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“Due donne, ma non buone”
15 settembre 2016

Il 28 dicembre 1936 il sottotenente medico di complemento Tiberio Pansini (Molfetta 1911-1960), si imbarcava a Napoli per l’Eritrea. Il 4 gennaio 1937 sbarcava a Massaua. Era stato richiamato alle armi per effetto del R.D. del 13 maggio 1935 presso l’Ospedale Militare di Bari, e destinato in Africa Orientale, in forza allo Ospedale da Campo 642, da impiantarsi nella zona di Dessiè, importante centro agricolo del Governo dell’Amhara (Regione Uollo- Jeggiu). Il complesso sanitario, formato da tre grandi tende, varie costruzioni in legno ed una casermetta presidiata da una decina di soldati e ascari, era situato nei pressi del ciglione orientale del grande altopiano etiopico che si affacciava sull’immensa depressione dancala, caratterizzata da paesaggi lunari e condizioni climatiche estreme. I ricoverati erano in larghissima parte italiani. Scrive Ernesto Ragionieri: “La prima fase del dominio italiano in Etiopia fu caratterizzata da una tumultuosa invasione di una piccola borghesia avventurosa alla ricerca di facili guadagni all’ombra della protezione dello Stato, che riuscì ad insediarsi in colonia ed a conseguirvi non effimere fortune. Autisti, soldati smobilitati, operai dei servizi, piccoli costruttori edili, proprietari di officine meccaniche, furono i protagonisti della prima fase della colonizzazione italiana. Accanto all’avvio di un vasto programma di costruzioni stradali, nel quale trovarono lavoro 80.000 operai, di cui 20.000 italiani, fu favorita la creazione di grandi compagnie miste, a carattere industriale-agricolo”. I lavoratori che operavano nei cantieri e che subivano incidenti, venivano ricoverati e curati negli ospedali da campo più vicini, compreso naturalmente il 642. Il personale era costituito da ufficiali medici e sottoufficiali di sanità, italiani, e da infermieri scelti fra i nativi preventivamente sottoposti a corsi di istruzione sanitaria. Accanto ai ricoveri da traumi, erano molto frequenti, date le precarie condizioni igieniche degli alimenti e soprattutto delle acque, quelli dovuti a elmintiasi e dissenterie amebiche. Diffuse anche le infezioni luetiche. Il lavoro del personale era duro e non privo di pericoli: moltissimi medici dovettero essere rimpatriati per aver contratto quelle stesse affezioni che avevano cercato di curare negli ospedali. Il sottotenente Pansini fu nominato membro effettivo e segretario della Commissione Medico- Legale che doveva esaminare le richieste di rimpatrio, con eventuale concessione di pensione per malattia, degli operai della Regione Uollo- Jeggiu. Incarico delicato assegnatogli in considerazione dell’ottimo servizio prestato in Colonia. Com’è noto la resistenza armata contro l’invasione italiana, continuò anche dopo la proclamazione dell’Impero. Agguati, uccisioni, atti di sabotaggio provocarono la dura e sanguinosa repressione italiana. Dopo l attentato al Viceré Rodolfo Graziani in Addis-Abeba del 19 febbraio 1937, si scatenò un vero e proprio bagno di sangue, sia nella capitale che in tutto il Paese. Il 18 maggio il generale Pietro Maletti accerchia il villaggio conven-tuale copto di Debra Libanòs, e dopo due giorni ordina la fucilazione di 300 monaci e 23 laici. Nei giorni seguenti vengono massacrati altri 1.000 fra diaconi e laici. Soltanto alla fine del 1938 l’Etiopia poteva definirsi relativamente “pacificata”. Tre anni dopo, scoppiata la sciagurata guerra fascista, le truppe italiane, senza poter avere rinforzi e rifornimenti dalla Madrepatria, dopo una valorosa resistenza, dovevano arrendersi agli inglesi. L’Africa Orientale era perduta. Intanto, il 13 settembre 1938 il sottotenente Pansini, dopo venti mesi di ininterrotto servizio in Colonia, affetto da “enterite subacuta da elminti in soggetto oligoemico e molto deperito”, si era imbarcato a Massaua su di una nave ospedale ed era giunto a Napoli il 27 dello stesso mese. Portava con sé in una cassetta militare tre punte di lancia, una scimitarra con una lama micidiale, trenta dischi con canzoni e musiche orientali, ed un fascicolo di carte varie. Ma soprattutto, come a tanti suoi commilitoni che con lui avevano condiviso l’avventura d’Oltremare, gli era restato nell’animo un tipo molto particolare di nostalgia che suole chiamarsi “Mal d’Africa”. Nel fascicolo sono contenute una cinquantina di fotografie, diverse lettere private, trenta comunicazioni dattiloscritte di tenore militare e amministrativo da Addis Abeba e Gondar a Dessiè, ed alcuni fogli manoscritti. Le immagini ci mostrano le ore di riposo dei medici all’esterno dei tendoni, un simpatico cappellano militare, gli inservienti