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Cgil Molfetta, a 55 anni dalla morte di Giuseppe di Vittorio: fermare l'epidemia del precariato
03 novembre 2012

MOLFETTA - In occasione dei 55 anni dalla morte di Giuseppe di Vittorio (foto), Giuseppe Filannino, Coordinatore della Camera del Lavoro CGIL Molfetta, commenta le sue ultime parole, pronunciate il 3 novembre 1957, confrontandole con la situazione attuale in Italia e nel Comune di Molfetta, in particolare a livello lavorativo-occupazionale e economico-finanziario
 
«“Invito a discutere su questo: è giusto che in Italia, mentre i grandi monopoli continuano a moltiplicare i loro profitti e le loro ricchezze, ai lavoratori non rimangano che le briciole? E’ giusto che il salario dei lavoratori sia al di sotto dei bisogni vitali dei lavoratori stessi e delle loro famiglie, delle loro creature? E’ giusto questo? Di questo dobbiamo parlare, perché questo è il compito del sindacato. [...] Avete visto che cosa è avvenuto: mano a mano che il capitalismo riusciva ad infliggere dei colpi al sindacato di classe e alla CGIL, e quindi a indebolire la classe operaia, non solo si è verificata una differenza di trattamento dei lavoratori, ma come conseguenza di questa differenza di trattamento, si è aperto un processo in Italia che tuttora continua. [...] Si sono aperte le forbici, si è prodotto uno squilibrio sociale profondo nella società italiana”.
Non sono mie parole e non sono parole di nessun sindacalista o politico di oggi, ma sono le ultime parole di Giuseppe Di Vittorio pronunciate la mattina del 3 novembre del 1957. A distanza di tanti anni sono parole di un’attualità desolante come non confrontarle con l’attuale situazione lavorativa e sociale dei nostri tempi e non aver la voglia di riprendersi il proprio presente ed il proprio futuro ?
La storia e l’esempio di Giuseppe Di Vittorio possono tornarci utili, 55 anni dopo la sua morte dobbiamo far in modo che in cima a tutti i discorsi ci sia il lavoro, si parli sicurezza sul lavoro e del lavoro, cancellazione del precariato ed aumento dei salari, si può fare. I soldi vanno cercati dove sono, colpendo i redditi più alti e la rendita e non tagliando sulla scuola, la cultura e la sanità
A livello nazionale si può fare firmando i referendum per il ripristino dell’art 18 dello statuto dei lavoratori smantellato dalla riforma Fornero e della cancellazione dell’art. 8 del decreto legge 138/2011 voluto dal governo Berlusconi.
A livello locale si può fare cominciando a domandarsi come mai vengano dati milioni di euro per finanziare a Molfetta industrie che non costruiscono beni, non fanno innovazione e non creano lavoro stabile, render a tutti visibile quello che si è riusciti a celare per troppo tempo, l’intreccio finanziario-politico che ha reso Molfetta una città non al passo con i tempi, una città svuotata che ha riempito di soldi e consenso elettorale alcuni personaggi che ancor oggi nessuno, “grillini” compresi, sembra aver voglia di render visibile.
Come CGIL siamo riusciti pochi giorni fa ad evitare che i gli addetti alle pulizie del Faschion District perdessero il posto di lavoro ammettendo che il risultato è dipeso notevolmente dal coraggio di questi lavoratori di far ciò che per tanti altri è inconcepibile: protestare rimaner senza stipendio per 16 giorni e rifiutar qualsiasi ipotesi che prevedesse la non riassunzione di anche un solo compagno di lavoro.
Il sindacato, però, si ferma a far da infermiere e da pronto soccorso a queste emergenze: l’epidemia del precariato la fermano i “dottori” che in questo caso sono la politica e le sue leggi.
A Molfetta “infermieri” e “dottori” devono lavorare perché il “triangolo della Felicità” (Faschion District, Miragica, Ipermercato) non rappresenti un facile guadagno per alcuni e l’impoverimento (economico, sociale e morale ) per tutta la città.
Di Vittorio in un passato ancora attuale è riuscito a trasformar dei semplici braccianti in protagonisti di una rivoluzione che ha portato diritti e prosperità per tutti i lavoratori: ora tocca a tutti noi non distruggere il nostro presente e il nostro futuro».
 
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Caro Carlo, voglio essere più preciso. La prima pronuncia per il nuovo articolo 18 riporta la reintegrazione al centro della disciplina dei licenziamenti, sbarra la strada alla liquidazione soltanto economica del licenziamento e, di fatto, pone un serio interrogativo sulla stessa tenuta del sistema uscito dalla riforma del mercato del lavoro. Il caso di Bologna riguardava un lavoratore che, a una mail del proprio superiore gerarchico che gli chiedeva una più precisa pianificazione delle sue attività, aveva risposto: “parlare di pianificazione (in azienda, n.d.r.) è come parlare di psicologia ad un maiale, nessuno ha il minimo sentore di cosa voglia dire”. La replica dell'azienda non si è fatta attendere: licenziato per giusta causa. Ma il lavoratore non ci sta, impugna il licenziamento e chiede la reintegrazione nel posto di lavoro. Ma per applicare la sanzione prevista dall'articolo 18 bisogna prima qualificare come illegittimo il licenziamento. Alla prova del giudizio, la realtà si rivela ben più complessa: secondo il tribunale di Bologna, l'insussistenza del fatto non si riferisce alla condotta materiale, bensì al “fatto giuridico”. È il giudice che deve valutare se un determinato comportamento del lavoratore, che pur lo abbia materialmente tenuto, sia giuridicamente rilevante per le conseguenze che la legge a esso riconduce. Il tribunale ha osservato che “emerge con evidenza la modestia dell'episodio in questione, la sua scarsa rilevanza offensiva e il suo modestissimo rilievo disciplinare”. Per il giudice bolognese l'insussistenza del fatto come condizione necessaria per l'ordine di reintegrazione si può configurare anche se il fatto c'è effettivamente stato, ma giuridicamente non è tale da giustificare il licenziamento. Il tribunale, nell'esercizio del suo potere qualificatorio, ha ritenuto che la mail spedita dal lavoratore licenziato rientrasse “palesemente” nella fattispecie di lieve insubordinazione e pertanto, anche sotto questo profilo, il licenziamento meritasse la sanzione reintegratoria.



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