Pubblichiamo, per gentile concessione della prof. Liliana Gadaleta, questa lettera inedita rinvenuta, quasi per caso, nell'archivio privato della famiglia Minervini. E' un documento straordinario: una missiva inviata in America, nel 1962, da Giovanni Minervini, allievo prima e studioso poi di Gaetano Salvemini, ed indirizzata ai coniugi Bolaffio, cari amici del grande storico molfettese, tanto da averlo spesso ospitato, per lunghi periodi, a Boston, durante la sua permanenza negli Stati Uniti.
In queste righe, tra i ricordi in prima persona di Giovanni Minervini, ricchi di aneddoti e di citazioni, si rinviene uno spaccato memorabile della vivacità culturale che caratterizzava gli ambienti “salveminiani” di Molfetta, durante e dopo la seconda guerra mondiale, oltre che un insolito ritratto privato dell'indimenticabile “testimone di libertà”, nostro concittadino.
Giu. Cal.
Molfetta, 25 dicembre 1962
Per Robert e Maritza Bolaffio
Cara Signora, Caro Ingegnere,
questa è una lettera che avrei dovuto scriverVi da molto tempo; che portavo dentro di me e non riuscivo a tirare fuori, no so se per pigrizia o eccessivo pudore.
Ma le ultime foto di Salvemini, da Voi gentilmente inviate, mi hanno spinto a pagare questo debito di riconoscenza verso Voi ed il maestro scomparso.
Attraverso la lettura delle opere salveminiane, ognuno secondo l'intelligenza e la cultura che ha, si forma un giudizio personale che, forse, potrà coincidere con quello degli altri.
Ma vorrei parlare di Salvemini, quale io lo conobbi attraverso i ricordi e le testimonianze di parenti ed amici, ed infine con l'incontro personale, e parlarne proprio a Voi che avete avuto la fortuna di vivere a lungo con lui e che perciò potete capire, meglio di altri, i sentimenti che seppe suscitare in me.
Forse Vi sottrarrò un po' di tempo ma voglio sperare di farVi cosa gradita.
Salvemini, questo nome di quattro sole sillabe, che io a cinque anni circa imparai a conoscere ed a pronunziare, allorché mio nonno paterno, salveminiano fino nelle midolla, sollevandomi sul tavolo da pranzo, come su un palcoscenico, mi faceva cantare una piccola filastrocca che ancora ricordo: “Il ventitré ottobre millenovecentotredici – quel porco di Pansini – faceva il camorrista. Viva Salvemini – Viva Salvemini – viva il professore – dell'università”.
Ed io, compiaciuto e della canzoncina, e dei visi commossi dei parenti che mi facevano coro, (Salvemini era scappato via dall'Italia da poco tempo: ed io l'ignoravo) non riuscivo a capire quale interesse mio nonno ed i parenti tutti, provassero ad ascoltarmi.
Ricordo chiaramente, facevo allora la quarta elementare, di aver avuto tra le mani una bella fotografia di Salvemini, donatami da una mia zia. La portai a casa, come una reliquia, la feci vedere a mia madre, e da lei mi feci dire tutto, tutto ciò che sapeva di Salvemini.
Più stimolavo mia madre, e più lei tirava fuori dalla sua memoria, come a un vecchio ripostiglio, svariati, infiniti, ricordi salveminiani. Questa era la stanza (la mia stanza da studente) in cui dormiva Salvemini; questo il posto (nello studio) che occupava di solito Gaetano (così lo chiamavano in famiglia) quando si intratteneva con gli amici. Da questo balcone (nella sala da pranzo) parlò ai molfettesi dopo la vittoria riportata nel 1914 al consiglio provinciale. Il mio bagaglio di notizie salveminiane aumentava così, di giorno in giorno.
Contento e soddisfatto, custodivo religiosamente quei ricordi e quella vecchia foto, ed all'occorrenza ne parlavo ai miei amici più intimi, non permettendo loro che facessero apprezzamenti o critiche; anzi scattavo quando costoro facevano considerazioni fuori luogo sull'uomo che avevo cominciato ad amare, così come un cattolico che santa dir male del volto della Vergine. Fu a dodici anni, facevo allora la seconda ginnasiale, che mi capitò un fatto strano. Avevamo avuto a scuola lo schedario della biblioteca. Nel leggere i titoli dei libri, sbirciai, con grande gioia, un nome con asterisco segnato a fianco (non ho mai capito il perché): Gaetano Salvemini – La rivoluzione francese (1788 – 1892) - 3° edizione – Signorelli Milano.
Soddisfatto di quella scoperta, mi affrettai a riempire la scheda del prestito. E giacchè il libro poteva essere dato in lettura soltanto agli alunni del liceo, feci firmare la richiesta dalla mia insegnante di italiano (la quale, lo seppi molto tempo dopo, era stata alunna di Salvemini all'Università di Firenze). La maestra sorrise, senza che io capissi il perché, ed affidò al bidello le richieste di tutti gli alunni. Il giorno dopo, fui chiamato dal bibliotecario, che era un fascista, e che fascista (costui finì la sua carriera come preside a Lodi; anzi mi dicono che si sia rivolto a Salvemini per ottenere da lui uno scritto da far pubblicare sull'annuario scolastico, per festeggiare il centenario del liceo) il quale, nel consegnarmi il libro, con un sorriso sarcastico, che non ho più dimenticato, non solo volle sapere il perché di quella richiesta, ma nel congedarmi, mi disse: “Tu sei Minervini, Minervini, nipote di Giovanni!”
