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Da qua se ne vanno tutti, la protesta di un gruppo di giovani contro il degrado della politica e la mancanza di futuro Tra i firmatari anche il noto musicista molfettese Caparezza (Michele Salvemini)
08 ottobre 2011

MOLFETTA – Un gruppo di giovani molfettesi, migranti e residenti, fra cui anche il noto musicista Caparezza (Michele Salvemini) hanno elaborato un documento di protesta contro l’attuale degrado della politica e la mancanza di futuro per colpa di un governo di incapaci e di una classe politica di infimo livello a Roma, come a Molfetta.

Ecco il loro documento:
«Siamo un collettivo di molfettesi migranti e residenti, stiamo vivendo un continuo periodo di incertezza, senza una bussola chiara e certa del nostro futuro. Andiamo via o restiamo, vaghiamo lo stesso, incatenati/e dalla nostra precarietà.
Meno banale è il disagio identitario derivante dal non sapere se e quando si potrà uscire dal limbo in cui si è confinati a causa del protrarsi dei tempi di passaggio. Innanzi allo squallore politico che si sta presentando nella nostra città e alla degradazione morale, in cui i giovani sono socialmente “invisibili” . A lungo andare, tale invisibilità, che mette in dubbio il riconoscimento, può tradursi in un senso di perdita angosciante. Stiamo perdendo un grande appuntamento, quello di potere cambiare. Invertire la rotta.
Siamo uomini e donne “flessibili” prigionieri di una sorta di paralisi temporale, appiattiti su un quotidiano e da un continuo senso di  provvisorietà che ci portano sempre a pensare a un sentimento di sradicamento, disagio identitario, frammentarietà nella narrazione di sé, fonte di potenziale neutralizzazione affettiva. Il vagabondaggio non ha alcun itinerario fissato la sua traiettoria è messa assieme pezzo per pezzo, un pezzo alla volta. Per il vagabondo, ogni posto è un luogo di sosta, ma egli non sa quanto a lungo rimarrà. Dovunque il vagabondo vada, egli è un estraneo. I lunghissimi anni di amministrazione disastrosa hanno spinto in tanti a vivere altrove e affrontare il progressivo sbriciolarsi della strutturazione sociale, l’assenza di luoghi organizzati in cui potersi stabilizzare. Si tratta di una condizione oggettiva di disancoraggio.
         Qualcuno in questi anni ha voluto trovare le risorse che consentano di “crescere” ed, eventualmente, imbattersi nel “posto giusto” dove potersi stanziare ?
         Ci si è continuamente trovati innanzi all’emergere di una strategia di governo dell’incertezza identitaria, che fa perno su un’immagine di costante costruzione/ricostruzione di sé, innescata e sostenuta dal farsi delle relazioni interpersonali, mafiose , immorali.
 
