«Bosco Cappuccio / ha un declivio / di velluto verde / come una dolce / poltrona. // Appisolarmi là / solo / in un caffè remoto / con una luce fievole / come questa / di questa luna». Sono i versi di “C’era una volta” di Giuseppe Ungaretti, che raccontano un placido momento da fiaba, come suggerisce il titolo. In mezzo agli orrori della prima guerra mondiale, il poeta-soldato, posto a Quota 141 davanti al colle chiamato Bosco Cappuccio, in un frangente di calma trova uno spiraglio di evasione dal dolore. Osservando il vellutato pendio di erba verdeggiante, il poeta pensa al relax di una comoda poltrona, che lo trasporta lontano dal Carso martoriato dai combattimenti. I ricordi lo adagiano in un caffè di Parigi, quieto, in solitudine, sul punto di addormentarsi alla luce di una lampada fioca come il chiarore lunare che si spande sulla collina di Bosco Cappuccio. Al di là di questa visione idilliaca, la località friulana è diventata il calvario di sangue e il luogo di morte di numerosi fanti italiani durante la Grande Guerra. Bosco Cappuccio, infatti, era il principale corridoio tattico per la conquista di San Martino del Carso. Era un caposaldo austriaco protetto da quattro file di reticolati difese da decine di nidi di mitragliatrici e dal fuoco di protezione delle artiglierie. Il 5 ottobre 1915 un contingente anglofrancese sbarcò a Salonicco, con l’intenzione di marciare verso nord, in soccorso della Serbia. Fra il 6 e l’11 ottobre ingenti forze austriache, tedesche e bulgare invasero la Serbia e il Montenegro. L’esercito serbo, afflitto tra l’altro da un’epidemia di tifo, abbandonò Belgrado e si rifugiò in gran parte in Albania. Con lo scopo di aiutare i serbo-montenegrini, dopo due mesi e mezzo di sosta sul fronte italiano, il generale Luigi Cadorna, capo di stato maggiore del regio esercito, il 18 ottobre ordinò di scatenare una nuova grande offensiva, nota come terza battaglia dell’Isonzo. La direttrice strategica – spiega lo storico Piero Pieri – fu ancora una volta la valle del fiume Vipacco. Iniziò con un’azione su entrambe le ali, sia dalla frazione isontina di Plava, sia sul Carso, e qui condotta con straordinario accanimento. Poi l’attacco fu sferrato altrettanto gagliardamente contro le colline ad ovest di Gorizia. L’obiettivo di Trieste fu momentaneamente tralasciato. Lanciata la ricognizione dell’aviazione italiana con trimotori Caproni sulle linee austro-ungariche, alle ore 12 del 18 ottobre 1915 l’artiglieria italiana cominciò a colpire l’area di Doberdò e il Monte San Michele. Mentre la I e la IV armata impegnarono fin dall’inizio i reparti nemici posti di fronte per impedire il loro trasferimento nella zona del principale attacco italiano, su richiesta dei franco-inglesi, occupati nell’offensiva nell’Artois e nella Champagne, il gen. Cadorna il 21 ottobre lanciò all’assalto la II armata contro Tolmino e Gorizia e la III armata contro il Monte San Michele. Il fuoco di preparazione delle artiglierie italiane, tuttavia, benché durato tre giorni, si rivelò scarsamente proficuo, vuoi per la mancanza di bombarde, particolarmente efficaci contro i reticolati, vuoi per la carente carica esplosiva dei cannoni italiani, le cui gra-nate contenevano meta dellfesplosivo delle granate di fabbricazione tedesca. Le brigate gReh e gPistoiah assalirono con foga gli austro-ungarici nella zona del Monte Podgora, ma i nemici contrattaccarono vigorosamente, rioccupando le posizioni perdute. Le avversita climatiche e il terreno inadatto allo scavo costrinsero gli italiani a ripararsi dietro i cadaveri dei commilitoni morti. La 4a divisione di fanteria italiana, formata dalle brigate gLombardiah e gLivornoh, cerco di conquistare il Monte Sabotino, ma non vi riusci. La brigata gLombardiah ottenne qualche risultato presso Oslavia, ma il giorno successivo venne respinta. Si ottennero comunque successi parziali sul Monte Sei Busi, a Selz e a Monfalcone. Le trincee austriache del Monte San Michele furono ripetutamente conquistate e perdute in seguito a sanguinosi contrattacchi austro-ungarici, mentre gli italiani ebbero modesti risultati sulle teste di ponte di Plava e Tolmino, di cui occuparono il Monte Vodhil. Insomma, la tattica di Cadorna risulto poco incisiva. Invece