indigeni, battute di caccia, i funerali di alcuni soldati caduti in un’imboscata, l’indescrivibile confusione di un mercato indigeno, splendidi panorami dell’altopiano che degrada verso la depressione dancala. Tra le informative ufficiali, pubblichiamo quella relativa alla cattura, esecuzione e decapitazione del Dejacc Hailu Kebbedè, agguerrito e impavido comandante di bande ribelli nella regione del Lasta. Infine una decina di piccoli fogli manoscritti ci narrano alcuni momenti della giornata di un ufficiale medico in Colonia. Scritti probabilmente subito dopo il ritorno in patria, forse abbozzo di un più vasto lavoro incompiuto, hanno già il colore nostalgico di una avventura in terre lontane. Vale la pena, concludendo, di riportarne uno stralcio. «Ahmed mi ha salutato, ma è fermo sulla soglia e non si decide ad entrare. Scruta attentamente il mio viso con i suoi occhi sbarrati di porcellana che rassomigliano a due uova sode. Non parla. Sarà salito su all’ospedale di corsa, come sempre, lasciando giù al villaggio i venditori atterriti ed in subbuglio. Alto e riarso com’è, ho paura che mi si afflosci d’un tratto sulla soglia, prima che abbia il tempo di parlare. Ma io so che cosa vuol dirmi, lo so perché da due mesi ad ogni arrivo di carovana, lui scende al villaggio e risale all’ospedale di corsa con la borsa di sanità che gli batte le natiche, ed il fucile ad armacollo. E mi dice sempre le stesse cose: che la carovana è arrivata, che c’è gente da visitare, che caffè c’è, ma non buono, ed altre notizie che ritiene di dover riferire. E adesso che l’animo gli si è acquietato nei precordi, si decide a parlare, le cinque dita della mano destra sollevate all’altezza del naso. “Tredici uomini con cammelli, due donne ma non buone, caffè non buono, seta c’è, wischi c’è, Signor Capitano e altro Signor Tenente chiamato me per donne, ma io detto prima visitare Signor Tenente Medico, tabgha c’è, ma non oggi, domani. Capito, almaelj? – Si capito, Ahmed”. Hamed, arabo-somalo della Migiurtina, vecchia stirpe di pirati in sambuco, è un armato al nostro soldo, infermiere senza molti scrupoli, ed ha il compito di aiutare me, che rappresento la scienza ufficiale. Odiato, ed insieme temuto dai nativi, è il più elegante del gruppo cammellato, con il khenjar, arma da macellaio al fianco, il turbante bianco a nodo, e la barbetta caprina. Mi deve aiutare, ma la mia opera in questo lembo sperduto di Dancalia lo incuriosisce senza impressionarlo. Non per niente, la sua razza millenaria è oggi una triste e gloriosa schiera di gente che ha resistito alla lue, alla malaria, alla lebbra, facendo soltanto scongiuri. Ahmed quando vuole, fa anche il mezzano degli altri bianchi del fortino, eccezion fatta per il sergente della radio, con il quale ha un vecchio conto da regolare, per via di una pedata affibbiatagli di notte a tradimento, mentre diluviava che pareva il cielo volesse franarci addosso… Quaranta all’ ombra. Il cielo folgora fuoco. La visita medica ai componenti della carovana ha lo scopo quaggiù di impedire la penetrazione nel nostro territorio di malattie infettive: ai nostri cari vicini di altra lingua di Gibuti non parrebbe vero di far passare, oltre alle armi per i ribelli ed altri scherzi del genere, anche elementi igienicamente indesiderabili; gran sollazzo per loro se scoppiasse qui un’ epidemia: emergerebbe la nostra impreparazione coloniale in campo sanitario, dopo quella militare. Ed i tempi che corrono non prometto-no niente di buono. Il fatto è però che i nativi sfuggono alle visite ulteriori di controllo, poiché per l’ indigeno il farsi rivedere è un obbligo solo morale, che nessun regolamento di polizia sancisce. Ond’è che la mia fatica è cosa quasi vana; non c’è regolamento, ci sono le disposizioni, c’è l’ ultima circolare e così sia. È il tramonto e la carovana riparte, ma l’ aria è già scura perché non v’è crepuscolo al decimo parallelo. Quattro, cinque, sei stelle sono già in alto, lucide, brillanti come punte di sigarette accese nel buio. La gran luminaria sarà tra un’ ora, ed un ricco alone intorno alla Croce del Sud. Poi la luna sarà di scena anche questa notte, e la piana del sale, una distesa infinita ed allucinante di mercurio liquido. E noi a vedere con gli occhi sbarrati un panorama unico al mondo in un silenzio perfetto. Giù nel villaggio i cani abbaiano e le gente traffica con le tende; si allineano i cammelli, il capo dà il via. Una fuga di vento caldo quando il corteo dilegua. L’ ultimo cammello volge la testa verso di noi, e ci guarda tra il filo spinato: ma il conducente lo colpisce con il bastone e lo punisce della sua curiosità”.

Autore: Ignazio Pansini
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