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Carceri, bombe e burrasche La vita avventurosa di Carmine Gallo
15 luglio 2003

di Ignazio Pansini Carmine Gallo nacque a Molfetta il 1834 da una famiglia di artigiani del legno e di marinai distintasi nella cospirazione patriottica antiborbonica. Suo nonno, Carmine, era stato carbonaro; suo padre, Zaccaria, fu condannato a 28 anni di galera per i moti molfettesi del 1848; un suo zio, Guglielmo, anch'egli compromesso per gli stessi fatti, andò in esilio per diversi anni, e militò poi nell'esercito garibaldino. Arruolato nel 1854 nella fanteria di marina, Carmine fu assegnato al corpo di guardia carceraria dell'isola d'Ischia, dove riceveva e consegnava furtivamente ai detenuti politici la corrispondenza segreta. Successivamente fu imbarcato sulla fregata “Tancredi”, destinata al servizio della famiglia reale. Intanto si era affiliato alla “Giovine Italia”. Negli ultimi mesi del 1856, durante un visita a bordo di Ferdinando II, il giovane presentò al re una supplica, nella quale chiedeva la grazia per il padre Zaccaria, ancora imprigionato. Il re rispose seccamente che non poteva concederla, perché erano gli stessi patrioti che la rifiutavano. In quell'occasione, il capitano Amilcare Anguissola, con il quale il molfettese aveva dei contatti cospirativi, gli rimproverò quel gesto, giudicandolo inutile ed intempestivo. L'Anguissola quattro anni dopo, il 10 luglio 1860, sarebbe entrato nel porto di Palermo, consegnando la pirocorvetta “Veloce”, da lui comandata, alla flotta piemontese dell'ammiraglio Persano. Questi rifiutò, per opportunità politica, di accogliere la nave, che fu allora offerta alla piccola flottiglia garibaldina. Molti accusarono l'ufficiale napoletano di tradimento, e di aver rinnegato al suo giuramento di fedeltà al re di Napoli. Costoro ignorano la storia del nostro Risorgimento, ignorano che la maggior parte degli ufficiali garibaldini avevano coattivamente giurato fedeltà ai monarchi fantoccio dei vari stati della penisola, prima di giurare liberamente all'Italia, ignorano che l'Anguissola rischiava la forca in piazza del Mercato, e non la promozione nella marina sarda. Dopo l'episodio sulla “Tancredi”, Carmine fu immediatamente sbarcato d'ufficio, ed assegnato ad incarichi a terra. In un'osteria della zona portuale, conobbe Agesilao Milano, il quale gli confidò che stava per verificarsi un avvenimento molto importante, che avrebbe cambiato le sorti del regno. L'otto dicembre del '56, il molfettese è schierato col suo reggimento di marina alla rassegna reale, e vede il tentato regicidio di Agesilao, che verrà impiccato dopo quattro giorni. Il 17 dicembre, mentre assiste alla messa nella cappella di S. Lucia, scoppia la polveriera del molo militare. Attentati e disastri si alternano nel giro di pochi mesi. Ma veniamo a quello sul quale la testimonianza del Nostro, unica e controversa, è di capitale importanza. Nella tarda sera del 4 gennaio 1857, la pirofregata “Carlo III”, di 1300 tonnellate, al comando del capitano di fregata Leopoldo Fowls, saltava in aria nella rada di Napoli. La nave, carica di materiale esplosivo, si apprestava a salpare per Palermo; morirono 38 uomini, mentre i naufraghi furono raccolti dalle lance della pirocorvetta inglese “Malacca”, ancorata nelle vicinanze. L'inchiesta della procura militare non accertò responsabilità dolose, ed il disastro fu attribuito ad un banale incidente. Diversa la versione di Carmine Gallo,caporale di marina imbarcato da poche settimane su quella stessa nave. La riassumiamo per motivi di spazio. Sulla “Carlo III” è in servizio come secondo il tenente di vascello Antonio Masseo, con il quale il molfettese ha avuto modo di manifestare la propria fede politica, ricambiata; il primo pomeriggio del giorno 4, il tenente, assente il capitano Fowls, ordina a Carmine di comandare alla guardia della Santa Barbara due marinai poco esperti, e poi va a terra; il caporale obbedisce, e pone a custodia delle polveri i molfettesi Biagio Altomare e Pietro Antico; alle ventitré Masseo ritorna con una lancia, sale a bordo, ordina a Carmine di licenziare la guardia, di andare a prua, e di non muoversi; dopo pochi minuti, la “Carlo III” salta in aria. Carmine si salva perché ha la prontezza di ripararsi sotto il bompresso, prima di cadere in acqua, e di essere raccolto dalla lancia del principe Luigi di Borbone, accorsa dalla darsena. Sottoposto ad inchiesta, e assistito tacitamente dall'Anguissola, il Nostro riesce a cavarsela, e viene poi congedato e rispedito a Molfetta, dove è sottoposto comunque a vigilanza poliziesca. Riparleremo più avanti di questo episodio. Nel 1860 Carmine si arruola nell'esercito garibaldino, e partecipa ad alcune azioni antiborboniche disposte dal Governo Provvisorio di Bari e Altamura. L'anno dopo riprende la via del mare, navigando per tutto il Mediterraneo: per sei anni comanda diversi trabaccoli da carico, per altri quattro la goletta barese “Madonna degli Angeli”. Ma la nuova attività non gli fa dimenticare il suo passato. Nel 1869, approdato con la sua nave a Civitavecchia, nello stato pontificio, fonda una loggia