“Ero già spacciato, poi ho visto una luce…”
ESCLUSIVO - Una partita tra la vita e la morte. Il comandante racconta
“Ero lì con il mare che aumentava minaccioso e in quei pochi attimi ho pensato che era arrivato il mio momento. La barca era capovolta e stava per affondare: era tutto buio, ero immerso nell’acqua fino al mento, avevo 10 cm di aria, ma non mi sono arreso. Ho guardato intorno e ho intravisto una luce, come quella di un raggio di sole che penetra nel mare. Ho seguito la sua scia, mi sono ritrovato fuori dall’acqua e ho rivisto il cielo”.
È in questi drammatici attimi che si è giocata la partita tra la vita e la morte del comandante del “Carmela madre”, Giuseppe Cappelluti, 54 anni, al momento del naufragio.
Il vecchio “lupo di mare” discendente di una generazione di pescatori (lo erano il nonno e il padre; lo sono anche i suoi due figli uno dei quali Fiorenzo, di 17 anni, era a bordo del peschereccio e deve la sua salvezza proprio al sangue freddo del padre), racconta la sua terribile avventura.
“Eravamo usciti per una rapida battuta di pesca: avevamo necessità di lavorare dopo 90 giorni di “fermo bellico”, il tempo era nuvoloso, ma non si temeva tempesta. Poi alla radio ho sentito che a Vieste era arrivato un fronte freddo, con un forte vento che avanzava verso Sud. Ho subito invertito la rotta e, insieme con un altro motopesca il “Francesco Ignazio”, abbiamo puntato verso il porto. Lui avanti e io dietro: ho ridotto la velocità da 9 a 6 nodi per evitare collisioni. Poi ad un tratto non l’ho più visto: il vento avanzava veloce, cominciava a piovere e il mare si ingrossava. All’orizzonte era tutto un fumo. A tre miglia dalla costa, circa 5 km e mezzo, quando il porto di Molfetta era già in vista, è successo il finimondo. Un’onda gigantesca ci ha colpiti a poppa. I due uomini a bordo, mio figlio e il marinaio Francesco De Virgilio, sono stati scaraventati in mare, mentre io ero nella cabina di comando e non mi sono accorto di nulla continuando a tentare di governare la barca con un timone impazzito. Poi ho sentito gridare: esci! esci! e ho capito che la situazione stava precipitando. Mentre la barca si inclinava e l’acqua era già sotto il ponte di comando, ho visto la luce. È stato un miracolo!
Finalmente sono salito a galla, ma l’odissea non era finita. Ho sentito mio figlio gridare: “Aiutami, non ce la faccio più!”. Aveva gli stivali pieni d’acqua e il peso lo stava tirando giù. Così l’ho raggiunto, mi sono immerso, gli ho sfilato gli stivali, poi tutti e tre ci siamo aggrappati alla passerella di legno, mentre la barca affondava.
Eravamo salvi ma non al sicuro. Il mare, infatti, ci spingeva verso gli scogli e rischiavamo di sfracellarci contro. Quando eravamo a pochi metri dal lungomare ci ha avvistati una donna che era dietro la finestra di un balcone del palazzo della Banca Cattolica. Ha dato l’allarme. Così è arrivata la motovedetta della Capitaneria e i militari, rischiando anch’essi con quel mare, ci hanno salvato quando eravamo a soli 20 metri dagli scogli frangiflutti”.
Qual è stato il momento più brutto?
“Quando ero sotto la barca”.
E quello di maggiore paura?
“Quando ho visto mio figlio in difficoltà. Comunque riconosco che siamo stati fortunati a trovare la passerella, a restare in acqua d’estate e ad essere avvistati in tempo”.
E ora?
“Ho perso tutto la barca e il lavoro. Devo riflettere su cosa fare”.
Tornerà a navigare?
“Non so, devo prima riprendermi dallo choc. Al momento ho mantenuto i nervi saldi anzi incoraggiavo mio figlio e il marinaio. Adesso ripensando a ciò che abbiamo passato, mi tremano le gambe. Mi viene da piangere. Ho perso tutto, ma il denaro non vale una vita”.
Felice de Sanctis