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E il silenzio diventa poesia. Presentazione di “Chiedici la parola” al Ghigno di Molfetta
20 novembre 2013

MOLFETTA - La poesia come impegno, la poesia come ricerca di risposte ad una realtà poco decifrabile.  Questi i propositi di un gruppo di autori (I Poeti a Bari) che si sono dati e ci hanno dato appuntamento alla libreria Il Ghigno  di Molfetta dove è stata presentata una antologia poetica “Chiedici la parola”, a cura dell’autrice molfettese Mariella Sciancalepore (Edizioni Stilo- Bari).

Moderatore della serata il prof. Gianni Palumbo, redattore di “Quindici”, il quale ha teso un filo conduttore attraverso il pensiero di ciascuno  dei quindici autori. La poesia quindi che si fa raccontare, che assume il ruolo di strumento educativo sin dai primi anni di vita.  Ma per ascoltare occorre fare silenzio e sapere  ascoltare quest’ultimo.
Il titolo della raccolta riporta alla poesia del 1923 di Eugenio Montale (Non chiederci la parola), secondo  il quale al poeta non potevano essere chieste risposte certe e definitive a quesiti di cui il poeta stesso  non poteva avere certezza. E’ giunto il momento di chiedere la parola ai poeti, gli unici ai quali la parola non viene chiesta. Il poeta neomoderno rivendica, come gli autori di questa antologia,  un ruolo di criticità verso la società, ruolo che il modernismo non ha.  Ciascun autore presente,  ha  letto una poesia inserita antologia.
Mariella Binetti,
secondo la quale il poeta  deve essere in costante cammino, sporcandosi le scarpe di fango, compone liriche che affrontano il silenzio, quello del poeta che diventa un grido.
Letizia Cobaltini avverte il senso di impotenza del poeta le cui braccia non avrebbero la forza di reggere nessuna epifania.
Dalla complessa poesia di Alessandro Lattarulo, ricca di suggestioni simboliche, emerge la consapevolezza di un poeta disarmato, come un moderno Ulisse arenato.
La lirica di  Anita Nuzzi, arista dalle molteplici sfaccettature, è contraddistinta da un moto ondoso che caratterizza pensieri in dissolvenza.
Definita delicata pescatrice di perle, Maria Teresa Paccione, con animo romantico, avverte la solitudine del poeta che, in questa ragnatela che è il mondo, non può che esprimere sussurri che rimangono inascoltati.
Maura Potì, profondamente legata al pensiero orientale, è consapevole del silenzio nel quale è relegato il poeta che lo difende con scudi e lance.
Lucia Sallustio riprende il concetto secondo la quale la scrittura è forma di espiazione e la poesia è sposa del  silenzio che filtra il dolore altrui.
Mariella Sciancalepore, docente di lettere è esperta di caviardage, tecnica di scrittura creativa con la quale il testo viene annerito ad esclusione di alcune parole dall’insieme delle quali nasce una nuova poesia. Mariella Sciancalepore esprime la volontà di non lasciarsi etichettare, di non farsi intrappolare in uno  stereotipo: “Sono un poeta mediocre, amo, respiro e non mangio carne”.
Sandra Vetturi  è poetessa eclettica e versatile. Ama scrivere poesie anche in lingua inglese e vernacolo; coglie con meraviglia la straordinarietà del quotidiano.
Sono state altresì lette le liriche degli altri autori non presenti come Giulia Basile, Roberta Monaco, Maria Grazia Palazzo, Francesco Tanzi, William Vastarella.
Non esclusiva di pochi addetti ai lavori ma occasione per tutti per riflettere, per ritagliarsi uno spazio, quello della poesia, in cui l’animo trova approdo sicuro.

© Riproduzione riservata

 

 

Autore: Beatrice Trogu
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Storia di un poeta. - Ora vi racconterò una storia di uccelli. Sul lago Budi cacciavano con ferocia i cigni. Gli si avvicinavano silenziosamente sulle barche e poi rapidi, rapidi remavano…. I cigni, come gli albatri, si alzano difficilmente in volo, debbono correre scivolando sull'acqua. Sollevano con difficoltà le loro grandi ali. Li raggiungevano e li finivano a bastonate. Mi portarono un cigno mezzo morto. Era uno di quei meravigliosi uccelli che non ha mai più rivisto al mondo, il cigno dal collo nero. Una nave di neve dal lungo e flessuoso collo come inguainato in una stretta calza di seta nera. Il becco arancione e gli occhi rossi. Fu vicino al mare, a Puerto Saavedra, Imperial del Sur. Me lo diedero quasi morto. Lavai le sue ferite e a forza gli cacciai in gola pezzettini di pane e di pesce. Rigettava tutto. Ma a poco a poco si riprese, e cominciò a capire che ero suo amico. E io cominciai a capire che la nostalgia lo stava uccidendo. Allora prendevo il pesante uccello fra le braccia e lo portavo al fiume. Nuotava per un po', vicino a me. Io volevo che pescasse e gli indicavo i ciottoli del fondo, le sabbie su cui scivolavano gli argentei pesci del sud. Ma lui guardava con occhi tristi la distanza. Così ogni giorno, per più di venti, lo portai al fiume e me lo riportai a casa. Il cigno era quasi grande come me. Un pomeriggio se ne stette più sulle sue, quasi assorto, nuotò vicino a me, ma non si distrasse ai gesti con cui volevo insegnarli di nuovo a pescare. Se ne stette tutto quieto e io lo presi di nuovo fra le braccia per riportarlo a casa. Allora, mentre me lo tenevo contro il petto, sentii come se si stesse srotolando un nastro e qualcosa come un braccio nero mi sfiorasse il viso. Era il suo lungo e sinuoso collo che ricadeva. Così imparai che i cigni non cantano quando muoiono. (Confesso che ho vissuto – Pablo Neruda)


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