massonica insieme ad un ufficiale del presidio francese, suo amico: la chiama “Felice Orsini”, riesce a raccogliere un ventina di adepti, e a imbarcarsi prima di essere arrestato. Il 30 novembre 1870, nel corso di una tempesta al largo di Porto S. Giorgio, perde tutte le sue carte, comprese diverse lettere di Mazzini e Campanella a lui dirette. Un mese dopo, a Patrasso, incontra il noto blanquista francese Gustave Flourens, fuggiasco in Grecia per un ennesimo fallito attentato a Napoleone III, e diventa suo amico. Poiché l'esule soffre dei postumi di alcune ferite subite durante la sparatoria con la gendarmeria, Carmine gli offre del denaro per raggiungere Bari ed essere curato dal medico Giuseppe Sgobba. Flourens torna in Francia, diventa uno dei componenti di spicco dell'insurrezione comunarda del 30 ottobre 1870, e della successiva resistenza alla repressione dei versagliesi. Cade il 3 aprile 1871. La sua morte fu celebrata da uno storico d'eccezione. Carlo Marx, nella sua “Guerra civile in Francia”, parlando dell'orrenda reazione seguita alla sconfitta dei rivoluzionari, scrive: “I soldati di fanteria fatti prigionieri vennero massacrati a sangue freddo…Desmaret, il gendarme, fu decorato per aver fatto a pezzi, a tradimento, come un beccaio, il generoso e cavalleresco Flourens, che il 31 ottobre 1870 aveva salvato le teste dei membri del governo della difesa. I “particolari incoraggianti” del suo assassinio furono comunicati per lungo e per largo con aria di trionfo da Thiers all'Assemblea Nazionale”. Accanto a Gustave, è gravemente ferito l'anarchico italiano Amilcare Cipriani, che riesce a sopravvivere,quantunque colpito da tre colpi di baionetta. Qualche anno dopo,Carmine lascia il mare, si stabilisce a Bari ed investe i suoi risparmi in alcune attività commerciali che non gli vanno sempre bene. Approfittando di una congiuntura favorevole, che per un ventennio assicurò nella regione un discreto sviluppo industriale, diversi membri della famiglia Gallo intrapresero dopo l'Unità la via del commercio e dell'industria, con alterni risultati. Lo zio Guglielmo mise su un laboratorio di cremon tartaro, ma l'impresa non ebbe buon esito; un altro suo zio, Vincenzo, impiantò a Molfetta una fabbrica di spirito anidro ed un molino. Un figlio di Vincenzo, Zaccaria, ed il nipote, ingrandirono e diversificarono con successo le attività industriali. Un altro figlio di Vincenzo, Carmine, esperto capitano di naviglio mercantile, fu tra i fondatori, e poi Direttore, della Società di Navigazione “Puglia” di Bari. Ma torniamo a Carmine di Zaccaria. Egli era ben conosciuto e stimato nell'ambiente marittimo e commerciale barese di fine Ottocento: aveva un carattere aperto e gioviale, e spesso raccontava ai suoi amici episodi ed aneddoti della sua vita burrascosa. Naturalmente parlava anche della “Carlo III”, delle circostanze dello scoppio e del ruolo da lui svolto in quell'evento. Tuttavia, le testimonianze dei contemporanei, i risultati dell'inchiesta ufficiale, la memorialistica e la storiografia relative agli ultimi anni della monarchia borbonica, escludevano l'ipotesi dell'attentato mazziniano e propendevano per la tesi dell'incidente, anche perché a carico del tenente Masseo non erano emersi elementi tali da ritenerlo affiliato alla cospirazione. Carmine vide posta in dubbio la propria parola e quindi la sua onorabilità, ma non vi era niente e nessuno che potesse confermare la sua versione. L'ufficiale era morto nello scoppio ed i suoi parenti, contattati in merito, si limitarono a dire che quella sera era “tristissimo”, come se avesse il presentimento di non tornare più. Comunque, il 14 ottobre 1907, alla presenza del notaio Carlo Carlone di Bari, il Nostro rese su quel fatto una dichiarazione, autenticata con rogito n. 1274 registrato due giorni dopo. Se questo non serviva ovviamente a provare la sua versione, quantomeno si assumeva la responsabilità legale delle sue affermazioni. Ma i dubbi restarono e li conferma, e pesantemente, Raffaele de Cesare nella sua “Fine di un Regno”. Noi sospendiamo il giudizio, anche se ci sembra improbabile che un vecchio marinaio che ha navigato il Mediterraneo conoscendo ed aiutando fuggiaschi ed esiliati, che ha visto a 14 anni il padre in catene, che ha rischiato la vita per le proprie idee, possa macchiare l'onore di un'intera esistenza raccontando il falso per vanità o per interesse. Purtroppo non abbiamo di lui, nessuna carta, nessun documento, che possa fare più luce sulla sua personalità e sugli eventi cui partecipò. Certamente la ricerca storica, anche a livello locale, deve fondarsi su quanto ci dicono le vecchie carte superstiti. Eppure io credo che non sia tanto importante la “quantità” del materiale, quanto lo spirito che anima il ricercatore. Quest'approccio non si improvvisa, costa cultura, tempo e fatica, non si allinea allo squallore dei tempi, e soprattutto, non può prescindere da ben determinate coordinate etico-politiche, in mancanza delle quali, si finisce tristemente, e tristamente, con l'imbiancare con ambigue vernici sepolcri che meritano solo l'oblio.
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