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Don Mimmo Cornacchia: costruire insieme la casa comune
15 febbraio 2016

È già vescovo, proviene dalla Diocesi di Lucera-Troia, mons. Domenico Cornacchia, 66 anni appena compiuti, il nuovo pastore della Diocesi di Molfetta, Giovinazzo, Terlizzi e Ruvo. Aspetto gioviale, sempre sorridente, cortese, disponibile, affidabile, sono questi i tratti immediati del suo carattere che don Mimmo, buon comunicatore, trasmette subito ai suoi interlocutori. A fine gennaio, in vista del suo prossimo insediamento, previsto per sabato 20 febbraio, siamo andati ad incontrare il nuovo vescovo nel suo episcopio dauno, dove ci ha accolto con gioia e simpatia. Ne abbiamo ricavato un’intervista esclusiva, un’anteprima che ci permette di presentare ai lettori di “Quindici” e ai cittadini il nuovo pastore. Come ha accolto la notizia della sua nomina? «Sono stato nominato il 15 gennaio Vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi, ma non potevo immaginare una cosa simile perché noi vescovi, sacerdoti sappiamo che la vita non ci appartiene per cui demandiamo tutto alla nostra suprema autorità, il Papa, colui che ritiene ispirato dallo spirito a svolgere il compito al meglio per la chiesa». Qual è stato il suo rapporto con don Tonino Bello? «Ho avuto la fortuna e la gioia di conoscerlo personalmente perché dall’1984 fino al 2005 ho tenuto un corso di teologia spirituale presso il seminario regionale di Molfetta, che poi è diventata facoltà teologica pugliese e pertanto dal 1982 quando lui è venuto in provincia di Bari l’ho conosciuto, l’ho frequentato e l’ho invitato presso l’istituto Federico II di Altamura per ben due volte per i precetti di Pasqua agli studenti. Ricordo che c’era una ragazza che in quel periodo aveva perso la fede, ma dopo aver ascoltato don Tonino riprese il suo cammino di fede. Una mia alunna, in una delle visite che fece don Tonino proprio al liceo scientifico, al termine della celebrazione dell’Eucarestia per i precetti di Pasqua, volle fargli un dono: un disegno realizzato per la storia dell’arte e chiese al professore se poteva donarlo al vescovo don Tonino. Questo disegno, che rappresenta un particolare della cattedrale di Altamura, si trova nel corridoio dell’episcopio di Molfetta. L’episodio è avvenuto esattamente trent’anni fa e quando sarò a Molfetta, cercherò di rintracciare questa mia alunna che immagino possa farle piacere sapere di questo suo disegno». Si sente più un sacerdote di strada o un vescovo dell’«apparato»? «Le mie origini sono molto umili, provengo da una famiglia numerosa, eravamo otto, ora siamo in sette, ho undici nipoti diretti, tre pronipoti e grazie al Signore ho fatto sempre ciò che ho potuto, ciò che ho voluto perché sin da bambino e da ragazzo, sono entrato presso il Seminario arcivescovile di Bari, poi ho fatto teologia a Roma. Quando sono entrato in seminario morì papà, mentre quando sono entrato a Roma morì mamma, entrambi avevano quarantanove anni. A quel punto sarei potuto tornare indietro per aiutare fratellini più piccoli, per lavorare, ma il Signore mi ha fatto intendere, tramite i miei superiori: “Mimmo tu prega e studia al resto ci pensa il Signore” e questo posso garantirlo si è realizzato tante e tante volte nella mia vita. Non rinnego le mie radici e non riuscirei ad essere diverso da come sono mi sento una persona molto modesta e umile anche di origini, non saprei vedermi calato in un altro livello sociale. Ciò che ho fatto in questi quarant’anni che sono prete, me lo conferma». Ho letto una bella frase che lei ha detto: Vorremmo che i sacrifici per il bene della collettività fossero di tutti e non solo dei più deboli «Certo perché spesso sono gli umili, coloro che non hanno voce in capitolo a non far giungere in alto la loro voce, è la reazione ai loro problemi. Per cui io dico che ci vuole una promozione degli ultimi e magari chi è in alto deve cercare di interpretare i bisogni degli ultimi anche nella chiesa; il vescovo, il parroco deve parlare sì a nome suo, ma per chi non ha voce». Lei è un vescovo che ha affrontato anche le battaglie civili, ho letto di quando ha fatto suonare le campane a morto contro la chiusura del tribunale e di alcuni reparti dell’ospedale. Ritiene che un vescovo debba fare queste battaglie? «Sì qualche anno fa, al termine della processione della festa patronale, furono suonate le campane a morto per dare un segnale alla cittadinanza e non solo. Il vescovo non può sentirsi estraneo al contesto socio-culturale in cui vive. Coloro che devono servire la collettività e il bene comune i problemi degli altri devono sentirli propri. Non ritengo di aver fatto una cosa straordinaria, ma