Antonio è un pescatore molfettese. Appartiene ad una famiglia che da tre generazioni vive di pesca e lavora sul mare. Il suo volto è stanco, arso dal sole e dalla salsedine. Antonio rischia la vita ogni giorno, dorme quattro ore a notte, si alza prima dell’alba e rincasa a pomeriggio inoltrato. La sua vita ha spazi di esistenza limitati, il suo ritmo sonno-veglia è stravolto anche se lui dice che ci si abitua a dormire poco, i suoi occhi sono duri, riflettono il sacrificio quotidiano, la sua indomita forza. Antonio ama il suo lavoro, fa parte della sua identità, della sua storia familiare. Già in tenera età si è imbarcato, portato in mare dal padre, vomitando ad ogni uscita. Per lui il suo lavoro è una missione, una ragione di vita che affronta nonostante la durezza delle sue condizioni. Antonio ci parla della lunga crisi che, ormai da anni, attanaglia la marineria molfettese, una marineria antica, con una storia importante, un tempo la più grande dell’Adriatico, con una flotta invidiabile e numerosa ormai drammaticamente decimata (si è passati da oltre 300 pescherecci a poco più di 30). Perdere la nostra marineria, far lavorare i nostri pescatori in condizioni impossibili e braccati dai controlli. Multarli, sanzionarli ad ogni piè sospinto. Sono degli eroi, persone che hanno coraggio e spirito di sacrificio. Antonio è così. L’intervista tocca le corde dell’anima a chi la concede e a chi pone le domande. La ghiotta conquista del mercato ittico italiano fa gola alle multinazionali, la globalizzazione, l’estinzione di tutto ciò che è localizzato, piccolo ed artigianale. Ecco cosa entra prepotentemente in scena in questa storia. La storia della marineria molfettese in questi ultimi e durissimi anni. Cosa può fare un pescatore di fronte a tutto ciò? Antonio lotta da anni, con tutta la sua forza. Si prepara e studia, sbugiarda a muso duro chi non dice la verità, chi, a tutti i livelli, dalle associazioni di categoria alla politica, per i più vari motivi, non sembra interessato a trovare una soluzione. Lui dice che nessuno difende i pescatori, nessuno ascolta le loro ragioni; ma non per questo lui demorde o si arrende. Ha una tale forza che bisognerebbe passare sul suo cadavere per eliminare la sua capacità di reazione, non si ferma davanti a nulla, non ha paura di nulla, si sente libero e alza la voce contro tutti, perché lui difende la pesca, la cultura locale, il bene comune. E’ questa la sua forza, il non avere padroni e il poter urlare la sua verità, perché è visibilmente stanco dopo tante battaglie. Racconta la sua storia, lo fa con forza ed autorevolezza, ci fa capire che cosa è successo in questi ultimi anni e le ragioni alla base dell’ultimo e prolungato sciopero dei pescatori molfettesi. Lui è in prima linea, non si arrende di fronte ad una legge ingiusta che ha decimato gli operatori del settore inducendoli al disarmo, alla demolizione dei mezzi in cambio di un indennizzo. L’anima di Molfetta che si spegne. Antonio esordisce dicendo che la madre di tutti mali è una legge, il regolamento europeo n. 1967 del 2006, perché è da quell’anno che tutto cambia e che i pescatori cominciano ad essere messi in grande difficoltà. Il regolamento è composto da tre parti: parte tecnica, parte burocratica e parte accessoria. La parte tecnica fornisce precise indicazioni su come devono svolgersi le operazioni di pesca. E’ dal regno borbonico e precisamente dal 1780, come risulta da uno scritto dell’epoca, che i pescatori usano maglie da 40 mm ovvero larghe 4 centimetri e con forma rettangolare. Nella parte tecnica del regolamento comunitario si impone, invece, l’uso di una maglia da 50 mm a forma romboidale, una maglia non adatta al nostro sistema di pesca artigianale, al pescato dei nostri mari. Antonio si racconta con passione e cercando di essere chiaro nelle spiegazioni tecniche. Talvolta si lascia andare all’amarezza, dice che non si vuole trovare una soluzione possibile e, che, parte di questa responsabilità e inerzia va alle associazioni di categoria, quelle che – aggiunge – dovrebbero difendere i pescatori, quelle che sono sovvenzionate dalle loro quote. Anche chi viene incaricato di fare gli studi di settore, i ricercatori, chi lavora nel ministero, i politici: sono tutti responsabili di una crisi che non si vuole risolvere, perché non si vuole decidere. I motivi? Bisognerebbe chiederlo a loro, a quelli che da anni ricoprono gli stessi incarichi, senza ricambio. Ma perché mettere in ginocchio la pesca artigianale e spingere gli armatori al fallimento? Sono tutti contro i pescatori perché le multinazionali vogliono imporre la vendita del pesce d’importazione, afferma Antonio. Alcuni