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Fatti e misfatti del 1916
15 maggio 2016

Nella notte fra il 14 e il 15 maggio 1916 più di 1500 cannoni austro-ungarici di grosso e medio calibro iniziarono un terrificante bombardamento a tappeto sulle linee italiane in Trentino. Molti comandi settoriali furono colti impreparati, perché mai una simile tattica era stata impiegata in precedenza sul fronte italiano. Nonostante diverse avvisaglie e notizie, lo stesso capo di stato maggiore Luigi Cadorna fino a poco prima si era incaponito a non credere possibile che gli austriaci, sotto la minaccia russa incombente, potessero impegnarsi massicciamente in un settore montano e soprattutto così eccentrico rispetto ai restanti confini. Tanto è vero che all’ennesima richiesta di rinforzi da parte del generale Roberto Brusati, l’8 maggio Cadorna ne aveva chiesto l’esonero al re, facendo venire al suo posto l’ottimo generale Guglielmo Pecori-Giraldi, che però non ebbe il tempo d’ispezionare il settore minacciato, né di modificare lo schieramento. Così, dopo il bombardamento di preparazione, il 15 maggio le fanterie austro-ungariche al comando dell’arciduca Eugenio d’Asburgo si lanciarono all’assalto lungo un fronte di 50 chilometri tra l’Adige e il Brenta con l’intento di sfondare il fianco sinistro dello schieramento italiano e costringerlo a un precipitoso arretramento. Era l’inizio dell’offensiva preparata dal capo di stato maggiore austriaco Franz Conrad von Hötzendorf con lo spostamento di interi reparti dal fronte russo, chiamata ufficiosamente Strafexpedition (spedizione punitiva), ma detta ufficialmente Frühjahrsoffensive (offensiva di primavera) o Südtiroloffensive (offensiva del Sud-Tirolo) ovvero Battaglia degli Altipiani, perché fu aspramente combattuta sugli altipiani vicentini fino al 27 giugno. Dopo i successi iniziali, l’offensiva nemica non raggiunse gli esiti strategici previsti e la stessa avanzata austriaca sugli altipiani di Asiago e Tonezza fu neutralizzata dalla controffensiva italiana, che consentì il recupero quasi completo dei territori ceduti. Le perdite umane, comunque, furono elevate. Gli austro-ungarici ebbero 10.203 morti, 45.651 feriti e 26.961 fra dispersi e prigionieri. Gli italiani contarono 15.453 morti, 76.642 feriti e 55.635 fra dispersi e prigionieri. Tra chi perse la vita facendo il proprio dovere ci fu anche un militare in servizio attivo, il maggiore Giacomo Mazzara, nato a Canosa di Puglia il 13 maggio 1873 da Maria Leoncavallo e da Marco, appartenente a famiglia molfettese. Il 18 luglio 1915 l’allora capitano si era guadagnata una medaglia di bronzo portando la sua compagnia alla rapida conquista di una posizione avanzata sul Carso presso l’insanguinata collina detta Monte San Michele. Ora in Trentino, come comandante del 4° battaglione del 63° reggimento di fanteria della brigata “Cagliari”, il maggiore si era trovato a fronteggiare i Kaiserjägers (cacciatori imperiali) del 3° reggimento e di parte del 4°, che avevano assalito Quota 1.804 e Cima Campoluzzo, alta 1.775 metri. Tra questa Cima e il Coston d’Arsiero il 18 maggio 1916 il maggiore Mazzara cadde con le armi in pugno, meritandosi una medaglia d’argento alla memoria e in séguitol’intitolazione di una strada a Molfetta. Mentre i soldati italiani subivano la tremenda pressione degli austroungarici in Trentino, la stampa nazionale intervenne per sostenere il regio esercito. Ad esempio, La Domenica del Corriere del 14-21 maggio 1916 collocò in copertina un disegno di Achille Beltrame che mostrava i fanti italiani all’attacco sul fronte dell’Isonzo con questa didascalia: «Quando si esce dalle trincee: lo slancio travolgente di un assalto, sul Carso, al grido di “Savoia!”». A