Non dissi nulla dell'accaduto ai miei genitori, però, da quel giorno, il nome di Salvemini rimase fisso nella mia mente con un chiodo. Ora, volevo sapere tutto di questo uomo; perché era andato via dall'Italia, perché i molfettesi (i vecchi specialmente) lo ricordavano religiosamente. Mi raccontavano, per esempio, che le donne nella città vecchia conservavano gli scapolari con la foto di Salvemini come facevano per i santi protettori. Ed i più anziani, d'estate, in periodo di siccità, quando tardava a piovere esclamavano: “Cure sénde Salvamene ne la dave né saziata d'acque!” (quel santo Salvemini così ci desse acqua in abbondanza!).
Cominciai poi a rintracciare i vecchi salveminiani. Ricordo un modesto verniciatore, vecchio socialista, che prima di morire mi affidò gelosamente i tre volumi su “Le elezioni di Molfetta”. Conobbi poi alcuni braccianti, che mi raccontavano ricordi caratteristici sulle elezioni del 1913. Anzi uno più arguto aggiungeva che, nel trovarsi a lavorare con padroni pansiniani (cioè antisalveminiani), il loro segno di riconoscimento era: “evviva eccetéra” (cioè non nominavano Salvemini, per evitare le ire dei padroni contrari al nostro). Salvemini, aggiungeva un altro con enfasi, quando faceva “la circonvérénze” (conferenza-comizio) parlava “alla borghése” (con linguaggio dotto ma in modo accessibile a tutti).
Anche Nicola De Ceglie, il famoso “cane in collo” noto “mazziere pansiniano”. Costui, dopo aver elogiato Salvemini come antifascista, affermò: “ma io resto sempre della stessa idea” (a quale idea avesse voluto alludere, non riuscii mai a capirlo).
Ed aggiungeva: “nelle elezioni del 1913, mi comportai in quel modo solo per necessità” (penso per ingraziarsi i padroni pansiniani: il De Ceglie, oltre ad essere piccolo proprietario, nei momenti liberi faceva il sensale per arrotondare il guadagno giornaliero). Sorridendo e stringendolo con forza il braccio concluse. “Mé quénne venéeve a Mlefétte cure lémbiòene fésse, seccedéeve né reveleziòene, mettèeve tutte u paiàise sott'a sòepe. Po' nén de dàiche ce facévene chére putténe de fémene d'inda a la tèrre!... (Ma quando veniva a Molfetta quel lampione – testa calva per somiglianza coi lampioni a gas una volta in uso – fesso, succedeva una rivoluzione, metteva in subbuglio tutto il paese. Poi non ti dico che facevano quelle p…. di donne nella città vecchia).
Altri ricordi, caratteristici questi, su “Donna Emanuela” madre di Salvemini. Questa “moderna Santippe” (secondo la testimonianza di un suo nipote) un po' trasandata, con le scarpe quasi sempre infangate, pronta a coprirsi la testa persino con un bacile, se era sorpresa dalla pioggia per strada (“faccio i comodi miei” esclamava, tirando dritto) continuamente in giro per tamponare le falle di una famiglia che come la gramigna si moltiplicava di anno in anno. Ed ai creditori che, con insistenza, bussavano alla porta di casa sua per chiedere i quattrini, filosoficamente, al suono della chitarra, canterellava uno stornello che terminava: “ed infine te li darò, quando li avrò!”.
La povernina, preoccupata dalla enorme testa del figliolo (“un testone da frate”) e credendola idrocefala, si rivolse al medico Antonio Pansini (un omarino tutto pepe; non era alto più di un metro e mezzo col “cilindro” in testa) il quale, dopo aver visitato il bimbo, così rispose: “Donn'Aménuéele cusse è tutte cereviédde!” (Donna Emanuela, questo è tutto cervello!).
Invitata, in altra occasione, dal Giudice a testimoniare nella causa di separazione legale tra lo scontista Bacolo e sua moglie, tagliando corto, concluse con spregiudicatezza il suo intervento: “Infine, signor Giudice, i cani si vedono, i gatti si sentono, gli uomini si presumono! (condanna senza prove, penso!).
Si aggiunsero poi i fratelli Nuovo, qualificati artigiani, Corrado Visaggio, integro ed onesto amministratore, Angelo Gadaleta, sindacalista coi fiocchi. Infine il rag. Sergio Azzollini che nel 1924 aveva avuto il coraggio di sfidare il fascismo al potere presentandosi come candidato al Parlamento nella lista del Partito Socialista Unitario, e l'avv. Nicola Altamura, amico di Salvemini all'Università di Firenze, il migliore amministratore che abbia avuto la Sezione Socialista di Molfetta.
Giovanni Minervini
1 - continua