dati, che il pescatore fornisce, ci aiutano meglio a capire qual è il giro di affari legato al pesce d’importazione proveniente dall’Atlantico. L’Italia costituisce un mercato ghiotto e di grandissimo interesse per gli importatori, infatti è il primo paese in Europa per consumo pro-capite di pesce. In Italia se ne consumano 23 chili a testa mentre in Finlandia, ad esempio, solo 8. La pesca atlantica è una pesca monospecie per cui la nave officina pesca solo merluzzi oppure solo aringhe o sgombri. La nave officina è come una specie di industria, ha un equipaggio composto da 40 persone, rimane sei mesi in mare. Il prodotto viene pescato, lavorato e confezionato sulla nave ed è così pronto per la grande distribuzione. E’ una nave che ha, al suo interno, una compagine di persone che svolgono ruoli diversi nelle varie operazioni di pesca. La nostra pesca è, invece, multispecie, il pescato è composto da specie diverse, sono circa sessanta le specie commerciabili nel mar Mediterraneo, si tratta di pesci adulti ma di piccole dimensioni rispetto a quelli pescati nel mar Atlantico. Come si possono, dunque, utilizzare le stesse reti nella pesca Atlantica e nella pesca del mar Mediterraneo, dove il pescato ha dimensioni inferiori? Come si fa ad applicare la stessa legge e ad imporre le stesse operazione di pesca ad una nave officina e ad un piccolo peschereccio che esce per un solo giorno con sole due persone a bordo? Con le reti da 50 mm, protesta Antonio, noi non possiamo esercitare il nostro lavoro, non si pesca nulla, il pesce è di piccole dimensioni nel Mediterraneo e fuoriesce dalla rete. La rete con maglie da 50 mm è adatta alla pesca atlantica non ai nostri fondali. “E’ dalla notte dei tempi, da intere generazioni che nella pesca artigianale si usa la rete con maglie da 40 mm e noi per pescare siamo costretti a contravvenire la legge ma non lo facciamo per ingordigia o per ché non ci vogliamo adattare, lo facciamo per necessità, per sopravvivere, per portare il pane a casa” spiega Antonio con la foga e la concitazione di chi parla con onestà e pretende di essere creduto. Noi vogliamo rispettare la legge, abbiamo recepito e rispettato il regolamento europeo in tutte le sue altre parti: siamo in regola, effettuiamo i controlli, rispettiamo le norme di sicurezza. Noi non siamo dei fuorilegge, la marineria molfettese è una delle più virtuose ma l’intento è chiaro, è quello di distruggere il nostro lavoro e di costringerci alla resa. Nel nostro mare ci sono pesci adulti, vecchi ma di piccole dimensioni che non sono pescabili con le reti da 50 mm adatte, invece, alle dimensioni dei merluzzi del mar del Nord. Le maglie da 50 mm sono un grosso problema per noi, afferma Antonio, perché non ci consentono di portare reddito a casa, l’armatore non può pagare i pescatori, non copre le spese per l’acquisto delle reti e del gasolio. Il pescato si riduce drammaticamente del 60% a cui va aggiunto un 20% di pesce sottomisura che rimane in rete e va ributtato in mare. Eppure c’è una parte del regolamento europeo a cui noi possiamo fare appello, in questa parte si dice che se le disposizioni di legge vanno a discapito della “redditività, delle abitudini e dei luoghi” allora il regolamento può essere modificato. Ma questa opportunità è stata persa, l’opportunità di introdurre delle deroghe al regolamento che, dopo un certo tempo, è divenuto legge e ora non è più modificabile. Dal 2006 e in tredici anni, spiega Antonio con rabbia e rammarico, non si è trovata una soluzione. Vi sono state tante deroghe al regolamento europeo, pensiamo alle vongole di Chioggia o a determinati tipi di formaggi, come quello sardo. Gli studi del C.N.R., dei biologi, le sperimentazioni potevano dimostrare quello che i pescatori sostenevano ovvero che il regolamento europeo non è adatto per il nostro tipo di mare e di pesca, si poteva dimostrare che le nostre ragioni oltre che pratiche avevano un fondamento scientifico e che quindi si poteva facilmente ottenere la deroga. Cosa è successo esattamente? Gli anni concessi per la deroga erano sette. Sino al 2012 non si è fatto nulla e il regolamento è diventato legge. Le associazioni di categoria non si sono mosse in alcun modo, si poteva usufruire della deroga, la comunità europea ci aveva dato gli strumenti per poterlo fare ma le associazioni di categoria non hanno agito con determinazione, e ora ci troviamo questa mannaia da parte della comunità europea, prendere o lasciare. Mancanza di volontà o incapacità a gestire una situazione complessa? E’ questo l’interrogativo che emerge spontaneo. Per quanto riguarda la parte burocratica del regolamento europeo vi sono una