Nella notte del 22 gennaio 1944, con l’operazione Shingle (Ciottoli), truppe americane e inglesi sbarcarono ad Anzio e a Nettuno alle spalle del fronte meridionale tedesco attestato a Cassino lungo la linea Gustav. Avrebbero dovuto aprirsi la strada verso Roma, tuttavia riuscirono solo a creare una testa di ponte, che resistette quattro mesi agli attacchi tedeschi. L’Italia era allora spaccata in due. Nel Mezzogiorno c’era il “Regno del Sud” di Vittorio Emanuele III, accettato come cobelligerante dagli anglo-americani dell’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territories), e nel Centro-Nord vi erano i tedeschi sostenuti dai vassalli della Repubblica Sociale Italiana (RSI) di Mussolini. Fra il 13 e il 17 marzo i tedeschi effettuarono nel Cuneese un grande rastrellamento sulle montagne monregalesi e in Val Casotto, uccidendo 118 partigiani e una trentina di civili. Durante il ripiegamento dei partigiani furono passati per le armi alcuni repubblichini. Tra questi vi fu il maresciallo della RSI Silvestro Giampaolo, già maresciallo della Guardia alla Frontiera del Regio Esercito, prima della guerra domiciliato a Molfetta, ma nato a Trani 6 aprile 1907 da Francesco e Matilde Crudo. Venne fucilato il 15 marzo 1944 a Roccaforte Mondovì, in provincia di Cuneo. Fu invece vittima dei nazisti il capitano di cavalleria Manfredi Azzarita, nato a Venezia il 19 luglio 1912 dal giornalista molfettese Leonardo e da Luigia De Prà. Era stato ufficiale addetto alla persona del tenente generale Adrian Carton de Wiart, belga naturalizzato inglese, fatto prigioniero dagli italiani in Libia nel 1941 e nell’agosto del 1943 inviato da Badoglio da Roma a Lisbona, in vista dell’armistizio, per favorire la conclusione degli accordi con gli alleati. Manfredi Azzarita, tornato occultamente a Roma dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 per stabilire contatti fra i capi di gruppi militari e politici della Resistenza e il governo del “Regno del Sud”, collaborò con il Fronte Militare Clandestino e si rapportò al comando della Fifth Army americana del generale Mark Wayne Clark. Per un’informazione carpita con la tortura a un prigioniero, fu scoperto dalla Gestapo. Nella mattina del 18 marzo 1944 fu arrestato dalle SS e rinchiuso nelle carceri di Via Tasso. Barbaramente torturato, mantenne coraggiosamente ogni segreto e fu trucidato con altre 334 vittime alle Fosse Ardeatine il 24 marzo, non ancora trentaduenne. Lasciava la moglie e una bambina. Insignito della medaglia d’oro alla memoria, a Roma gli saranno dedicati un liceo scientifico, una piazza e una via, a Bologna e Riccione una piazza, a Bari una scuola media e a Molfetta una strada. Alla cacciata dei nazifascisti dall’Italia diede un piccolo ma significativo contributo il Corpo Italiano di Liberazione (CIL), nato il 22 marzo 1944 nel “Regno del Sud”. Era un corpo d’armata costituito da due divisioni. La prima venne formata ex novo fondendo due brigate di fanteria, tra cui il 1° Raggrupp a m e n t o Motorizzato, che si era battuto eroicamente accanto agli americani il 17 dicembre 1943 nella battaglia di Monte Lungo. L’altra era la 184a divisione paracadutisti “Nembo”, trasferita dalla Sardegna nella Penisola in maggio. La 1a brigata era formata dal 4° reggimento bersaglieri e 3° reggimento alpini. La 2a brigata era costituita dal 68° reggimento di fanteria “Legnano” e dal reggimento di Marina “San Marco”. I supporti erano rappresentati dall’11° reggimento di artiglieria motorizzato, dal 51° battaglione misto del Genio, dal 185° reparto autonomo paracadutisti “Nembo” e dal 9° reparto d’assalto. Male equipaggiato, il CIL si batté con valore a fianco dei francesi, degli inglesi e dei polacchi. Durante la grande battaglia di Cassino (24 gennaio – 17 maggio 1944), presso Colli al Volturno il 23 aprile morì in combattimento il bersagliere diciannovenne molfettese