Antifascisti molfettesi e ragazzi di Salò
Perché non se ne perda la memoria
Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, uno stralcio del lavoro del prof. Lorenzo Palumbo su episodi e personaggi della nostra storia recente
Su Giovanni Pansini e il figlio Tiberio ha fornito notizie essenziali Ignazio Pansini in un succoso articolo, “Gli antifascisti molfettesi nel casellario politico del regime”, inserito in questo periodico nel maggio 1995. Sulla scorta di documenti dell’archivio privato dello stesso Ignazio Pansini, generosamente messi a mia disposizione, non è forse superfluo ritornare ora con maggiori dettagli su Tiberio Pansini, avendone del padre già diffusamente trattato Katia Massara nel volume “Il popolo al confino - La peresecuzione fascista in Puglia”.
Nel corso dei cinque anni di confino, scontati a Ponza e a Ventotene, Giovanni Pansini fu spesso visitato dal figlio Tiberio, della cui attività giovanile diede un cenno Paolo Spriano nella sua “Storia del partito comunista italiano”. Tiberio, che era nato il 31 luglio 1917, finì col diventare corriere dei confinati. Successivamente egli aderì al Partito comunista e nel periodo della resistenza ebbe il grado di tenente colonnello della seconda Divisione “Garibaldi”, attiva in Valtellina e Valsassina.
Fu fucilato due settimane prima del 25 aprile 1945 da bande repubblichine a Castione di Sondrio. Il padre ne diede notizia ai parenti molfettesi in una lettera del 28 giugno 1945 che qui di seguito si riassume.
“La legnata è stata così improvvisa e così grave -scrive Giovanni Pansini ai parenti di Molfetta- che ancora oggi non ci rendiamo completamente conto della sciagura che ci è capitata.”
Avevano trascorso un anno di ansie e di terrore al pensiero di quanto potesse accadere, ma negli ultimi tempi erano stati abbastanza tranquilli. La fine, che tutti vedevano prossima, aveva fatto dimenticare con quali canaglie avessero a che fare, tanto che l’ultima volta che aveva visto partire il figlio, non aveva nutrito alcuna preoccupazione.
Senonché la mattina del 26 marzo Giovanni Pansini fu chiamato al telefono dalla guardia repubblicana di Sondrio e gli furono chiesti i motivi per cui il figlio si trovasse a Sondrio. Aveva risposto che molto probabilmente il figlio Tiberio si era recato a Sondrio per trovare un luogo di cura e di riposo per sua mamma. Il Comandante si dimostrò abbastanza persuaso tanto che mi domandò se volevo parlare al telefono con lui. Il figlio gli disse di stare tranquillo perchè sarebbe tornato a Milano per la sera od al massimo per la mattina successiva.
Giovanni Pansini ne parlò subito agli incaricati del Partito comunista, si rivolse al C.L.N.A.I. ed infine contattò un avvocato che aveva lo studio a Sondrio e che era un pezzo grosso del fascismo. Contattò anche il Prof. Cardillo della Clinica radiologica di Milano, che come sfollato era il primario dell’ospedale di Sondrio e da questi ebbe le prime notizie: il Berio era trattenuto in attesa di informazioni e che, non essendo stato preso con armi, non bisognava nutrire timori sul suo conto. Poi il Prof. Cardillo fu ucciso in una scaramuccia e Giovanni Pansini non seppe più nulla neanche dal suo avvocato.
Il giorno sedici a Giovanni Pansini pervennero ancora notizie rassicuranti da parte di responsabili del Partito comunista, ma in realtà il giovane era già stato fucilato a Sondrio la mattina del 9 aprile alle ore 10. La notizia gli fu data dal suo avvocato: il figlio era stato riconosciuto come partigiano, aveva confessato la sua appartenenza ai partigiani come sanitario e aggiunse di avere nascosto un plico nelle boscaglie di Postalesio. Invitato a recuperarlo, vi si era recato e in un tentativo di fuga era stato ucciso.
In realtà le cose erano andate diversamente: recatosi Giovanni Pansini il 5 maggio a Sondrio, interrogò personalmente gli esecutori materiali dell’assassinio. Gli dissero che il capitano ed il tenente avevano affidato a loro due il compito di ammazzarlo e che lo avevano fatto dopo avergli fatto percorrere sei Km. a piedi ed aver ricevuto dal morituro le sigarette perchè la lunga strada sembrasse meno pesante e noiosa. Puoi capire con quale stato d’animo abbia ascoltato la confessione dei due delinquenti e quale sia stata la mia logica risposta. Non potette interrogare il capitano ed il tenente nonché le due spie perchè erano state fucilate il giorno prima del suo arrivo.