esattamente ciò che dovevo e l’ho fatto con piacere e con il cuore». C’è qualcosa che l’accosta a don Tonino, quella lettera al “caro amico ladro” che lei scrisse perché era sparito il salvadanaio della parrocchia. Come le venne l’idea? Ha presente la lettera di don Tonino a Massimo, ladro zingaro ammazzato da un metronotte? «Non conosco quella lettera. Sono stato i primi 17 anni come vice parroco, poi come parroco al Sacro Cuore di Altamura, poi sono andato al Seminario regionale di Molfetta come padre spirituale per 12 anni e nel frattempo ho insegnato vent’anni teologia spirituale. Infine sono ritornato ad Altamura in una parrocchia erigenda, in un locale adattato a luogo liturgico provvisorio. Il vescovo mi fece scegliere se restare come parroco in una parrocchia già blasonata e avviata da tre secoli oppure andare in una zona periferica dove non c’era nulla. Non ebbi assolutamente alcun dubbio nella scelta che feci: andare in periferia. Quindi 11 anni fa sono tornato ad Altamura da Molfetta e lì mi sono attivato immediatamente a creare più la comunità che la chiesa. In due anni abbiamo fatto mille iniziative per la gente perché si accorgesse di dove fosse e con chi stesse. Bisognava mettere qualcosa da parte per comprare le cose più utili per l’attività pastorale. La provvidenza non ci ha mai fatto mancare nulla e da Terlizzi acquistai due salvadanai di terracotta abbastanza grandi: uno lo collocai sulla scrivania dell’ufficio parrocchiale e i bambini, i ragazzi e tutti quanti portavano le loro offerte. Uno era per le missioni, l’altro per la nuova chiesa. Ad un certo punto prima di celebrare dissi ad un vice parroco di chiudere l’ufficio parrocchiale, ma lui lo lasciò aperto e così evidentemente chi aveva più bisogno portò via il salvadanaio. Abbiamo poi saputo da un amico che in qualche modo voleva trovare un vantaggio da questa storia, che c’erano circa 2.000 euro in quel salvadanaio. Così scrissi quella lettera al caro amico ladro». Quale difficoltà ha un vescovo soprattutto nei rapporti con i politici? «Sono stato vescovo a Lucera e Troia per poco più di 8 anni. A Lucera si sono avvicendati quattro amministratori: tre sindaci e un commissario prefettizio. Con tutti i rapporti sono stati eccellenti, con grande rispetto e affetto». Le faccio questa domanda perché lei verrà a Molfetta e troverà una città divisa con molto odio tra le persone e i partiti e all’interno degli stessi partiti, uno contro l’altro: l’insegnamento di don Tonino è stato dimenticato. «Credo che il vescovo come responsabile, come padre di una comunità religiosa debba sicuramente cercare di essere sempre super partes, anche tra queste fazioni della classe dirigente sul versante politico. E’ chiaro che tutti cercheranno di tirarti di qua e di là e ti presenteranno un aspetto della realtà che potrà essere anche positivo, vero. Ma paragonato e collocato in un contesto globale potrebbe assumere un’altra tonalità. Per cui bisogna che il vescovo, i pastori delle parrocchie formino le coscienze rette, serene e che tutti ci sforziamo di indicare e raggiungere quello che la chiesa chiama il bene comune. Papa Francesco in tutti i suoi interventi non fa altro che parlare di questa casa comune perché se nella casa ogni stanza diventasseun’isola, quella casa non sarebbe più vivibile e così dobbiamo fare noi». Lei ha anche un fratello che è stato segretario politico del Pd di Altamura, ma mi hanno detto che non ha mai utilizzato la sua posizione per raccogliere consensi per quel partito. E’ vero? «Sì, anzi lui e un altro fratello mi danno lezioni di servizio alla cittadinanza, perché anche loro si spendono per i più deboli». Ho letto un’altra sua bella frase che mi è piaciuta: “prego perché coloro che ci governano possano produrre il bene di tutti non di pochi, porto con voi e per voi la croce di quelli che non ce la fanno, che temono la chiusura dell’ospedale e del tribunale. Lei è sempre stato attento ai giovani, alle loro ansie, alle loro preoccupazioni per la mancanza di futuro, alla loro disperazione. «Quello che dice è vero. Mancano quasi 20 giorni al trasferimento nella nuova sede diocesana (l’intervista è stata realizzata a fine gennaio, ndr) e sono tanti gli impegni, i saluti, gli incontri da fare. Ho preso appuntamento solo con qualche ammalato e sono stato tutta la mattinata al carcere di Lucera, ho incontrato questo popolo di giovani, abbiamo celebrato con loro la liturgia dell’anno giubilare. Abbiamo pregato con loro e per loro. I giovani mi stanno molto a cuore, spesso noi ci serviamo dei giovani, perché li illudiamo per farci strada o promettiamo tante volte cose che sappiamo di non poter mantenere. Don Tonino diceva: “I giovani non sono