Vincenzo De Pinto di Domenico e Olimpia De Pinto, poi sepolto nel Sacrario militare di Mignano Monte Lungo. Intanto nella notte del 9 aprile, giorno di Pasqua, il battaglione “Bafile” del reggimento “San Marco” aveva rimpiazzato i reparti neozelandesi a Vallerotonda nel Frusinate, schierandosi a cavallo della gola dell’alto corso del fiume Ràpido. Nella notte fra il 17 e il 18 maggio l’accampamento della 3a compagnia di rincalzo del “Bafile” fu sottoposto a un intenso cannoneggiamento tedesco, che fece 21 morti, 38 feriti e 8 dispersi. Tra i caduti del 18 maggio vi fu il 2° capo cannoniere molfettese Vito Mezzina di Sergio e fu Carmela Abbattista, il quale agli inizi del 1942 aveva meritato la croce di guerra al valore militare. Stava per compiere 32 anni. In séguito sarà sepolto a Molfetta. Pochi giorni dopo, il 22 maggio, spirò anche il marò ventitreenne Salvatore Camporeale, il cui corpo sarà poi inumato nel cimitero di Molfetta. Di Giuseppe Petruzzella, nato a Molfetta il 10 gennaio 1918 e morto durante la guerra il 6 giugno 1944, non si conosce il preciso luogo di sepoltura italiano. Similmente è ignoto il luogo d’inumazione dell’appuntato dei carabinieri molfettese Zaccaria Binetti, figlio trentottenne di Leonardo e Marianna Altamura e marito di Maria Nappi. Effettivo presso la stazione dei carabinieri di Pedena dipendente dalla compagnia di Pisino, in provincia di Pola, venne fucilato con altri 11 commilitoni l’11 giugno da un gruppo di partigiani titini. Morì invece nell’alto Adriatico, il 15 giugno 1944, il marittimo Cosimo Annese di Damiano sul piroscafo da carico Rapido di 5363 t, nel 1940 adibito al trasporto di carbone tra basi navali e appartenente all’armatore Achille Lauro di Napoli. Obbligato al servizio dei tedeschi, il piroscafo fu silurato dagli alleati a circa 3 miglia a sud di Grado. Secondo altre fonti il cargo sarebbe affondato per aver urtato una mina. Una sorte analoga ebbe anche il marinaio ventottenne molfettese Onofrio Mezzina di Vincenzo e fu Carmela Cappelluti, deceduto il 29 agosto 1944 sul piroscafo da carico Lucrino di 5536 t, requisito dall’8 settembre 1943 a Bari dalla Regia Marina all’armatore Achille Lauro. La nave urtò contro una mina mentre era in navigazione da Cagliari a Sant’Antioco. Per le avarie, il piroscafo fu portato ad incagliare nell’avamporto cagliaritano. A questi frammenti esistenziali va aggiunta la breve storia di Cosimo Mongelli di Lorenzo e di Elisabetta Cantatore, detto Mino in una famiglia numerosa, di cui era il dodicesimo figlio. Nato l’8 febbraio 1922, era stato adottato e allevato dal fratello maggiore Saverio e da sua moglie Rita, che erano senza figli. Saverio Mongelli, capitano del genio navale a Genova durante la 2a guerra mondiale, lo aveva educato «alla scuola del dovere ed all’amore verso la Patria», come si legge nel necrologio del giovane apparso intorno agli inizi del ’45 nel “Secolo XIX” di Genova. Mino aveva un animo sensibile e condivideva il culto della poesia con Beniamino Finocchiaro, amico intimo di un anno più piccolo di lui. Aveva una fidanzata di nome Angela. Mentre era studente universitario, deluso dall’armistizio accettato dal re e mal sopportando il comportamento dei soldati di occupazione inglesi e alleati a Molfetta, superò la linea Gustav e si trasferì nella Repubblica di Salò. Nel maggio del 1944 frequentava ancora il corso per allievi ufficiali a Rivoli (Torino) nella 3a compagnia della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), la polizia militare della RSI relegata dai tedeschi soprattutto a compiti di repressione. Finito il corso, venne nominato sottotenente della GNR nella 601a compagnia Torino e, agli inizi di settembre, fu avviato a visita medica superiore per un lieve difetto alla mano destra. Al ritorno, il 6 settembre 1944, mentre viaggiava su un autocarro con un milite della polizia ausiliaria