Giovanni Pansini riuscì a parlare anche con i suoi compagni delle ultime ore uno dei quali attestò la grande forza d’animo, la grande serenità e la calma che Tiberio dimostrò fino all’ultimo minuto. Fin dal giorno 6 aprile era stato destinato all’estremo sacrificio, che poi fu rimandato di giorno in giorno nella speranza che sotto l’incubo della morte prossima si decidesse a confessare ed a fare i nomi dei suoi compagni. Fu anche torturato senza che riuscissero a strappargli un nome. Prima che fosse portato all’esecuzione affidò la sua macchinetta per le sigarette perchè ci fosse portata insieme al suo ultimo saluto.
Il corpo fu abbandonato per due giorni in una boscaglia; successivamente fu pietosamente raccolto dalla moglie di un partigiano e portato nella chiesetta del cimitero di S. P. di Berbenno, ove restò ancora due giorni sulla nuda terra insepolto, fino a quando non venne poi il permesso di seppellirlo con il nome di battaglia: dottor Rossi.
“Era ispettore di zona del Partito Comunista Italiano ed aveva il grado di tenente Colonnello. Sotto il suo nome di battaglia era stato condannato a morte già due volte: una prima volta nel Comasco ed una seconda in Valsassina. Malgrado tutto -continua il padre- era sempre sereno, aveva il suo solito sorriso buono ed era pieno di fede e di entusiasmo per la sua idea e per l’abnegazione dei suoi compagni che esponevano quotidianamente la vita per il raggiungimento del sogno di vedere la nostra Italia libera ancora una volta dai tedeschi, e dai servi sciocchi: i fascisti”.
Questa lettera di profonda umanità fu dettata da cocente dolore ma senza disperazione e senza rancore, soprattutto in considerazione di quello che essa non dice sull’epilogo della tragica vicenda, quando cioè il dottor Giuseppe Pansini si rifiutò di sparare agli assassini del figlio, quelli che egli stesso aveva interrogato e che furono trascinati dai partigiani sotto casa sua, e comunque fucilati, giusta l’informazione fornitami dall’amico dottor Ignazio Pansini.
Auspicava Ignazio Pansini, a conclusione del suo articolo sugli antifascisti molfettesi, uno sforzo di conciliazione “anche per non permettere che tutti i caduti e le vittime di una guerra e di una ideologia sciagurate diventino merce di propaganda per schieramenti e tornate elettorali”.
Non si tratta di una voce isolata; ed è anzi recente l’autorevole invito a riconsiderare con equanimità le vicende di quei giovani che, dopo l’8 settembre, caddero combattendo a fianco dei tedeschi.
Ed in effetti, se si è doverosamente ricordato Tiberio Pansini, per pietà cristiana non si devono completamente dimenticare l’insegnante Domenico Mezzina, gli studenti universitari Cosmo Mongelli e Cosimo Giovine, (il padre di quest’ultimo aveva partecipato all’impresa dei Dardanelli), nonché Domenico Gadaleta, diplomato alla Farnesina, i quali giovanissimi, con varie motivazioni o solo per caso, come il prestare servizio militare nel Centro-Nord, aderirono alla repubblica di Salò e morirono fucilati dai partigiani.
Su di essi è calato un progressivo oblio, anche perchè i parenti per lungo tempo non hanno avuto alcun interesse perchè quei giovani fossero ricordati oltre la cerchia domestica: di essi si ricordano appena i superstiti loro coetanei le cui testimonianze sono spesso contraddittorie e confuse. Un vago ricordo di Cosmo Mongelli, per esempio, ma non più che un ricordo, è adombrato nel recente romanzo “Il Pierrot giallo” di Orazio Panunzio.
La pietà cristiana può e deve accomunarli a Tiberio Pansini, perchè si tratta di giovani vite stroncate nel corso di una guerra civile, che fu atroce e spietata, ed ebbe una sua lunga scia di sangue, e questo, sia ben chiaro, senza dovere dimenticare soprattutto oggi, quando si farnetica di riscrivere certa storia, che la scelta dei primi, sin dal momento in cui essa veniva operata, fu quella sbagliata: Tiberio Pansini morì consapevolmente per la libertà e la democrazia; gli altri, forse senza rendersene conto, andarono a morire in nome dell’alleanza subalterna al Terzo Reich e, indubbiamente senza volerlo, si trovarono dalla parte di chi, fra l’altro, avviò gli ebrei italiani ai lager.
Lorenzo Palumbo