riguarda è: La chëmbêgnì dë Rócchë Më-tócchë: la mêtìnë sùbëtë, la dì a ttróttë e la sèërë nóttë (La compagnia di Rocco Mi-tocca: la mattina subito, il dì al trotto e la sera fino a notte).
In caso di grave pericolo per la vita o di tedio mortale per l'estrema lentezza di una faccenda da noi si esclama: Ddó mórsë u Gréëchë! Qui morì il Greco! A Molfetta il personaggio dell'altra sponda adriatica ricorre anche in alcuni wellerismi. Per la Toscana un'interiezione analoga è: Qui giace Nocco! Quando la morte ha luogo in maniera imprevedibile e lascia impotenti, si ricorre a un sostituto del mondo animale, un gattino. Se vi è un decesso senza via di fuga o di scampo per alluvione, burrasca, terremoto o altro disastro, in dialetto si dice fà lê mórtë dë Gnêgnùddë (far la morte di Gnaulìno), in lingua far la fine del topo.
Un altro tipo proverbiale, chiamato in causa contro le procrastinazioni e le esagerazioni, è Giórgë dë rë sséttë chêmmìsë, inseparabile dal suo piccolo e logoro corredo e deluso da una madre tutt'altro che solerte. La strofetta che li riguarda entrambi è la seguente: Giórgë dë rë sséttë chêmmìsë, / tòtt'e sséttë ròttë ngùlë, / e qquênnë lê mêmmë ngë r'avè d'arrëppëzzà: / “Giórgërë mì, nên dë clëqquà!” (Giorgio dalle sette camicie, / tutte e sette rotte sul fondo, / e quando la mamma doveva rattoppargliele: “Giòrgiolo mio, non coricarti!”). Insomma quella pigrona della madre di Giorgio non gli rattoppava mai per tempo nessuna delle sette camicie. Gliele ammucchiava per un indefinito giorno avvenire. Quando finalmente si decideva a rattopparle, voleva essere aiutata di notte a scapito del sonno del figlio.
Nella rassegna non mancano nemmeno figure femminili isolate. Una di queste è Donna Checchìnë, Donna Franceschina. Ironicamente: dama per burla, gran dama, però, nei giochi con le carte baresi o napoletane, è anche il fante di danari o il valletto degli ori. L'altra icona popolare è Mêriênnë, Marianna, dea tutelare del ghiaccio tritato aromatizzato con sciroppi coloranti, detto perciò grattëmêriênnë. Di chiunque gratti o si gratti per qualunque ragione, in suo onore si dice: Grattë, Mêriênnë: cchjù ggràttë e cchjù uadêgnë… (Gratta, Marianna: più gratti e più guadagni…). A Roma l'eroina popolare è Checca, perciò la gramolata si chiama grattachecca. Anonima invece resta la misera moglie di un povero orbo, ricordata nella locuzione Pìëtë u cëcatë e la mëgghjéërë, Pietro il cieco e la moglie. Di loro si sa solo che conducevano vita assai grama.
Un personaggio attanagliato dall'incoerenza e dall'inopportunità è poi Cênnë dë lë vëtìëddë, un falso coraggioso dedito a un abigeato pieno di ansie e sussulti, come spiega il detto che lo riguarda: Cênnë dë lë vëtìëddë: lê nóttë lë scèëvë arrëbbênnë e la dàjë pëgghjavë pagàurë (Gianni dei vitelli: di notte li andava a rubare e di giorno aveva paura).
Di rango nobiliare, generoso per albagia, sussiegoso nel portamento e individuabile dal casato è invece u cavallìërë Lênzë, il cavalier Lanza, chiamato in questione per piccole somme d'avanzo tra il danaro dato e il prezzo di una merce o di un incarico. Di lui si diceva e da qualcuno ancora si ripete: U cavallìërë Lênzë nêm bëgghjàvë mè réstë, Il cavalier Lanza non prendeva mai resto. Ma, favorito dall'omofonia, c'è anche il gioco di parole da una parte con lênzë, che come nome comune significa 'lancia' e come cognome vale 'Lanza', e dall'altra parte con réstë, che al maschile indica il 'resto' ma al femminile designa la 'resta', ossia il ferro della corazza destinato ad accogliere il calcio della lancia. Un'altra espressione in cui ricorre il personaggio è Të në sì vënùtë allorzë allórzë cu spròënë mmòcchë e la camënêtë du cavallìërë Lênzë, Te ne sei venuto all'impensata con lo stecco in bocca e l'andatura del cavalier Lanza. Anche qui c'è un gioco di parole, perché spròënë vale sia 'sprocco' che 'sperone'.
E così, fingendo di scomodare figure del passato, si finisce per parlare sul filo dell'ironia di fatti del presente e dei mille difetti di persone in carne ed ossa che attraversano la nostra vita.