di concentrare gli attacchi in massa sui punti piu deboli degli avversari, distribui i propri reparti in maniera uniforme lungo tutto il fronte . lungo quanto lfIsonzo . e attacco frammentariamente su piccoli tratti. Gli austro-ungarici, invece, approfittarono della situazione per concentrare la loro potenza di fuoco la dove gli italiani andavano allfattacco su direttrici piu limitate. Favoriti da estesi bombardamenti, comunque gli italiani avanzarono a Plava, sul bordo meridionale della piana della Bainsizza e sul Monte San Michele. Questo doveva essere il fulcro dellfavanzata italiana per aggirare il grosso delle truppe nemiche che difendevano Gorizia. Lfaltura fu teatro di cruenti attacchi e contrattacchi tra la III armata italiana e i rinforzi austro-ungarici appena giunti dal fronte balcanico e da quello orientale per ordine del generale Svetozar Borojevi. von Bojna, comandante della V armata austro-ungarica, uno dei migliori tattici dellfesercito nemico. Il Monte Sei Busi, tenacemente difeso dalla 106a divisione di fanteria austriaca, fu lo scenario di quattro sanguinosi assalti alla baionetta. Gli attacchi terminarono il 4 novembre. Anche se in Trentino la I armata italiana era riuscita ad avanzare in Val Lagarina e Val Giudicarie, Cadorna si rese conto che gli italiani sul fronte isontino non avevano guadagnando quasi nulla e che gli austro-ungarici si mantenevano sulla difensiva senza essere scalzati dalle vantaggiose posizioni sopraelevate. Nella terza battaglia dellfIsonzo gli italiani contarono ben 10.633 morti, 11.985 dispersi e 44.290 feriti, mentre gli austro-ungarici ebbero 8.228 morti, 7.201 dispersi e 26.418 feriti. Per tornare allfarea di Bosco Cappuccio, bisogna fare qualche passo indietro. Il 21 ottobre, alternate le truppe in linea, di fronte a Bosco Cappuccio fu schierata la brigata gCatanzaroh al comando del maggior generale Carlo Sanna. La gCatanzaroh, appartenente alla 28a divisione e formata dal 141‹ e 142‹ reggimento di fanteria, ebbe lfordine di avanzare verso il tratto compreso fra la Cappella di San Martino e San Martino del Carso. Gli attacchi della gCatanzaroh del 21 e del 22 ottobre furono resi vani da una resistenza ostinatissima. Allora sfintensifico lfazione di assalto del 141‹ reggimento, agli ordini del colonnello Attilio Thermes, per aggirare le difese austro-ungariche antistanti al 142‹ e cosi sostenere lfavanzata di questo reggimento. Il 1‹ e 2‹ battaglione del 141‹, muovendosi alla loro sinistra nel territorio della 30a divisione italiana, con un rapido balzo sorpresero gli austroungarici e occuparono la trincea, facendo molti prigionieri e catturando parecchio materiale bellico. I valorosi soldati proseguirono poi lungo il Valloncello di San Martino e presero unfaltra trincea nemica. Il 142‹ reggimento, tuttavia, contenuto da una tenacissima resistenza perse il collegamento col 141‹ e non riusci ad avanzare. Il 23 ottobre lfassalto continuo su due colonne: a sinistra il 1‹ battaglione del 141‹ e due battaglioni della brigata gCaltanissettah; a destra i rimanenti battaglioni del 141‹ e due compagnie del 142‹. La colonna di sinistra raggiunse il trincerone nemico che sbarrava la valle di San Martino e buoni progressi fece pure la colonna di destra. Tuttavia un micidiale fuoco di artiglieria e di mitragliatrici costrinse i gruppi avanzati a ripiegare. La gCatanzaroh, sostituita in parte dalla brigata gReginah, torno allfattacco fino al 30 ottobre, ma non riusci a piegare la resistenza austro- ungarica. Nuovi assalti ebbero uguale esito fino al 3 novembre. Il sottotenente Adolfo Zamboni, nel suo libro intitolato Fasti della Brigata Catanzaro. Il 141‹ Reggimento Fanteria nella Grande Guerra (Guido Mauro editore, Catanzaro 1933), ci ha lasciato una testimonianza di quei giorni: áIl Reggimento, sotto il comando del Colonnello Thermes . avendo il Colonnello Ferella avuto altra destinazione ., dopo un mese di ripo-so, rinsanguato con nuova fiorente gioventù, ritornò in linea nello stesso settore il 17 settembre. Era in vista un’offensiva in grande stile; purtroppo i mezzi risultavano ancora limitatissimi; scarsa l’artiglieria, ignoto l’uso delle bombarde, mentre quest’arma micidiale veniva largamente impiegata dal