e due soldati tedeschi, nei pressi di Villareggia (all’epoca in provincia di Vercelli), il camion fu attaccato da una formazione partigiana con lanci di bombe a mano e raffiche di mitra. Il sottotenente Mongelli e l’agente ausiliario risposero al fuoco con le armi in loro possesso, ma dopo circa dieci minuti, finite le munizioni, vennero catturati. I prigionieri furono portati nelle scuole di Maglione, allora frazione di Borgomasino nel Torinese, processati sommariamente e condannati a morte. Verso l’imbrunire il sottotenente venne condotto in un bosco di castagni a circa 500 metri dal paese e ucciso con un colpo alla nuca. L’agente ausiliario subì la stessa sorte nel medesimo luogo all’alba del giorno seguente. I cadaveri vennero seppelliti nella stessa fossa, ma mentre la salma del poliziotto fu poi inumata senza identificazione nel cimitero di Maglione, il corpo del sottotenente fu in séguito riconosciuto dal cap. Saverio Mongelli e trasportato a Genova, dove verso gli inizi del ‘45 «con austera solennità militare» si svolse la cerimonia funebre. Da Carla Giacomozzi (Un eccidio a Bolzano, 2011) apprendiamo la vicenda di Antonio Pappagallo, nato a Molfetta da Domenico e Rosa Del Vescovo il 2 gennaio 1898. Maresciallo della Regia Marina, nel 1943 dirigeva la Stazione Radio di Capo Miseno, nel golfo di Napoli. Era sposato e padre di due figlie, con domicilio a Roma in Via della Giuliana, n. 70. Dopo l’8 settembre la Stazione fu occupata dai tedeschi. Il maresciallo Pappagallo allora, in mancanza di direttive, entrò nella lotta partigiana. Passato clandestinamente il fronte di Cassino, si aggregò alla Legione Garibaldi comandata dal generale Peppino Garibaldi e dal fratello Ricciotti, nipoti dell’eroe dei due mondi, ed ebbe in consegna una radio. Nei primi di aprile del ’44 il maggiore francese André L. Pacatte, agente dell’Office of Strategic Services, fece passare attraverso le linee da Anzio a Roma il tenente Eugenio Arrighi alias Nino e Antonio Pappagallo alias Toni per una missione denominata “Nino – La Fonte Chain”. Nino era il comandante e Toni il suo marconista. Il loro compito era stabilire e mantenere il contatto radio con la Fifth Army statunitense del gen. Clark in vista della liberazione di Roma. Per un mese, dal 3 aprile al 4 maggio, la radio trasmise con successo informazioni che risultarono utili per gli apprestamenti difensivi di Roma, finché non fu intercettata dal Sicherheitsdienst, il Servizio di Sicurezza delle SS. Il 4 maggio il comandante Arrighi fu arrestato e condotto nelle carceri di Via Tasso. Sarà ucciso con altri dodici prigionieri in contrada La Storta a nord di Roma il 4 giugno, a poche ore dalla liberazione della capitale. Antonio Pappagallo fu cercato da tedeschi e fascisti. Questi, non trovandolo in casa, arrestarono la moglie Emma e la portarono nelle prigioni di Via Tasso, da cui sarà scarcerata solo dopo la liberazione di Roma. Pappagallo forse si fece arrestare per salvare la moglie. Anche lui fu rinchiuso nelle carceri di Via Tasso, dove subì ben cinque duri interrogatori a partire dal 5 maggio. Portato via in giugno dalle SS in fuga verso nord, Antonio Pappagallo fu imprigionato nei forti di Verona e poi internato con altri 22 italiani nel blocco E del lager di Bolzano in Via Resia. All’alba del 12 settembre 1944, trasportati in camion nei pressi delle scuderie della caserma “Mignone”, i 23 prigionieri furono uccisi uno alla volta con un colpo alla nuca dai nazisti del tenente delle SS Karl Titho, dietro le direttive del generale delle SS Wilhelm Harster. I loro corpi furono seppelliti in una fossa comune del camposanto di Oltrisarco-Aslago. Riesumati alla fine di giugno del ’45, ma ormai irriconoscibili, i 23 martiri vennero inumati presso il cimitero militare di San Giacomo con i loro nomi scolpiti sulle lapidi. Mentre a 8 di loro è stata attribuita una decorazione, ad