Incontriamo Franco d’Ingeo in via Margutta, il luogo dove è più facile incontrarlo, il centro, in quegli anni, della vita artistica di Roma, piena di Gallerie, di Mercanti d’Arte, di studi di Artisti, dove Franco conosce più o meno tutti. Incontro casuale, sono con mio fratello e andiamo per Mostre, non ci vediamo da parecchio con Franco, quindi esclamazioni di sorpresa, abbracci, domande… vive a Roma Franco, dopo l’esperienza parigina, con la sua inseparabile Memena, compagna, moglie, ispiratrice, modella, che per tutta la vita ha condiviso con lui i panini con il bicchiere di latte degli anni difficili, e i successi e le affermazioni che sono poi seguiti, seconda solo al suo grande, irrinunciabile amore: la pittura. A Roma Franco ha dipinto alcuni dei suoi ritratti più belli ad attori e personaggi importanti, perché Franco è un notevole ritrattista e un formidabile disegnatore, e il disegno, che è alla base della pittura, è qualcosa che anche molti artisti figurativi oggi non sanno fare più. Franco è poi tornato definitivamente a Molfetta, la famiglia è cresciuta, ha avuto l’incarico di Docente al Liceo Artistico di Bari e ha continuato a dipingere le sue magiche marine, i ritratti, i sassi, le splendide composizioni materiche con la sabbia, e ha continuato a disegnare. E’ morto disegnando, mi aveva mostrato poco tempo prima i suoi disegni di piccolo formato a cui si dedicava negli ultimi tempi, intriganti composizioni geometriche colorate con le matite. “A Marisa, amica di sempre”, è la dedica su un suo catalogo. “Volete venire con me? Vado allo studio di Trevisan, è un pittore… poi vedi”, detto da Franco, che avendo un solido mestiere guadagnato sul campo non ha mai tollerato dilettanti e improvvisatori, è un invito allettante. Raggiungiamo lo studio, – non saprei tornarci – vicoli, scale ripide, viene ad aprirci lui, non lo ricordo particolarmente alto, deve aver superato abbondantemente i quaranta, un viso scavato e intenso, un ciuffo di capelli grigi scompigliati sulla fronte, due baffi, folti sotto il naso, che terminano con due punte sottilissime rivolte verso l’alto, tipo quelli di Dalì, ma senza l’enfasi e l’aggressività di quelli, ci saremo conosciuti in qualche altra dimensione perché il nostro è un ritrovarsi, non ci servono molte parole e anche Franco è stranamente silenzioso. Io guardo i quadri alle pareti, accatastati sul pavimento, sul cavalletto, ricordo solo cieli notturni, agglomerati di stelle, nuvole eteree, bellissimi. Franco mi indica il cavalletto: guarda con che pennelli dipinge, sono sottilissimi, la sua pittura è fatta di pennellate brevi, i colori si sovrappongono con velature quasi impercettibili. Anche mio fratello tace. Franco rompe l’incanto: a che stai lavorando, indica una cartella rigonfia di disegni posata su un tavolo. Una lieve reticenza e Trevisan apre la cartella, sono disegni per l’inferno di Dante: demoni spaventosi, forme che hanno di umano solo vaghi riferimenti – penso a Bosch – disegnati con un tratto limpido, senza sbavature, pochi chiaroscuri, il volume lo fa il tratto. Prende un cartoncino con un dèmone inquietante che sembra guardarmi e me lo porge: è tuo, e poi mi regala una sua foto, è di tre quarti, con il suo ciuffo ribelle in primo piano e uno scorcio della mano sinistra che indica con la matita il disegno che è sul fondo della foto, “ La porta di Dite”, con una dozzina di dèmoni minacciosi. Mi scrive una tenera dedica. Disegno e foto sono sempre incorniciati nello studio di mio padre, lo sgomentavano un po’. “Da quando disegno questi dèmoni ho incubi orribili, sento presenze inquietanti di notte, forse lavoro troppo, sono sull’orlo di un crollo”, dice. Mi siedo su una panca addossata ad una parete, sguardi allarmati di Enzo, mio fratello, e di Franco: fatti almeno di lato, dice uno di loro, non riesco a capire che cosa vogliano, poi alzo la testa e vedo che dal soffitto pende una spada, legata con una corda sottile, è la mia spada di Damocle, dice Alberto. Mi faccio di lato e resto seduta, Franco sogghigna e guarda la panca, nello studio di Trevisan c’è già stato: è la mia bara, dice lui, quasi scusandosi, mi abituo all’idea della morte. Se i tre signori si aspettano di vedermi schizzare via li deludo, non sono superstiziosa e poi, come dice Sacha Guitry, essere superstiziosi porta sfortuna. Due colpi alla porta, battuti con le nocche, ci fanno sobbalzare, Alberto apre, entra un uomo che se avessimo una maggiore estensione di linguaggio, ora che generalmente i termini in uso sono alquanto scarsi, potrei definire possente. Ha una specie di cappa sulle spalle e una sacca, si inserisce nel nostro trio come il tassello di un mosaico che va a incastrarsi nel posto giusto. Parliamo…di che? e lui dice che è mezzogiorno e che i ragazzi, - mio fratello ed io – avranno fame e prende dalla sacca un barattolo di pesche sciroppate: ma dove le mettiamo? e Trevisan apre un armadietto a muro e ne estrae quattro bicchieri alquanto polverosi – ma sì, quello che non ammazza ingrassa, - e come prenderle poi. Enzo si avvicina al cavalletto, le prenderemo infilzandole con il manico dei pennelli, piuttosto che niente, meglio piuttosto, dicono a Roma. Devo andare, dice l’uomo e mi rendo conto che non si è presentato né Trevisan ci ha detto il suo nome, apre di nuovo la sacca e ne estrae un piccolo libro “Sono la mia traduzione di tre lettere di San Paolo”, ho saputo dopo da un amico Vescovo a cui le avevo fatte leggere, non essendoci imprimatur né il nome del traduttore, che sono perfettamente ortodosse. E’ stato un grosso personaggio della Curia romana, ci spiega Trevisan, poi ha abbandonato tutto e vive come un pellegrino, in povertà e penitenza. Non l’ho più rivisto né ho più rivisto Alberto Trevisan, qualche anno dopo Franco mi ha detto che era morto. Se non avessi la foto e il disegno penserei di aver sognato tutto, anche se dopo la visita al suo studio per un po’ di tempo anche io sognavo dèmoni ed evitavo di guardare il disegno entrando nello studio di mio padre. Ma è stato tanto tempo fa. Franco passeggia con Trevisan e gli indica, col suo tipico gesto, una nebulosa dai colori sfumati, e parla, parla, e si infervora, come sempre quando parla di pittura, e Trevisan, con il ciuffo scompigliato dal vento siderale, annuisce e sorride, e i dèmoni non sono più neanche un ricordo.
Autore: Marisa Carabellese