pagina 7 dello stesso giornale i lettori potevano vedere le foto e i nomi di alcuni decorati al valore dell’anno precedente. Tra questi figurava la medaglia di bronzo Umberto Magrone di Mauro e Concetta Altomare, tenente molfettese venticinquenne del 9° reggimento di fanteria della brigata “Regina”, ferito il 20 luglio 1915 sul Monte San Michele e morto il giorno dopo in un ospedale da campo. Un altro dei 144 caduti molfettesi del 1916 fu il ventiquattrenne Sebastiano Gadaleta di Mauro e Antonia De Virgilio, fante del 18° reggimento della brigata “Acqui”. Morì il 28 giugno andando all’assalto del Monte Rasta (1.260 m) nel comune di Asiago. Gadaleta era un prode. In Libia, a Sidi Dakil, l’11 giugno 1914 si era guadagnata una medaglia d’argento al valor militare, con la seguente motivazione: «Per il mirabile contegno tenuto essendo di scorta ad una carovana, assalita dai ribelli. Ferito, continuava a combattere». Ma la storia aveva in serbo pagine nerissime per l’Italia. Il 10 luglio 1916 furono catturati dagli austriaci sul Monte Corno di Vallarsa due irredenti, il sottotenente istriano Fabio Filzi e il tenente trentino Cesare Battisti, giornalista, geografo e deputato a Vienna del Partito Socialdemocratico dei Lavoratori d’Austria. Battisti, in particolare, aveva tenuto nelle maggiori città italiane, compresa Bari, ben 85 comizi per sollecitare l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria. Processati per alto tradimento come disertori il 12 luglio, i due alpini furono impiccati nello stesso giorno a Trento nella fossa del Castello del Buon Consiglio, Battisti alle 18:30 e Filzi un’ora dopo. Prima ancora che uscisse sui giornali italiani, la notizia dell’impiccagione arrivò già il 13 luglio a Roma, dove si trovava Gaetano Salvemini, che aveva avuto tra i compagni più cari degli anni universitari a Firenze proprio Battisti e la sua futura moglie Ernesta Bittanti. Servendosi di un foglio intestato “Senato del Regno”, le scrisse subito, in preda allo scoramento per la grave perdita dell’amico, però focalizzando non il suo emblema di “martire”, di cui si sarebbe poi impadronito il fascismo, ma piuttosto la figura di intellettuale e politico che nel dopoguerra avrebbe potuto controbilanciare le richieste territoriali eccessive di deputati come l’irredento repubblicano triestino Salvatore Barzilai, già favorevole nel 1911 all’occupazione della Libia. Ecco le parole di Salvemini: «Mia cara Ernestina, Le scrivo per sfogare in qualche modo l’acerbo tormento da cui sono preso, non perché pretenda lenire il Suo. Battisti doveva essere, nell’Italia di dopo la guerra, il rappresentante della parte migliore delle nuove terre italiane; di quella parte che ha visto nella guerra un dovere da compiere, un ideale da realizzare, e non un affare da utilizzare. Battisti doveva essere uno dei condottieri nel lavoro di ricostruzione, che sarà necessario dopo la guerra. Battisti doveva servire a neutralizzare col prestigio della sua personalità, tutto il male che troppi “irredenti” triestini e barzileschi, tenteranno di fare, sfruttando il patriottismo. Battisti lascia vuoto un posto nella vita pubblica, che nessuno potrà occupare, e che pur il nostro paese aveva bisogno che fosse degnamente occupato. È una grande sventura nazionale questa che ci colpisce. E io ne provo un senso di disperazione e di smarrimento, in cui l’affetto antico della prima gioventù non ha che una parte minima. L’angoscia più grave è che vedo il nostro paese privato di una grande forza intellettuale e morale insostituibile, e vedo allargarsi nello spazio rimasto vuoto le influenze malefiche degli speculatori dell’irredentismo. E provo un violento rancore contro la cieca fortuna, contro la massa di inutili che