         Ormai la nostra società è definitivamente uscita dalla generazione del benessere diffuso. Ed il problema della precarietà nasce proprio da quel passato: abbiamo tutti, più o meno, vissuto abituati alla regola della possibilità, della fiducia, della sicurezza verso le cose future.
         Adesso quel senso di sicurezza si è tramutato in speranza, aspirazione. I sogni delle persone vanno tutti nella direzione del sogno della stabilità: si sogna di trovare un lavoro, anche precario, anche part-time, anche poco pagato; si sogna, da lì, che il lavoro diventi a tempo indeterminato, che diventi full-time, che diventi meglio remunerato; si sogna la possibilità di pagare l’affitto di pochi metri quadri e, da lì, si sogna l’affitto di una casa di quattro stanze fino al sogno incredibile di un mutuo per l’acquisto di un immobile, vero nido di pace sociale e sicurezza.
         In questo trapasso, i sentimenti sono diventati ancora più precari di quanto non siano l’economia e lo stato sociale. I sentimenti hanno, più di ogni altra cosa, subito la crisi.
         Il mistero del futuro, l’impossibilità di sapere cosa accadrà fra qualche anno, la sensazione che comunque qualcosa, nel quadro degli eventi della nostra vita, non dipenda dal nostro impegno o dal nostro ottimismo creano inquietudine, precarietà nel nostro modo di considerare la presenza anche di chi ci sta vicino. Viene meno la sensazione che chi abbiamo accanto possa restare per sempre, qualsiasi cosa accada, perché sembra che tutti, chi più o chi meno, siano trascinati dal vento della crisi, da una forza superiore che decide, al posto nostro, delle nostre vite.
         E, così, la sensazione che le cose potrebbero non essere per sempre, l’incertezza che quel rapporto già costruito possa davvero poggiare sulle basi solide di un lavoro, di un mutuo, di un futuro sicuro portano a ridimensionare il nostro sguardo verso gli altri, verso i sentimenti.
         I sentimenti, i rapporti, diventano precari, diventano incerti, legati alle contingenze, al momento, diventano rapporti part-time o in affitto. Si cerca di amare qualcuno ma sempre con la paura di non sapere cosa accadrà, dove finiremo, cosa faremo, dove andremo a finire tra un po’ di tempo. Si vive con la sensazione che tutto possa cambiare da un momento all’altro, troppo velocemente.
Non siamo pronti ed attrezzati a questa precarietà sociale, non ci hanno insegnato come si vive in un Paese in crisi, nessuno ci ha spiegato come si fa. Stiamo solo subendo tutto questo, ci stiamo lentamente adattando.
         Ci adeguiamo e viviamo anche i sentimenti ed i rapporti umani come prodotti del precariato: non si fanno progetti, si cerca di vivere l’amore alla giornata, di cerca di valorizzare gli attimi, le cose piccole, si cerca di essere fatalisti, di relativizzare le difficoltà.
         Nascono coppie, muoiono coppie, alcuni trovano lavoro e continuano a stare insieme a distanza, altri trovano lavoro e dopo tanti anni si lasciano, altri si lasciano perché non trovano lavoro, altri riescono a stare insieme proprio perché non hanno un lavoro e quindi hanno più tempo per vedersi. Tutto gira attorno alla parola lavoro che, una volta, era per gli italiani una parola normale; oggi è diventata una parola proibita, una specie di mistero.
         Nel frattempo i Paesi che economicamente ci stanno ancora dietro (Albania, Tunisia, Egitto) vedono le ribellioni delle piazze consumarsi proprio in questi giorni in cui ci interroghiamo sulla precarietà di vita e dei sentimenti.
         Ci chiediamo in quale periodo della loro vita quelle persone, che oggi lottano e manifestano con coraggio, o i loro genitori o persino i loro nonni abbiano chiesto a sé stesse come confrontarsi con questa forma di precarietà. Ci rispondiamo che forse noi, nonostante tutto, da italiani, siamo ancora dei privilegiati perché almeno possiamo stare a interrogarci su queste cose vedendo qualche possibilità futura e non ci troviamo ancora in un Paese a quello stadio di reale disperazione.
 
         Coltiviamo la fiducia, non costa nulla e non abbiamo alternative. Nel frattempo, consoliamoci pure con i nostri amori pagati a cottimo.
 
Gli innovatori in questa società sono considerati un pericolo, in tutti i campi, un pericolo per la stabilità del grande ma anche del piccolo potere che ogni italiano cerca di costruirsi. Per incazzarsi e non sprecare l'energia è necessario raccogliere consenso intorno all'innovazione, creare un ambiente favorevole. In questo momento, di fronte allo spettacolo indecoroso che ci viene offerto, la fuga dei cervelli non è solo fuga alla ricerca di opportunità, ma è anche una fuga dal degrado morale. Credo che ci voglia una grande spinta morale, anche per fare innovazione . 
 
Siamo nauseati da degrado della politica, sulla corruzione, sul malaffare, sulla produzione normativa. Siamo stanchi di assistere, ancora una volta, alla rincorsa del sogno ambizioso di potere dell’egoriferito di turno. Siamo stufi dei forzati aborti strumentali che i partiti vanno infliggendo ad ogni forma di partecipazione politica alle anime vive e libere della Città.
         Mai come nell’ora presente occorre esercitare l’impegno politico con “i fianchi cinti”, disponibili a partire, ad attraversare il deserto per non restare prigionieri del Faraone. Il tema di fondo è come non rassegnarsi all’insignificanza e alla debolezza. Non è solo una questione di numeri, di posti, di ruoli che pure in politica hanno un significato, ma di qualità della presenza che è fatta di competenze ma anche di una passione civile, alimentata da una ricerca di spiritualità e di pensiero. Alla politica del fare, al pragmatismo senz’anima, occorre presentare una dimensione della politica sorretta da un pensiero, da una chiara visione antropologica, perché oggi più di ieri siamo chiamati, pur con le nostre debolezze, a resistere alla potenza del denaro, dell’immagine e del potere per il potere.
Con la speranza che fra le forze di progresso che si oppongono all’attuale Amministrazione Comunale nasca un forte progetto di rinnovamento che porti a una nuova primavera nella nostra città, che elimini tutto il marcio lievito antico.
 
