Recupero Password
Amarcord, il commercio a Molfetta negli anni Cinquanta
15 aprile 2006

Iniziarono insieme nei primi anni Cinquanta gli sviluppi commerciali della città e del corso Umberto (“il Corso”). Non mi riferisco al secolare commercio di prodotti agricoli, esercitato senza pubblicità, essendo gli operatori e i committenti noti gli uni agli altri, in sedi di compagnie dislocate nel territorio ed individuabili solo per il movimento e la sosta di botti, carri, cavalli da tiro pesante avanti all'ingresso. Bastano due esempi: all'inizio della via Cozzoli, che terminava ad un precedente edificio del “Filippetto”, sostavano spesso avanti alla sede della ditta Sancilio, produttrice d'olio, lunghi carri e grandi cavalli: ultimi episodi di convivenza urbana di quegli animali con gli uomini. I cavalli maschi stupivano il ragazzino con la graduale e strabiliante estroflessione del membro e la successiva dilavante minzione. Mentre al piano terra dell'edificio tra le vie XX Settembre e Cavallotti operava l'esportatore Bacolo. Nel commercio minuto quasi per tutto il decennio fu via Margherita di Savoia “la vetrina” commerciale: negozi solitamente privi d'insegne, certo delle luminose: indizio della modesta dimensione del commercio nell'economia locale. Le merci infatti erano primarie come i bisogni e così poca la concorrenza, che un negozio era quasi l'obbligato punto di riferimento nella zona. Anche lo stile dell'esercizio commerciale cominciò a mutare all'inizio degli anni cinquanta, ma per un fatto accidentale: l'arrivo d'una famiglia d'«oriundi». Il negozio tradizionale, è noto, era anche un luogo “sociale”. In quello alimentare d'Éndónie (Antonio Camporeale), di fronte ad un campo di tennis, nella cui area sarebbe sorto a metà del decennio il duplice edificio, detto “palazzo tennis”, si poteva udire distese chiacchierate dal privato e quotidiano al caso straordinario (come la sciagura di Superga nel '49), mentre il gestore, tardigrado ed armato di sèsele (séssola per prendere farine e chicchi), colloquendo, si moveva in grembiule nero, imbiancato dalla farina, tra scaffali dietro il “bancone” e casse a lato. Quelli contenevano pane e pasta lunga (filiforme e tubolare), queste pasta corta, farinacei, crusca e riso: tutti sciolti e da pesare al momento. Si comprava a ventesimo (50 grammi), mezzo quinto (100), mezzo quinto e un ventesimo (150), un quinto (200), un quinto e mezzo (300), due quinti (400) ecc. Il nuovo stile, anglosassone (e norditaliano), introdussero due salumieri, i fratelli Amato, uno dei quali, tornato dagli Usa, s'allogò in via Margherita in prossimità dell'omonima piazza. Elevato sull'alto bancone-vetrina tra scansie laterali, piene di confezioni di merce, parlava rapidamente in lingua italiana, priva d'inflessioni meridionali. Con tutti i clienti d'età superiore alla puerizia usava pronome (“lei”) e linguaggio di cortesia; li appellava “signore” e “signora”, premettendo “prego”; riscoteva, dicendo “grazie”, e li congedava con il saluto dell'ora. Era rispettato il turno dei ragazzi, abituati ad essere sopraffatti da tutti, come se a casa non li attendesse una madre, per preparare i pasti. In alto sulla lontana parete di fondo si leggeva in grandi caratteri una réclame: “Tutte le chine s'inchinano avanti alla China Pisanti”. L'altro Amato (d'un terzo fratello all'Annunziata non so dire) con simili generi e stile commerciava 'mmézz'a Gelarìenze (piazza Principe di Napoli). I negozi, che venivano istituendosi nel Corso degli anni Cinquanta, erano concentrati nella parte media, tra la chiesa e il Liceo, e nel tratto più vicino delle vie afferenti ed erano privi d'insegne: non l'avevano Cherradìne de re 'rradie (tecnico di Gadaleta, poi resosi autonomo), Geróleme (Vendrecédde) 'u pedeghìne (“botteghino” del tabacco e tabaccaio), posti all'angolo alto e al basso tra Corso e via Amedeo; né Martamangìne (Marta Mancini) la cartolaia (edificio tra le vie XX settembre e Cavallotti). Eccezioni poche, come i bar, di cui non c'erano che gli “storici”, per così dire, “Universo” in vista della statua a Garibaldi, “Sorci verdi” nei pressi di via Muscati e “La Fenice”, il quale con gli adiacenti ed omonimi cinema e arena occupava lo spazio tra via Respa e la Villa ed apparteneva a “don Alfredo” (Spadavecchia). Nella “Galleria Patrioti…” fu impiantato un altro bar, fuori del quale fu esposto un apparecchio