dei sacchi vuoti da riempire, ma fuochi da ravvivare”. Un detenuto mi ha accolto con le lacrime agli occhi, mi conosce, perché nel carcere sono andato spesso e a loro dispiaceva che andassi via». Cosa lascia nella vecchia Diocesi, cosa si porta dentro e cosa si aspetta da Molfetta? «La nuova diocesi che mi attende anche dal punto di vista economico è molto differente da quella che lascio. Voi non avete idea di cosa sia tutto il subappennino dauno, 19 Comuni che vanno da meno di 200 a un massimo di 3.000 persone, con grossi problemi e tanta disoccupazione. Le poche persone che restano, non vedono l’ora di evadere, di uscire, loro malgrado, perché non c’è un’alternativa. Noi come Chiesa, come società, abbiamo il dovere di spianare la strada a questi ragazzi, di offrire loro un’opportunità per rimanere e non evadere da nostro territorio, per non farli prendere dallo sconforto e dallo scoraggiamento. Io ho sempre detto a questi ragazzi quando insegnavo, che noi dobbiamo vivere in modo da non avere rimpianti del proprio passato. Dinanzi al Signore posso affermare che rimpianti non penso di averne. Ho fatto quello che dovevo, lascio qui un po’ della mia vita e spero di aver lasciato qualche seme che possa attecchire, portare frutti, di speranza, di Letizia, di gioia, di amore per il territorio, per la propria identità umana. Mi porto dentro la semplicità, l’amore, la spontaneità di tanti, anche dei bambini. L’altro giorno mi è arrivato un messaggio di un papà. Mi ha detto che il suo bambino gli ha chiesto: “perché va via il vescovo, non ci vuole più bene?”. E si è messo a piangere anche il papà, pensate. Ho risposto che assolutamente non è così, non corrisponde a verità. Però comprendo, mi sento legato tantissimo a questa Diocesi e posso anche immaginare che tanti cittadini, ammalati, anziani, possono avvertire la medesima sensazione verso di me. Credo che nessuno conosca la realtà diocesana più e meglio di me, perché in tutti i paesi che ho visitato, ho incontrato gli ammalati, i poveri, per cui questi ricordi e questi fotogrammi me li porterò dentro, per farne un cortometraggio che spero possa aiutarmi nel servizio futuro ad evitare magari qualche imprudenza, qualche incomprensione, cominciando dai miei primi collaboratori che saranno i preti». Don Tonino quando ci lasciavamo, mi diceva sempre una frase che mi è rimasta dentro con alcuni bigliettini che mi sono rimasti e che conservo gelosamente: “devi servire la verità, è stato il messaggio che lui mi ha sempre lasciato. E io gli rispondevo che servire la verità non è facile, né conosciamo la verità: la conosce solo il Signore. Ci sforziamo di fare questo, di avvicinarci quanto più è possibile, con i nostri limiti umani. Don Tonino ci teneva tanto alla stampa, all’informazione, attraverso i media poteva trasmette il suo messaggio pastorale. Lei che messaggio vuole dare agli operatori della comunicazione e quindi ai nostri lettori, ai fedeli, ai cittadini di Molfetta? «Il messaggio è quello di non arrendersi, anche se siamo nella società della comunicazione, anche se siamo un po’ fagocitati, se rischiamo di essere travolti dalla notizia che fa rumore, e che fa poco bene, il bene fa poco rumore... Il rumore di per sé stordisce, mentre un messaggio appena sussurrato all’orecchio, al cuore, oppure appena sussurrato dal bisbiglìo delle nostre labbra, è più di una trivella. Io dico che bisogna essere amanti, costruttori e facitori della verità. Ma la verità ha bisogno di coniugarsi sempre con la carità, perché il bene va fatto bene. Se non viene fatto bene, non sarà più bene, sarà un’altra cosa. Se mi metto nelle mani di un chirurgo frettoloso, può essere solo negativo, ma se lui è paziente, sereno e calmo, potremo scoprire anche il bene della salute e della verità, che spesso è nascosta nelle pieghe dell’apparenza. Per cui direi anch’io servite la verità, servitela per ottenere tanto col rispetto delle persone. Non abbiamo poi la pretesa di dire che siamo i possessori della verità assoluta, siamo solo un lembo, uno spicchio, un raggio di questa immensa realtà. Perciò dobbiamo metterla insieme la verità, perché solo insieme si comprende l’amore, il giusto di ciò che noi diciamo e delle cose che facciamo. Occorre che ciascuno faccia la propria strada e auguro un gran bene alla nostra diocesi di Molfetta, che il Signore ci dia una grande rassegnazione per la repentina e improvvisa scomparsa dei due pastori, don Gino Martella e il vicario don Mimmo Amato. All’ombra di coloro che ci hanno preceduto spero che sappiamo tracciare un segno indelebile nella storia della Chiesa e della nostra Diocesi».

Autore: Felice de Sanctis
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