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15 ottobre 2002

di Marco de Santis Non tutti lo sanno, e a qualcuno sembrerà strano, ma la Puglia si trova ai limiti del mondo. A Vieste, all'estremità del Gargano, c'è lo scoglio di Pizzomunno, che è la punta del mondo. Al Capo di Leuca il santuario della Vergine è detto Santa Maria de finibus terrae, perché sta ai confini della terra. La Puglia, dunque, è un paese di frontiera, una terra ancora misteriosa e soprattutto misconosciuta. Come i suoi muri di pietra, che si lasciano cadere in rovina o si coprono di cemento o addirittura si distruggono. Eppure anch'essi sono beni culturali da salvaguardare. Chi sorvola in aereo o percorre in automobile le campagne pugliesi, è colpito dalla fitta rete di muri a secco che fiancheggiano il ciglio di interminabili tratturi o s'intrecciano e si frantumano tra mille fazzoletti di terra. Muricce, muretti, macere, muriccioli. Dovunque. Ma soprattutto dalla Terra di Bari al Salento. Ce ne sono di antichissimi, sepolti sotto strati di terreno, come quelli costruiti per recinzione attorno ai villaggi preistorici del Tavoliere o presso la voragine dei Pulo di Molfetta. Altri risalgono all'epoca della “centuriazione” romana (la divisione del terreno da assegnare in proprietà durante la fondazione di una colonia) e ancora si chiamano, con parola latina, pareti o parieti. La maggior parte di essi sono più recenti, di uno o due secoli fa. Vi passi accanto e improvvisamente puoi scorgere autentiche meraviglie di pietra: casali, torri, cisterne, chiesette, abbazie e masserie fortificate. I muretti che le circondano sono costati sudore ai cafoni di Puglia. Generazioni e generazioni di fatica, per lo spietramento di poderi che meglio si sarebbero chiamati sasseti. Allora l'intelligenza, la tenacia e l'industriosità di questi umili eroi quotidiani fecero il miracolo: le pietraie sono state trasformate in geometriche vigne e in uliveti a macchia, e i sassi sapientemente ammassati in filari intorno a campi e campicelli. Con le pietre più grandi si sono costruiti ricoveri nelle fogge più varie, ma soprattutto a cupola o, meglio, a pseudo-cupola. E non si tratta solo dei trulli famosi in tutto il mondo, bensì pure dei meno noti pagliari, con la sommità ricoperta di terra o di scaglie calcaree dette chiancarelle, e delle più agili casedde. Coi sassi e i macigni i contadini e i «mastri di pareti» hanno realizzato di tutto: muri paraterra e argini contro il dilavamento delle acque piovane, muri a scarpa per i dislivelli e specchie per il sostegno di alberi, crepidini per mandorli e ulivi a difesa dalle alluvioni, nascondigli per cacciatori, recinti per greggi e armenti, capannoni e tuguri. Ma i veri protagonisti, per resistenza e onnipresenza, sono i muri a secco. Alti trenta-cinquanta centimetri, quando servono da semplice fascia di confine, o più di due metri, quando proteggono i coltivi dai furti e dalle bestie al pascolo. In questo caso si chiamano difese, ma anche corti, chiusi e chiusure. In Puglia il fenomeno della recinzione con muricce cominciò a intensificarsi in età bizantina, con un crescendo ininterrotto che in certe zone portò alla parcellizzazione terriera più spinta fra Sette e Ottocento. Come si costruivano i muri a secco? Lo spiega uno degli ultimi parietari pugliesi nel libro U mèstë parèëtë. Il parietaro compilato dallo scrivente insieme a Vincenzo Valente con il corredo fotografico di Pasquale Minervini (Centro Studi Molfettesi, Mezzina, 1985). Non bisogna credere che si tratti soltanto di pietre compostamente allineate e accumulate: l'interno invece è riempito con massi irregolari e sassi di varia grandezza. Le due sponde esterne hanno un aspetto più ordinato e sono costruite, senza malta o cemento, con blocchi sovrapposti ad arte. Completa infine le muricce una cresta terminale di conci sbozzati alla meglio e strettamente addossati, a volte intatti, più spesso crollati e dispersi per l'incuria degli uomini. Fra contadi e latifondi confinanti si ergevano grandi muri detti limitoni, evidente accrescitivo del latino limites. Rinomato è il Limitone dei Greci, vicino a Mesagne (a nord-ovest di Brindisi), che presenta impressionanti macigni megalitici. Le macere non solamente sono un importante retaggio culturale, ma per di più permettono la sopravvivenza ad animali e piante assediati dall'espansione urbana e industriale. Protetti dai muri a secco, nei posti più reconditi fra rocce affioranti e cavità, trovano rifugio i ricci superstiti e le ultime volpi. Qui si nascondono nelle notti d'estate le rarissime lucciole, quasi completamente sterminate dai pesticidi. Qui, negli interstizi fra i blocchi di pietra o i rovi vicini, si annidano grossi ma innocui serpenti. Sono i saettoni, detti scorzoni perché hanno una dura pellaccia, spiegano i contadini. Oppure sono i cervoni, da qualche parte chiamati mungivacca, in quanto una credenza popolare vuole che si attorciglino alle zampe delle vacche e ne succhino il latte. I muretti pugliesi sono anche l'estremo ricetto di modeste erbe, stupende orchidee in estinzione, rovi, rose canine, prugnoli, roverelle e querce spinose, queste ultime in Italia presenti solo in Puglia, Sicilia e Sardegna. E tuttavia diverse cause si alleano contro la loro esistenza: effetti del tempo, distruzione ingiustificata, squilibri urbanistici, ignoranza. In molti agri essi sopravvivono più o meno intatti. Ma c'è una diffusa indifferenza verso i casi di vandalismo. Se lo smantellamento di questi manufatti si può tollerare per ragioni di pubblica utilità, è inammissibile e vergognoso che essi siano sostituiti con squallidi muri di cemento. Anche questo è un fatto di cultura. Didascalia: Muro a secco in contrada Coppe, a Molfetta (foto di Pasquale Minervini, dal volume U mèstë parèëtë. Il parietaro di Vincenzo Valente e Marco I. de Santis, Centro Studi Molfettesi, Mezzina, Molfetta, 1986).
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