della neonata televisione per il divertimento (“Telematch”, “Lascia o raddoppia?”) d'una folla di clienti seduti e spettatori non consumanti. Ancora all'antica oggetti simbolici o merci indicavano una vendita ed il genere (alimentare) venduto: per esempio la vineria (chéndìne) di via Giaquinto (secondo isolato verso via Margherita). Le macellerie al o presso il Corso, di cui tre (al Corso presso via De Luca, alle prime isole delle vie Amedeo e Muscati, dov'è ancora una) appartenenti alla beccaia “dinastia” Dell'Aquila (un'altra apparteneva a tal Ménuéle, privo d'una mano), solitamente avevano per insegna quarti d'animali, finché circolarono poche automobili. Non esistendo le celle frigorifere, le carni erano appese lungo le pareti del negozio con ganci così noti che qualche maestra, per aiutare gli scolari, suggeriva la forma dell'«uncino del beccaio» per il punto interrogativo. Si macellava il venerdì per la domenica, giorno deputato alla carne, e nonostante la pia prescrizione d'astinenza in quel giorno, molti, per concedersi “carne povera” o per passione del seffrìtte, acquistavano (a porzioni d'organi) 'u cóere ('u d'inde, l'indèrne), cioè la “corata”, il complesso delle interiora, eccetto l'intestino. Il cuore muscolare era per la sua forma detto 'u túnne (il tondo). Le massaie, che oggi vogliono italianizzare questa parola, chiedono al macellaio “il tonno”, ingannate dall'omofonia di tùnne/tondo e tùnne/tonno. Sempre al centro del Corso erano una drogheria, una ferramenteria, un negozio alimentare (di Micheline, paraplegico), una carto-giornaleria (che il titolare, un insegnante elementare, aveva intitolato “Libreria”: vi accudiva una sorella sordomuta), e l'orologeria, “storica”, di Mimipóele (Mimì Poli). Una carto-libreria (“Jannuzzi” era scritto con pittura sulla sovrapporta) fronteggiava il Liceo, una terza l'«Iris», presto scomparsa, ma rinomata durante il fascismo e negli anni quaranta, era in via Cavallotti. Quanto ai giornali, una vendita era in un jùse di via Sella e la gestiva una persona che, affetta da nanismo, era quasi un personaggio nella vita provinciale del tempo: Rurùcce du cìrchele équéstre, poi trasferitosi in un'edicola di piazza Margherita di Savoia. “Storico” nel Corso era anche l'esercizio di Pasquale Gadaleta (gas, radio, lampade e lampadari, oggetti della tecnica domestica, tra cui macchine per cucire), ma non sul lato dov'è ancora, bensì sull'opposto. Un negozio simile (“Elettra”) fu per qualche tempo al di là della chiesa. Potremmo comprendere nella disamina il cinema, che invadeva i muri degli edifici del lato est in particolare (tra via Cavallotti e via De Luca) con i suoi manifesti e le fascette colorate che comunicavano i giorni di programmazione e quelli aggiuntivi con gli avvisi: “A grande richiesta”, “Ultima replica”, “Prezzi ridotti”. Epoca d'oro del cinema, in cui alla chiusura dell'«Apollo» in via Roma presso la cappeccìne risposero l'ammodernamento dell'«Orfeo» (in seguito divenuto “Fiamma”) e della “Fenice”, che come il “Corso” erano su o presso il Corso, e la nascita del “Supercinema” (in un vicolo di via Margherita) e del “Cinema al Viale” (PioXI), entrambi dotati di tetto mobile. Con il commercio crescevano il tenore di vita e l'uso degli spazi culturali. Il cinema con il campo di calcio “Landolfi” (polverosa area, cinta di filo di ferro, su via Madonna della rosa a sud della zona dei cementifici) era l'evasione domenicale, ma diveniva già frequenza di gusto (cinefilo). Si stanziarono al Corso una fioreria (“Flora”) ed un negozio d'indumenti, venuto da via Pansini (perciò “Angione al Corso”), anche piccole botteghe artigiane: una maglieria di fronte a “Villa Gallo”, un'altra più in basso (dopo via XX settembre) e ben tre sartorie (una al di qua, le altre al di là della chiesa). La prima maglieria era esattamente in via Giaquinto, che nel tratto tra via Salepico e Corso era densamente commerciale: oltre la carto-giornaleria di Squeo, c'erano la merceria della capabiénghe, la citata macelleria d'Emanuele, l'orto-frutteria di Miétte, che del suo soprannome faceva uso propagandistico: il banditore ingaggiato mostrava la frutta ed esortava a comprarla da Meténde pesciàte. Una delle due parti del “palazzo tennis” si caratterizzò per il commercio tessile: oltre Angione, vi s'allogarono Iannone (abbigliamento) e De Simone (tappezzeria). Il Corso non