serie di disposizioni obbligatorie a cui i pescatori devono attenersi, sono ben 16 le operazioni burocratiche da dover svolgere immediatamente dopo la partenza: comunicazione dell’uscita dal porto con notebook, accensione della blue box che determina la tracciabilità del mezzo (una sorta di scatola nera del peschereccio), etichettatura, sbarco del pescato e tante altre operazioni che non stiamo qui ad elencare. Si tratta, in definitiva, di norme molto precise su come devono essere svolte le operazioni di pesca, norme introdotte dal regolamento del 2006 ed inesistenti prima. Antonio lamenta la necessità di una loro semplificazione, molte operazioni sono ripetitive. La capitaneria, ad esempio, deve essere chiamata per ben quattro volte durante la partenza. Intanto il pescatore ha davvero tante, ma tante altre cose più importanti a cui pensare: valutare le condizioni del tempo, pilotare il peschereccio, dare indicazioni all’equipaggio, salvaguardare la sicurezza in mare, controllare le attrezzature di pesca, verificare il livello del gasolio, provvedere all’approvvigionamento dei viveri e del ghiaccio e via dicendo. Antonio si lamenta della burocrazia, dei troppi documenti da presentare, delle operazioni da seguire per essere in regola ed operativi. E’ tutto pesante, farraginoso, inutile. Afferma che è primario interesse del pescatore che la barca debba essere funzionante al 100%, l’equipaggio e la barca non possono correre rischi, la barca è un’azienda. Poi i controlli, 30.000 pescatori “braccati” da 40.000 capitanerie, da pattugliatori italiani ed europei. Il rapporto è sbilanciato, siamo sempre fermati, dice Antonio. La burocrazia è troppa, noi cerchiamo di rispettare le regole, ma con tante leggi è difficile rimanere in regola e chi controlla troverà sempre qualcosa da sanzionare e quindi via alle multe (da 2.000 a 10.000 euro), al sequestro del pescato, al sequestro dell’attrezzatura. Il pescato italiano è il 30% mentre quello importato il 70%. Sul pescato italiano si fanno il 70% dei controlli mentre su quello importato solo il 30%. Lo sbilanciamento è evidente così come l’accanimento verso i nostri pescatori. Antonio si sofferma, poi, sulla parte accessoria del regolamento europeo, quella relativa alle sanzioni. Non bastano le multe pecuniarie e il sequestro del pescato, se si viene sanzionati viene tolto il premio per il fermo biologico e si perdono anche i finanziamenti europei. Se ad esempio, nei cinque anni successivi al ricevimento dei finanziamenti un pescatore compie un’infrazione, deve restituire i soldi ricevuti. Se l’infrazione è grave vi è l’arresto definitivo del peschereccio e la sua demolizione. Noi, dice Antonio, non vogliamo trasgredire, è la legge che è sbagliata e ci ha reso trasgressori. Abbiamo sempre pescato in questo modo così come hanno fatto i nostri antenati. Vogliamo lavorare con poche leggi, di chiara e facile applicazione. Noi vogliamo rispettare la legge ma è essa che ha creato ingiustizie. Alla domanda su chi avesse tra i politici offerto sostegno ai pescatori Antonio risponde che su 63 parlamentari pugliesi tutti sono stati assenti, tranne una, a suo parere, la senatrice Carmela Minuto. Si è interessata in prima persona, ha scritto documenti e inoltrato istanze al ministro, ha fatto arrivare la nostra voce al presidente Giuseppe Conte che ha risposto ad una sua lettera, è stata sempre in prima linea, si è rivolta anche a Michele Emiliano chiedendo di ricevere la nostra delegazione. “A me non interessa la bandiera politica – dice Antonio – non guardo a quello, guardo alla persona, a come si impegna e a come ha preso a cuore la nostra causa, io vedo i fatti e lei ha portato avanti la nostra battaglia”. Anche il sindaco Tommaso Minervini si è comportato meravigliosamente, afferma Antonio, da persona squisita e sensibile qual è. Ci è stato vicino, è venuto con noi a Bari, ha scritto due volte al ministro chiedendo udienza e mostrandosi disponibile anche ad andare a Roma per incontrarlo, accompagnando i pescatori. E’ stato sempre attento alle nostre richieste e ha mostrato vicinanza. E’ stato l’unico sindaco, tra tutte le marinerie pugliesi, ad impegnarsi a fondo. Ha fatto tutto quello che era nelle sue possibilità. Gli altri politici sono stati completamente assenti ed i pescatori, dice Antonio, hanno una memoria da elefante e si ricorderanno di questo al momento del voto. Alla base della protesta ci sono uomini liberi come me, dice Antonio, la protesta non è stata indetta dalle associazioni di categoria o dai sindacati, ma da un’assemblea costituente di pescatori, da chi ha la pelle bruciata dal sole e dalla salsedine. © Riproduzione riservata