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Detti erotici molfettesi I nostri detti memorabili
15 luglio 2001

di Marco de Santis L’argomento che mi accingo a trattare riguarda alcuni motti erotici molfettesi. In realtà più che esclusivamente molfettesi sarebbe più esatto definirli detti pugliesi e meridionali sull’erotismo raccolti a Molfetta, perché almeno in parte sono noti anche in altre città della Puglia e del Mezzogiorno. Vengono comunque qui esclusi quelli già affrontati parlando del motto Vattinnë, fava vécchjë, c’ha vënutë la favê nóëvë e del proverbio U pulpë së cóëscë ind’all’acqua sòa stèssë, dove la “fava” e il “polpo”, in determinati contesti, sono sostituti metaforici dell’organo sessuale maschile. L’amore, sia nelle sue forme più sublimi che nei suoi aspetti più crudi e pragmatici, ha riempito di sé il mondo e i discorsi degli uomini, e immancabilmente ha lasciato le sue tracce anche nei dialetti. Cominciamo con le affermazioni teoriche: Êmòërë chëd êmòërë së paghë, amor con amor si paga. Un modo lapidario per dire che il vero amore non ha prezzo e si può contraccambiare solo con un sentimento analogo. Sembrerebbe un concetto cavalleresco, cortese o stilnovistico, ma, come scrive Petrarca, Proverbio “ama chi t’ama” è fatto antico (Canzoniere, 105,31). In effetti già Seneca segnalava il motto Si vis amari ama (Se vuoi essere amato, ama), attribuendolo allo stoico Ecatone. Il proverbio molfettese è di trafila dotta. Trova un lontano antecedente in un massima spagnola del Cinquecento ed ha un riscontro perfetto nell’adagio napoletano Ammorë cu ammorë së pavë, replicato in varianti di Roma, Genova e Bologna. Similmente in Toscana si dice: Amor non si compra e non si vende; ma, in premio d’amor, amor si rende. Altri proverbi sull’amore rientrano nel campo degli avvertimenti. Per esempio Êmòërë dë patrunë, êmòërë dë fiascunë, Amore di padroni, amore di fiasconi. In quanto interessati e infedeli, sono tutti di breve durata, come conferma un’analoga versione toscana: Amore di signore e vino di fiasco, la sera è buono e la mattina è guasto. Viene considerato anche il punto di vista opposto: Êmòërë dë quatralë, picchë më dè e ppicchë valë, Amore di serva, poco mi dà e poco vale. Ma ci sono anche definizioni più romantiche: Êmòërë vécchjë s’ammêndéënë, u nùëvë vè e vvéënë, Amore vecchio si mantiene, il nuovo va e viene. Il primo è o sembra più tenace perché nobilitato dall’incanto delle illusioni e dei sogni giovanili. In tema di amoreggiamenti poco impegnativi, oltre all’espressione zitë dë sëmëndêgnë, ‘fidanzati di campo incolto’, cioè innamorati per passatempo, si segnala il proverbio molfettese e pugliese Pìzzëchë e vvasë nêm bàscënë prettusë, Pizzichi e baci non fanno pertugio. In altre parole, secondo il buon senso popolare, pizzicotti e sbaciucchiamenti non compromettono l’onore di una donna. Non lascia adito a dubbi il corrispondente adagio napoletano, reso più esplicito dalla coda: Pìzzëchë e vvasë nun fannë përtósë e maniatë ‘e zizzë nun fannë criaturë, Pizzichi e baci non fanno buchi e palpeggiamenti ai seni non fanno bambini. In questo àmbito a Molfetta il verbo rasckà, letteralmente ‘raschiare’, fino al secondo dopoguerra esprimeva per traslato la possibilità di “prendere leciti e lievi diletti d’amore” (Scardigno, Nuovo lessico molfettese-italiano, Mezzina, Molfetta, 1963, p. 418). Poi dagli anni Sessanta del Novecento, parallelamente all’evoluzione del “comune sentimento del pudore”, il verbo ha preso il significato di “scambiarsi baci, carezze e altre effusioni erotiche al limite del consentito dal costume”, così come è accaduto per le voci gergali italiane limonare e pomiciare, che partendo dal più semplice amoreggiamento, hanno finito per