resterà, contro me stesso che in questa guerra non sono stato buono a nulla, contro chi non ha saputo utilizzar meglio l’attività di quell’uomo e serbarlo, contro la sua stessa volontà, all’avvenire». Poi il cordoglio di Salvemini toccava note più intime e delicate, ricordando Irene e Rosa Bittanti e Luigi e Livia, i primi due figli di Ernesta e Cesare Battisti (il terzo era Camillo): «Mia cara Ernestina, quest’angoscia tormentosa e disperata, che mi prende, l’ho provata poche volte in vita mia: solo nelle occasioni dei grandi dolori e delle grandi sciagure. Spero che l’affetto dell’Irene e della Rosina e dei suoi figli Le daranno la forza di superare questa crisi. Vorrei stare con Lei in questi giorni, per farle sentire come il mio cuore abbia conservatoper Lei intatto e fresco e puro tutto l’affetto fraterno di venticinque anni or sono. Ella raccoglierà ora tutta la Sua volontà di vivere su Gigetto e sulla piccolina. I figli sono una gran forza in qualunque dolore. Addio, cara Ernestina. Si ricordi sempre che Ella ha in me un amico fedele, che sarà sempre contento di esserLe utile. L’abbraccio con la Rosina, con l’Irene, coi bambini». Sei giorni dopo, quell’acuto sconforto non si era ancora attutito e Salvemini il 19 luglio da Roma alla giovane Elsa Dallolio, figlia del generale Alfredo, sottosegretario di Stato per le armi e munizioni, confidava: «Sono turbatissimo per la fine di Battisti. Faceva parte con la moglie del “nostro” gruppo dell’Istituto di Firenze, nel 1894- 1898. Era un uomo di prim’ordine anche intellettualmente. È una terribile irreparabile perdita pel nostro paese. Io ne sono angosciato e scoraggiato come non mi era mai avvenuto prima». Sulla Domenica del Corriere del 30 luglio – 6 agosto 1916 Achille Beltrame, in una tavola famosa, rappresentò Cesare Battisti impassibile e fiero, con la camicia sbottonata, ma ancora con i calzoni grigio-verdi, le fasce mollettiere e gli scarponi del regio esercito italiano su un patibolo elevato di foggia ottocentesca, con la forca a forma di L rovesciata, nel cortile del Castello del Buon Consiglio. La realtà, documentata da alcune foto d’epoca, fu invece più prosaica e macabra. Battisti fu spogliato della divisa italiana e vestito con giacca, panciotto e pantaloni di colore grigio a quadretti, di taglia più abbondante della sua, stivaloni stretti con lo spago, mani legate dietro la schiena e un berrettone scuro da operaio, toltogli dal boia viennese Josef Lang prima dell’impiccagione. L’esecuzione avvenne nella Fossa della Cervara, sul retro del castello, tra un quadrato di soldati austriaci, molti sprezzanti ufficiali e alcuni fotografi in divisa. Il patibolo era di tipo semplificato, senza palco e senza albero a L rovesciata, definito palo, ma consistente in un’asse di legno infissa nel terreno con in cima un gancio a cui si appiccava l’estremità del capestro. Pronunciata la condanna, i due aiutanti del carnefice nerovestiti e inguantati sollevarono il condannato e il boia, in abito nero e bombetta, salito su una scala alle spalle e più in alto della vittima, sistemò il capestro al suo collo. A questo punto i due aiutanti, per provocare lo strozzamento del condannato, lo lasciarono ricadere bruscamente. Ma era una tragica messinscena. Per malvagie esigenze di lugubre teatralità per Battisti era stato predisposto un supplizio in due tempi. Infatti il primo debole cappio si ruppe e l’infelice restò ancora in vita. Allora il boia prese dalla sua valigia un capestro più solido – quello buono! – e lo applicò al collo del condannato. Questa volta l’esecuzione fu ultimata, ma Battisti stentò un po’ a morire, soffrendo più del previsto.

Autore: Marco I. de Santis
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