         Perché cambiare è possibile».
 
Federico Ancona (Musicista, compositore)
Giuseppe Boccassini (Film-maker)
Domi Bufi (Ingegnere)
Giulio Bufo (Teatrante)
Pasquale De Candia (Collaboratore a progetto)
Domenico de Ceglia (Regista e insegnante)
Gianluigi de Gennaro (Ricercatore, chimico)
Giovannangelo de Gennaro (Musicista)
Maria Pia Facchini (Educatrice, pedagogista)
Francesca la Forgia (Avvocata)
Marina Mastropierro (Ricercatrice precaria, sociologa)
Onofrio Pappagallo (Ricercatore precario, storia contemporanea)
Michele Salvemini Caparezza (Musicista)
Vanni Salvemini (Manager)
Isa Spadavecchia (Studente universitaria)
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Sono una dei firmatari del manifesto e sono stata coinvolta da un'amica a sottoscrivere questo documento. all'inizio ero scettica ma poi l'entusiasmo di alcuni di loro mi ha fatto pensare, perchè no! Non sono una figlia di papà, ho studiato davvero tanti anni e sono senza un lavoro fisso, guadagno meno ma molto meno di un operaio. Non mi considerò una borghese, nè un'intellettuale e mi piacerebbe che lavoratori e operai prendessero parte al dibattito. Questo è un gruppo che non ha ancora un'identità e non sappiamo cosa potrebbe diventare, lo scopriremo con il contributo di tutti. A me ad esempio piacerebbe mettere in comune la riflessione sul lavoro, sui mille lavori che caratterizzano la contemporaneità, competenze, meriti, produzione di ricchezza ed equità sociale. Questi i temi su cui mi piacerebbe riflettere. Ho parlato con un migrante molfettese qualche mese fa, per un lavoro che ho svolto presso l'auser di molfetta, e nelle sue parole era ancora tangibile il dolore della partenza, a distanza di quarant'anni. Le emozioni che mi ha trasmesso girolamo, ormai 73 in pensione, mi hanno fatto riflettere sull'ineluttabilità della partenza ad un certo punto della storia. Magari saremo anche noi costretti ad andarcene, ma perchè non possiamo avere e prenderci la possibilità di parlarne tutti insieme? dietro questo gruppo non c'è l'ombra di nessun politico, e se così fosse noi saremo in grado di decidere che strada scegliere, c'è solo tanta voglia di confrontarci, come un grande osservatorio in cui mettere in comune esperienze ed elaborare idee e perchè no, progetti. vi invito a partecipare, perchè essere diffidenti in principio può non essere sempre la cosa giusta da fare. Vi saluto. marina.


E' vero che il potere dell'èlite istruita, raffinata e sublimata di pronunciare un giudizio estetico vincolante, nel separare l'arte meritevole, o non arte, era sempre espresso in atti di militanza rivolti contro giudizi, o pratiche, la cui autorità era sempre messa in discussione. Non poteva essere altrimenti; l'autorità degli istruiti (e indirettamente, ma cosa estremamente importante, la capacità dell'istruzione di conferire autorità) non poteva essere affermata altrimenti che attraverso la costruzione del suo opposto: pretenziosità senza fondamenti, gusto senza legittimità, scelta senza diritto. L'èlite dominante nel regno dell'arte aveva sempre avuto un suo avversario – il volgo – contro il quale esercitare il proprio dominio e la cui presenza forniva la necessaria legittimazione del dominio. Secondo le parole di Gombrich, “nella società severamente gerarchica del Cinque e Seicento (noi diremmo piuttosto nelle condizioni di disintegrazione della vecchia gerarchia in quei secoli, Z.B.) il contrasto fra “volgare” e nobile” diventa una delle preoccupazioni maggiori dei critici (…..). Essi credono che certe forme o certi modi siano “veramente” volgari perché piacciono ai bassi ceti, mentre altre sarebbero intrinsecamente nobili perché chi ha un gusto evoluto è capace di apprezzarli.” Le ambizioni che fondavano la validità del modo di vita intellettuale sono fallite. CI SONO SOLO FILOSOFI CHE CERCANO DISPERATAMENTE DI CREARE COMUNITA', E DI SOSTENERLE CON IL SOLO POTERE DELLE ARGOMENTAZIONI. FINORA LE SOLE COMUNITA' CHE SONO STATE CREATE IN TAL MODO E REALMENTE MANTENUTE SONO STATE LE LORO. (Z.B.)