indicare la pratica del petting più o meno spinto. Quando si supera il limite la rasckatë diventa chjêndéddë. In passato per coire si usava anche un’espressione attinta dal gergo dei funai, fa nê sauréllë, alla lettera ‘fare una sàgola’. Dallo stesso àmbito artigianale proveniva l’eufemismo scherzoso s’allónghë la crëddéddë! s’allunga la cordicella!, allusivo all’erezione. Tornando ai meno compromettenti sbaciucchiamenti, l’idioma nostrano ha un’espressione simpatica per quelli più succianti, schioccanti o appassionati: srëcchjà lë cazzavùmëlë, succhiare le chiocciole (naturalmente condite e cotte, con buona pace del galateo che impone di non essere troppo rumorosi a tavola). In presenza di ragazze da marito isteriche o comunque smaniose di sposarsi i medici di scuola ippocratica presentavano ai genitori un’antica ricetta: Nubat illa et morbus effugiet (La si mariti e la malattia sparirà). Alle stesse, invece, i vecchi popolani consigliavano più o meno scherzosamente: Fattë mbénnë da nu bbó pràtëchë; fattë fòttë da nu ggiòvënë bérëfàttë, Fatti impiccare da un boia pratico; fatti sedurre da un giovane aitante. Il boia esperto rendeva l’impiccagione meno dolorosa; il giovane prestante giustificava in qualche modo la perdita della “virtù”. Del resto il maschilismo e la misoginia del passato non si facevano scrupoli: La fèmmënë fùttëlë e vattìnnë, La donna fottila e vattene. Casanova docet. In fatto di sesso il popolino ridanciano e burlone ha la battuta pesante. Così al passaggio di una coppia di sposi nella carrozza o nell’automobile nuziale a Molfetta e in Terra di Bari diceva allora e ripete tuttora: S’av’achjusë nê segherìë e s’av’apìërtë nu altë furnë, Si è chiusa una segheria e si è aperto un altro forno. La metaforica salacità non era sfuggita a Piripicchio, un artista di strada vestito da Charlot, che negli anni Sessanta e Settanta del Novecento cantava: Tuttë ténghënë u furnë / e marìtëmë nnò (bis). / Ci tu, maritë mìë, / la palë la mittë tu, / u furnë u mèttë ìë / e mbërnàmmë tutt’e ddu, Tutti hanno il forno / e mio marito no. / Se tu, marito mio, / la pala la metti tu, / il forno lo metto io / e inforniamo tutti e due. La donna, da Eva in poi, tenta e compromette l’uomo: La fèmmënë fascë la furchë e l’ómënë së mbénnë, La donna fa la forca e l’uomo vi s’impicca. Quest’attrazione fatale è confermata pure da un altro proverbio: Tirë cchjù nu pàilë (o nu capiddë) dë fèmmënë ca nu paricchjë dë vùëvë, Tira più un pelo (o un capello) di donna che una pariglia di buoi. Se il motto molfettese risulta più o meno purgato, la versione napoletana è decisamente esplicita: Tira cchjù nu pilë ‘e féssa ca na paréglia ‘e vuójë, Tira più un pelo di vulva che una coppia di buoi. Più leggeri, in confronto, sono i frizzi che baldi giovanotti e signori anche attempati lanciano alle ragazze e alle donne pettorute. Tra gli apprezzamenti più comuni, vi è l’esclamazione Sò cchjèënë, rë cózzëlë! Son piene, le cozze! Ma un tempo i popolani preferivano le espressioni Cé ssórtë dë chëlummë! Che razza di fioroni!, Cé ssórtë dë casëcavaddë! Che razza di caciocavalli!, Cé ssórtë dë mëlàunë! Che razza di meloni! Cé ssórtë dë vësazzë! Che razza di bisacce!, e simili. Viceversa, alla vista di fanciulle e signore dal seno piatto, c’è qualcuno che ancora esclama: Ha passatë Sên Gëséppë cu chjênùzzë! È passato San Giuseppe con la pialla! Più o meno come a Napoli, dove si registra l’arguzia San Giuséppë ncë ha passatë ‘a chjanòzza!, San Giuseppe vi ha passato la pialla! Tutto questo grazie alla leggendaria abilità di falegname dello sposo di Maria, che dalla apocrifa Storia di Giuseppe falegname è passata a pieno diritto nel folclore dei popoli cattolici.
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