Antonio Pappagallo e ad altri 14 non è stata conferita nessuna onorificenza alla memoria. Lo Stato e le rispettive città di nascita dovrebbero rimediare alla grave dimenticanza. Cadde invece sotto il piombo americano Carlo Colucci di Luigi, nato a Molfetta il 1° marzo 1914, ma residente a Venezia, tenente della GNR del battaglione M “Venezia Giulia”. Morì il 26 settembre 1944 insieme ad altre 25 persone, mentre si trovava con altri due ufficiali, 42 legionari dello stesso battaglione e diversi passeggeri sul piroscafo a eliche Milano della Società Subalpina di Imprese Ferroviarie, che fu spezzonato a più riprese nelle vicinanze di Intra sul Lago Maggiore da tre cacciabombardieri statunitensi di stanza a Siena e appoggiati alla base di Ascona-Locarno nel Canton Ticino. Il ten. Colucci sarà sepolto nel Sacrario di Belforte a Varese. Trovò poi la morte in Adriatico il trentunenne molfettese Raffaele De Candia di Domenico e Maria Teresa Pignatelli, padrone marittimo sul Nettuno III, un motoveliero da carico di 343 t, costruito nel 1942 per la Società Anonima Trasporti Marittimi Nettuno di Genova. La motogoletta era stata requisita dalla Regia Marina a Lampedusa il 17 ottobre 1942 e utilizzata con la sigla V 328 come nave ausiliaria nel servizio di vigilanza foranea fino all’8 settembre 1943, quando si trovava in lavori a Venezia. Il 13 ottobre 1944 il motoveliero, mentre navigava presso il delta del Po, urtò contro una mina e affondò. Il 12 novembre 1944 morì a Caselle Torinese Vincenzo Minervini di Corrado, nato a Molfetta il 1° dicembre 1900, ma residente a Torino, milite della GNR nella 601a compagnia Torino. Un altro caduto della RSI è il ventiduenne molfettese Salvatore Palmiro De Bari di Francesco e Serafina Minervini, marò fuochista, inquadrato nel battaglione “Scirè” della Xa MAS, una formazione autonoma della Marina repubblichina al comando del principe Junio Valerio Borghese. Il marò risulta disperso il 1° dicembre 1944 presso la Cascina Bergamina di Sizzano nel Novarese, in una zona collinare dove i partigiani avevano basi e nascondigli. Reparti del battaglione “Scirè” vennero coinvolti in combattimenti con i resistenti. Quanti si arresero con la promessa di aver salva la vita spesso furono passati per le armi. Vittima dei partigiani fu anche Ignazio Pappalepore di Gaspare. Ufficiale di carriera nato a Molfetta il 20 gennaio 1897, dopo l’8 settembre 1943 aderì alla Repubblica di Salò. Era maggiore dell’Esercito Nazionale Repubblicano nel 12° Comando Militare Provinciale di Imperia, quando venne fucilato o diversamente soppresso il 10 dicembre 1944 a Verezzo di Sanremo. Sarà poi sepolto nel Cimitero del “Verano” di Roma. Lasciava la moglie Ida e i figli Gaspare e Leda. Era imparentato col tenente aviatore Domenico Pappalepore, morto il 31 luglio 1936 a Gondar, in Etiopia. Pure la giovane vita di Giuseppe Caputi, nato a Molfetta il 15 luglio 1923, si concluse in Liguria, il 22 dicembre 1944. Il suo corpo fu inumato nel cimitero comunale di Ospedaletti, in provincia di Imperia. Infine, ignote sono la causa e la località del decesso di Francesco Cappelluti di Donato e Maria De Simone, nato il 7 gennaio 1906, morto il 24 dicembre 1944 e sepolto nel cimitero comunale di Molfetta. La 2a guerra mondiale non fu soltanto una guerra internazionale tra stati, ma anche «una guerra civile perché l’opposizione tra forze fasciste e antifasciste era interna a ogni società» (Hobsbawm). Alla luce di tale interpretazione, tutti questi morti, di qualsiasi tendenza ideologica, formazione militare o clandestina, stato civile o estrazione sociale, meritano perlomeno un cenno di ricordo, che superi gli odi politici di parte e ne illumini la memoria almeno per un moto di carità cristiana o di pietà umana, in un tenace sforzo di costruzione di un mondo più pacifico che ripudi gli orrori della guerra.
Autore: Marco I. de Santis