Molti anni fa partecipai ad un corso di informatica, di quelli a pagamento organizzati dalle scuole private che insegnano tutto lo scibile umano. In quell'occasione conobbi un ragazzo molto più grande di me che mi impressionò per le sue capacità, apprendeva molto più velocemente degli altri, era il più bravo di tutti. Dopo solo alcune settimane di corso mi passava dei giochi che aveva programmato lui. A me parve chiarissimo e indiscutibile che sarebbe diventato qualcuno. Qualche giorno fa ho avuto notizie di questo ragazzo, è diventato un professore universitario. Avevo visto giusto, è diventato qualcuno… solo che lo è diventato a Londra. Ora mi chiedo perché ai miei occhi di tredicenne era chiaro il suo merito, mentre qualche barone universitario se l'è “lasciato sfuggire”? Perché i cervelli fuggono senza che nessuno mai paghi per questa perdita continua di produttività nazionale. Sì perché di questo parliamo, di ricerca, brevetti, innovazione, produttività. Perché i colpevoli di questa selezione al ribasso nelle università italiane siedono comodamente nelle loro stanze circondati da giovani apprendisti servizievoli ed ubbidienti, senza che vengano mai chiamati a rispondere dei gravi danni che causano nel processo di selezione, quasi sempre basati su dinamiche di cooptazione/affiliazione? Perché molti di noi, colpevolmente, si trastullano nell'indignazione, mentre dovremmo pensare al modo di ripensare al modo di interrompere questo scempio come altre porcherie. Non è più sufficiente essere eredi di un glorioso passato e testimoni di una civiltà “meridiana”. È il tempo di riorganizzare la nostra vita collettiva, è il tempo di diventare produttivi, sì come vorrebbe Marchionne, con la piccola differenza che bisogna farlo nel nome del bene comune, ciascuno secondo le sue capacità.