aveva completato l'edificazione, per dar luogo a negozi: tutto lo spazio tra la Villa comunale e il Liceo ad est e via Respa ad ovest aveva due soli edifici: ad ovest il complesso della “Fenice”, ad est il “Palazzo De Lago”, uno dei “palazzi” di borghesia industriale, salita in censo e fama: De Dato (il cav. Stefano fu Commissario prefettizio e Podestà negli anni 27-29, 31-34), Gambardella, Magrone, Messina; tutti tra le piazze V.Emanuele e Garibaldi e il Corso. Anche l'esistenza d'una chiesa (Sacro Cuore) e due ville (“Gagliardi-Gadaleta” e “Gallo”) limitava l'allogazione di negozi, ma molti erano i vani al piano di terra, adibiti o no all'abitazione civile. La prima delle due ville, sede di pio ricovero (Monte di Pietà, Spedale e Confidenze), ospitava suore ed orfanelle che, vestite ed acconciate (con trecce) allo stesso modo spersonalizzante, erano in funzione suffragaria adibite ai funerali di lusso (caso di pio sfruttamento di minori), finché il trasporto delle salme fu eseguito con traino di lucidi cavalli neri, ornati con pennacchi e borchie. La villa Gallo scomparve verso la metà degli anni Sessanta ed al suo posto sorse un edificio che ospitò due ampi negozi d'abbigliamento, dotati d'ambiziose insegne: “Natalicchio” e “Silvana”, preesistenti, dal decennio precedente il primo, da poco tempo il secondo, già munito d'insegna luminosa. Le prime insegne vistose e luminose erano apparse nei primi anni cinquanta nell'edificio più in basso (tra le vie Amedeo e Giaquinto). Qui fu insediata una delle dette sartorie. Il sarto fece tanto progresso nella sua arte, che non solo passò dal possesso d'una giardinetta Fiat ad un'appariscente e snella berlina Volkswagen (verde pisello), ma trasformò la sartoria in impresa artigiana e boutique, appose ai lati della porta (n.86) due vetrinette e sovrappose un'insegna con caratteri cubitali a rilievo: “MUROLO”. Sull'altro lato del portone principale un certo Colavito (Galasso), rimpatriato dal Venezuela, impiantò un bar, da cui “lanciò” un nuovo gelato, il “cremino”: una sfera di crema imposta ad un cono e coperta di cioccolato nella parte sporgente, simile perciò ad un “moretto”. Colavito sovrappose all'ingresso un'insegna luminosa a neon (filiforme e colorata): il suo nome e la sua invenzione: “Al Cremino”. Questa precorse la simile insegna, ma verticale e sporgente dal muro, d'un negozio (d'abbigliamento) di successiva istituzione: era d'un calciatore del Molfetta, idolo dei tifosi per lo storico spareggio con il Cral Cirio, per accedere alla serie C (unica). La sfida tra le due squadre conobbe una vittoria del Molfetta in casa. L'altra squadra pubblicò sulla Gazzetta del Mezzogiorno una canzone minacciosa sull'aria di Come facette màmmete, in cui si prevedeva 'nu Cral Cirio scatenato, na sconfitta vendicata, 'na polpetta / fatte d'uommene 'e Molfetta e si sfidava Perciò Milli fatte avante (x 2), /qui c'è Coscia che t'aspiétte (x 2). Il Molfetta passò con un pareggio. Il campione locale di calcio aveva appunto nome Milli e il suo (effimero) negozio “Stilish”. Forse nello stesso tempo il bar “Sorci verdi” si dotò di simile insegna, verde naturalmente. Queste furono le prime luci sul commercio molfettese, non ovviamente i primi negozi, perché di rinomati esistevano in via Margherita (per esempio la boutique-profumeria delle sorelle Pisani), via Ragno (la merceria di Vendùre); attivo e “rumoroso” in occasione delle “fiere del bianco” era 'mmezz'o 'rre l' “Italmoda”, negozio di tessili di Ranieri, uno dei titolari della Fi.di.mi.ra, (Figli di Michele Ranieri), industria di tessuti e materassi (il “traliccio Tre Campane”) sulla via di Bisceglie. I visitatori della città, che viaggiavano in ferrovia, trovavano appena fuori della stazione l'«Albergo Flora».
Autore: Antonio Balsamo
Nominativo
Email
Messaggio
Non verranno pubblicati commenti che:
  • Contengono offese di qualunque tipo
  • Sono contrari alle norme imperative dell’ordine pubblico e del buon costume
  • Contengono affermazioni non provate e/o non provabili e pertanto inattendibili
  • Contengono messaggi non pertinenti all’articolo al quale si riferiscono
  • Contengono messaggi pubblicitari
""
Quindici OnLine - Tutti i diritti riservati. Copyright © 1997 - 2024
Editore Associazione Culturale "Via Piazza" - Viale Pio XI, 11/A5 - 70056 Molfetta (BA) - P.IVA 04710470727 - ISSN 2612-758X
powered by PC Planet