Centri per l’impiego: inutili e costosi. Un fallimento annunciato
Inutili e costosi in due aggettivi si può riassumere il fallimento (annunciato) dei Centri per l’impiego (Cpi), dove solo il 3% di chi si rivolge a loro, trova un lavoro. Più di due milioni e mezzo di persone si rivolgono agli uffici sparsi in tutta Italia, ma gli 8mila operatori in media collocano circa 4 occupati in un anno. Una seria riforma del lavoro, dovrebbe cominciare proprio da queste strutture dove tra l’altro opera personale non adeguatamente preparato alle nuove necessità del mercato. Sono rimasti carrozzoni che non si possono smantellare per non mettere in mezzo a una strada nuova gente, col paradosso che, invece, di far trovare lavoro i centri farebbero perdere lavoro ai… propri dipendenti. E’ una delle contraddizioni di questo Paese dove le riforme non si fanno o si fermano a metà. Né le prospettive future col governo gialloverde sembrano migliori. Il governo del cambiamento finora non ha fatto nulla e, per non far emergere la propria incapacità a rivolvere il più grosso problema italiano, quello della disoccupazione, si è tuffato nella lotta ai migranti per distrarre l’attenzione. E gli italiani hanno abboccato alle furbate di Salvini. La soluzione? Si sono inventati il reddito di dignità per dare un po’ di assistenza, ma non per creare nuovi posti di lavoro. Un errore strategico. E il problema del lavoro al Sud resta drammatico, mentre si spendono 600 milioni l’anno per i 556 Cpi sparsi sul territorio. Insomma, il rapporto fra risorse e risultati è assolutamente negativo. Meglio chiuderli, recuperando in altro modo il personale e soprattutto riqualificandolo. Secondo i sindacati manca “una gestione integrata dei Centri per l’impiego, con l’adozione di modelli standard che offrano sul territorio servizi uguali per tutti”. In alcune regioni i Centri funzionano, in altre no. Servirebbe poi un impegno “provincia per provincia”, spiegano, per “numerare i disoccupati, catalogarli per qualifica, dare formazione a chi non ha titoli, mantenere viva una rete di comunicazione con le aziende”. Le aziende che si rivolgono ai Centri per l’Impiego per trovare profili di lavoratori da assumere si imbattono in uffici privi anche solo di banche dati da cui pescare disoccupati da proporre alle aziende. In questi anni abbiamo speso, come Paese, miliardi di euro in incentivi dopando il mercato del lavoro e non si è stati in grado neanche di dotare i Centri per l’Impiego di software gestionali per agevolare l’incontro tra la domanda di lavoratori da parte delle aziende e l’organizzazione dei curriculum dei disoccupati che vi si andavano ad iscrivere. In pratica, abbiamo creato posti dove si producono certificati e burocrazia. Alla loro funzione non crede più nessuno. I giovani e i disoccupati si iscrivono più che altro per non avere rimorsi per non averle tentate tutte. Interessante quello che scrive Alessandro Rosina, nel libro “L’Italia che non cresce. Gli alibi di un Paese immobile”: «In Italia i centri per l’impiego sono come le sale d’attesa delle stazioni ferroviarie: se perdi il treno, aspetti in sala d’attesa, leggi il giornale e poi sali sul treno successivo. I centri per l’impiego invece dovrebbero essere come i pit stop della Formula 1: ti fermi per cambiare le gomme, per fare benzina, e quando rientri in circuito sei più forte di prima». Il problema è che spesso sono invece solo uno degli ingranaggi dell’enorme macchina della burocrazia italiana. Gran parte dei 10mila impiegati dei centri italiani sono assorbiti dall’attività amministrativa di sportello. E a curare le politiche attive, come accade a Milano, restano in pochi. «Ma spesso gli stessi addetti di questi centri non hanno la formazione giusta per dare un aiuto effettivo», commenta Rosina. La Francia ha un esperto per l’orientamento lavorativo ogni 200 abitanti, l’Italia uno ogni mille. Senza contare che sia in Svezia sia in Germania esiste addirittura un tutor personale per concordare un piano d’azione individuale da attivare entro pochi mesi. Allora, visto che la creatività italiana è in declino, invece di inventarci soluzioni non adeguate, potremmo imparare a fare come i giapponesi: andare a copiare dai Paesi che questa organizzazione già ce l’hanno. Più semplice di così. Ma in Italia se le cose non sono complicate, non si possono fare. E la disoccupazione aumenta e il futuro appare sempre più nero per i giovani, che nel frattempo invecchiano, ma anche per l’Italia che resta senza crescita e ai margini dell’Europa. Il problema della disoccupazione giovanile prima o poi esploderà in protesta e non basterà che Salvini mandi la polizia per risolverlo. E poi, caro Salvini, non scarichiamo sulla Ue colpe che sono nostre. Il gioco della caccia al migrante non può durare anni, poi occorre governare o andarsene a casa, liberando l’Italia da dilettanti gialloverdi allo sbaraglio. © Riproduzione riservata