Paghiamo e a caro prezzo, l'incompetenza e l'arroganza di politici votati solo all'acquisizione di privilegi personali, il potere nepotistico dei partiti politici e di tutti coloro definiti collaboratori ed esperti accompagnatori degli stesssi. -- Se dalla politica passiamo all'etica, constatiamo che la tecnica pone dei problemi che esigono delle decisioni “morali”. Ma con quale morale è possibile rapportarsi agli eventi tecnico-scientifici? In Occidente abbiamo conosciuto fondamentalmente tre tipi di morale: a) La morale cristiana, che ha una storia grandiosa, al punto che su di essa si è fondato l'intero ordine giuridico europeo. Si qualifica come morale dell”intenzione”, nel senso che per giudicare una persona occorre considerare l'intenzione che ha promosso la sua azione. Chi ha commesso un delitto, se aveva l'intenzione di uccidere è considerato colpevole, se ha ucciso per errore, senza appunto l'intenzione di farlo, il suo delitto è colposo, se invece il gesto era stato pianificato precedentemente è un delitto intenzionale, se era stato organizzato prima ma non in maniera propriamente scientifica, si tratta di un delitto preterintenzionale, e via di seguito. In ogni caso è sempre presente questa categoria dell'intenzione, questo riferimento all'indagine della coscienza, attraverso la quale giudicare la bontà o la moralità dei comportamenti. L'etica dell'intenzione nell'età della tecnica non è di grande utilità. Di fronte a un evento tecnologico, i cui effetti possono essere devastanti, poco importa conoscere le intenzioni di coloro che lo hanno prodotto. Nel caso della bomba atomica, siamo interessati al suo potenziale distruttivo, non alle ragioni che hanno mosso Fermi e i suoi compagni di ricerca allo sviluppo di quel progetto. – b) Abbiamo poi una morale laica, che per brevità potremmo riassumere nella bella proposizione di Kant: “L'uomo va trattato sempre come un fine, mai come un mezzo”. Anche questa, come la precedente, è una morale dell'intenzione, però Kant la costruisce prescindendo da qualsiasi riferimento teologico, con strumenti esclusivamente razionali. Per questo motivo può essere definita laica. E' una morale che non ha mai avuto modo di realizzarsi, in quanto l'uomo, nella nostra cultura soprattutto, è giustificato nella sua esistenza solo in quanto funzionario di un apparato o produttore di qualcosa. In questo senso Marx ha previsto con straordinaria lucidità la condizione dell'uomo nell'età della tecnica. E se ha commesso degli errori, ha sbagliato solo per difetto, perché è difficile confutare quella sua considerazione secondo la quale: “Il risultato di tutte le nostre scoperte e del nostro progresso sembra essere che le forze materiali vengano dotate di vita spirituale e l'esistenza umana avvilita a forza materiale……. L'umanità diventa signora della natura, mentre l'uomo diventa schiavo dell'uomo o schiavo della propria infamia.” Cosa vuol dire che l'uomo deve essere trattato come un fine? Che tutto il resto può essere trattato come un mezzo. Ma nell'età della tecnica, l'aria è un mezzo o un fine da salvaguardare? L'acqua è un mezzo o è a sua volta un fine da salvaguardare? Gli animali, le piante, sono dei mezzi o dei fini da tutelare? Nessuna di queste morali, né quella cristiana né quella laica, si sono mai fatte carico degli “enti di natura”, perché all'epoca in cui furono formulate non era necessario. Gli uomini erano pochi e, rispetto alla popolazione, la natura era sovrabbondante. Oggi la popolazione mondiale è cresciuta a dismisura al punto da mettere a rischio la natura. Di fronte alla necessità di difenderla e tutelarla siamo privi di strumenti etici. Anche se ci sono dei dispositivi giuridici, non si è ancora fatto strada nella coscienza collettiva il concetto che chi inquina commette un crimine dal punto di vista morale. E se lo stupro, giusto per fare un esempio, risulta immorale agli occhi di chiunque, non così l'inquinamento, per cui anche la morale laica non è all'altezza dell'accadere tecnico. – c) Agli inizi del secolo scorso Max Weber ha teorizzato una morale che è stata poi riproposta negli anni ottanta da un allievo di Heidegger, Hans Jonas. Si tratta della “morale della responsabilità che il sociologo tedesco contrappone alla moralità dell'intenzione perché, dice Weber, noi non dobbiamo guardare le intenzioni con cui gli uomini compiono le azioni, bensì gli “effetti” delle azioni stesse. Ma a questa posizioni aggiunge: “finchè questi effetti sono “prevedibilI”. Ebbene, è caratteristica propria della tecnica produrre effetti imprevedibili. E ciò perché la mentalità degli scienziati non è finalistica, ma procedurale, nelm senso che un biologo, per esempio, studia per dieci anni una determinata molecola, un altro, senza una ragione e senza uno scopo , studia per altri dieci anni un'altra molecola, perché l'etica della scienza impone di sapere tutto ciò che si può sapere. Se poi dalla combinazione di queste competenze accade che scaturisca qualcosa di antropologicamente vantaggioso, allora abbiamo una ricaduta di una qualche utilità. Per “antropologicamente vantaggioso2 dobbiamo naturalmente intendere anche e soprattutto “economicamente vantaggioso”……….. L'economia controlla i ancora la tecno-scienza, nel senso che promuove solo le ricerche con un'immediata ricaduta economica. Ma tra non molto le tecno-scienza si libererà anche di questo vincolo, perché è la forma più alta di razionalità raggiunta dall'uomo. L'economia, infatti, che in termini di razionalità era la forma più alta prima dell'avvento della tecnica, ha poi ceduto alla tecnica il primato, perché l'economia soffre ancora di una passione umana: la “PASSIONE PER IL DENARO”, che è un elemento irrazionale dal punto di vista della perfetta funzionalità e ottimizzazione del rapporto mezzo-fine. Possiamo allora dire che l'economia, proprio perché viziata da una passione umana, è ancora una scienza “UMANISTICA”, per quanto continui a condizionare quella competenza non umanistica che è la tecnica.- I miti del nostro tempo - Umberto Galimberti.





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