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Faccincani, la dolcissima stregoneria dei colori dell'anima
15 settembre 2011

Dolcissima stregoneria è la defi nizione che Nantas Salvalaggio ha a buon diritto adottato a defi nire l’effetto che l’arte di Athos Faccincani desta in chi l’ammira. Effetto che i molfettesi hanno potuto personalmente constatare, accorrendo numerosi a visitare la suggestiva personale dell’artista I colori dell’anima. L’esposizione è stata allestita presso la Sala dei Templari; a organizzare l’evento l’“Avangart snc”, fondata da Sebastiano Pepe e Nicolò Giovine (che si sono anche occupati del coordinamento della mostra), con sede a Giovinazzo. Addetto stampa Paola Copertino; il progetto grafi co è stato invece curato da Gaetano Sgherza. Prossime tappe di Faccincani il napoletano Maschio Angioino e le Scuderie del Quirinale a Roma. Il vernissage ha anche fornito l’occasione per una presentazione molfettese del romanzo di Faccincani Virgo fi delis, scritto dall’artista in collaborazione con Elsa Dilauro. L’opera, come ha dichiarato lo stesso autore, non è priva di romanzati risvolti autobiografi ci, e narra il tormentato percorso di quello che diverrà un apprezzato pittore, Samuel Kipling. Paradossalmente proprio il momento di maggior felicità creativa determinerà nel protagonista la quasi parossistica reazione contro le storture dell’establishment dell’industria culturale. Come quello del suo Kipling, non si può dire che l’itinerario creativo di Faccincani sia stato privo di ambasce. Soprattutto prima del 1980, la sua produzione ha indugiato su esperienze di emarginazione sociale, ha pescato nei bassifondi delle metropoli, nella “mala”, in una sorta di “ciclo dei vinti” a testimonianza di una profonda passione civile. Poi l’attenzione al paesaggio, ma sarebbe un errore etichettare frettolosamente l’artista di Peschiera del Garda come un semplice paesaggista. Basta soffermarsi sulle vedute della sua Verona, Piazza delle Erbe in particolare, per accorgersi che l’immagine offerta, nonostante presenti tracce, ad esempio, del mercato del toloneo, non è affatto realistica. Un ductus pittorico del tutto peculiare concorre a circonfondere quelle, più che vedute, visioni di un palpito nuovo, in un’aura di rêverie. È il caso anche della Venezia carnascialesca, tramutata in una sorta di carrolliano reame delle meraviglie, i cui cromatismi dialogano con le maschere, dagli abiti alle ciglia. Tema, quello della maschere, caro all’artista, secondo il quale esse sarebbero altre facce della personalità di ciascun individuo. Non è casuale il fatto che la fi gura umana sia totalmente assente dalle tele di Faccincani. È lo stesso artista a fornirci la chiave di volta del problema. L’uomo non compare nell’immagine, perché essa altro non è che una proiezione della sua percezione interiore. Il maestro Angelo Gamba, mentre pungolava Athos perché ogni giorno si fermasse a contemplare l’alba, gli rammentava “che ogni alba è diversa dalle precedenti non solo perché cambia il giorno, ma perché cambiamo noi”. L’artista veneto ha interiorizzato e mellifi cato quella lezione: i soggetti possono ripetersi, ma uno stesso scorcio si anima di cromatismi differenti e non solo per gli effetti che su di esso produce il danzare della luce, meridiana o serotina che sia, ma perché sarà la psiche a tingere di glicine e di rosa le case di Positano o a colorare variamente le terrazze inondate di sole a Santorini. Così il porto molfettese trasogna in una poesia di barche e di acque verde smeraldo che non paiono conoscere la triste piaga – ahimé, loro ben nota nella realtà – dell’inquinamento che deturpa. I titoli stessi delle tele sono indicativi: sole alto, poesia, luce; essi alludono alla reinvenzione psichica dell’elemento paesaggistico. Così, quando all’orizzonte si profi la l’isola dei sogni, ecco l’azzurro farsi impalpabile a fasciarla con le sue teorie di case bianche. Capo Zafferano, Porto Venere, Alberobello, Ischia rivivono in questi “racconti” sostanzialmente privi di narratività perché ognuno possa lasciar veleggiare la propria narrazione su quelle barche ossessivamente presenti, emblema del viaggio libertario. Della ricerca dell’isola che non c’è. Ultimo elemento da segnalare: in primo piano, costantemente, questi dipinti recano un tripudio di vasi, fi ori, piante che rampicano persino nella petrosa durities. Tra i più ricorrenti, il girasole e l’iris; si trattava di motivi cari a un pittore del calibro di Vincent Van Gogh. A farci caso (tralasciando le differenze di matrice tecnica, che in questa sede interessano relativamente), una signifi cativa divergenza tra i due percorsi risiede nel fatto che l’immortale artista olandese, ad esempio per il Metropolitan Museum of Art, ha posato lo sguardo anche su “elianti” recisi o appassiti, abbracciandone l’intero ciclo di fi oritura e sfi oritura. Faccincani sembra aver bandito l’avvizzimento dai suoi oli e agli iris, macchie lilla che punteggiano i campi, ha affi dato (nel linguaggio dei fi ori essi, anche in virtù della funzione della dea Iris, sono forieri di notizie o di auguri) un messaggio che lo spettatore non ingenuo saprà cogliere. L’annuncio che nell’osservazione amorevole e nella preservazione del mondo naturale, ch’è spettacolo di meraviglie, l’anima potrà riscoprire l’infi nita gamma dei propri colori.

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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