nemico; due sole mitragliatrici costituivano la dotazione di un nostro reggimento: l’avversario ne contava due per ogni battaglione. Il 21 ottobre ebbe inizio il fuoco di preparazione, ma fu così poco efficace che si dovette ricorrere ai tubi di gelatina, coi quali si poterono aprire pochi varchi. Le posizioni di cui doveva impossessarsi il 141° fanteria erano quelle denominate “Ridottino rosso” e “Groviglio”, veri fortilizi costituiti da un labirinto di trinceramenti protetti da diversi ordini di reticolato. Quante furono le vittime generose che per dieci giorni si immolarono davanti a quegli ostacoli? Quanti gli assalti disperati dei Calabresi che si avanzarono a ondate, ripetutamente, andando a morire fulminati dalla mitraglia, davanti al reticolato nemico? Il Reggimento perdette oltre due terzi degli effettivi, ma quando, il 3 novembre, ricevette il cambio poté consegnare ai commilitoni della Brigata Regina quel sistema di trincee che gli austriaci avevano difese con disperato valore». Un canto di guerra che ricorda Bosco Cappuccio come Monte Cappuccio nelle ultime strofe recita: «Da Monte Nero a Monte Cappuccio / fino all’altura di Doberdò, / un reggimento più volte distrutto: / alfine indietro nessuno tornò. // Fuoco e mitragliatrici, / si sente il cannone che spara; / per conquistar la trincea: / – Savoia ! – si va». A confermare la veridicità della canzone militare, basterà qualche esempio. A Bosco Cappuccio il 22 ottobre 1915 si immolarono, fra i tanti del 141° reggimento, i sottotenenti Carlo Giuffrè di Reggio Calabria, Mario Loasses di Napoli e Romano Orsi di Roma. Nello stesso giorno nella truppa di quel reggimento persero la vita tre fanti molfettesi di 20 anni: Giovannangelo Belgiovine di Vincenzo e Francesca Bellapianta, Luigi De Cesare di Giovanni e Ippolita Valente, e Domenico Spadavecchia di Francesco e Marta de Santis, il quale risultò disperso. Suo fratello Corrado, soldato del 138° reggimento di fanteria, morirà il 21 giugno 1916 sull’Altipiano dei Sette Comuni all’età di 28 anni. Bosco Cappuccio sarà fatale anche per due ufficiali molfettesi: il ventiseienne capitano Gaspare De Gennaro di Matteo e Maria Giuseppina Pansini, e il ventinovenne sottotenente Sergio Bufi di Felice e Maria Rosa Poli. Gaspare De Gennaro, capitano in servizio attivo, si metterà in luce il 29 giugno 1916, quando il maggiore Goffredo Lamponi Leopardi, comandante del 2° battaglione del 10° reggimento di fanteria della brigata “Regina”, colpito insieme ad alcune migliaia di militari italiani da una miscela di gas asfissianti (cloro e fosgene), sarà costretto ad abbandonare momentaneamente il campo. Allora il cap. De Gennaro, assunto il comando ad interim del battaglione, sotto un intenso bombardamento nemico, riunirà la sua truppa e la condurrà in prima linea. Qui, imbracciato un fucile e affiancato da pochi intrepidi, con calma e coraggio respingerà un attacco dei soldati austro-ungarici. Avuto l’ordine di riprendere un’importante postazione occupata dai nemici, guiderà i suoi uomini con ardimento e sagacia fino alla meta. Le due azioni gli varranno una medaglia d’argento. Il 9 agosto 1916, durante la sesta battaglia dell’Isonzo, alla testa della sua compagnia, si lancerà all’assalto di una trincea nemica sul Monte Cappuccio, animando i suoi fanti col proprio esempio, ma ferito mortalmente, cadrà a pochi passi dalla stessa trincea. Riceverà una medaglia di bronzo alla memoria. Nello stesso giorno, nelle medesima località, morirà anche il sottotenente di complemento del 10° reggimento di fanteria Sergio Bufi, decorato alla memoria con medaglia d’argento al valor militare, con questa motivazione: «In testa al suo plotone si slanciava con mirabile ardimento all’assalto, trascinando i suoi con l’esempio, finché, giunto a pochi passi dalla trincea, con un ultimo appello ai suoi soldati, cadeva colpito a morte». Suo fratello, il capitano di complemento del 17° reggimento di fanteria Giovanni Bufi, morirà a venticinque anni per malattia il 30 settembre 1918 nell’ospedaletto da campo n. 56 presso Porpetto, in provincia di Udine. Sia al capitano Gaspare De Gennaro, sia al sottotenente Sergio Bufi la città di Molfetta intitolerà una via urbana.
Autore: Marco I. de Santis