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Voci interrotte Poesie di Beatrice Squeo
15 ottobre 2003

I sognatori “sanno ascoltare le voci interrotte, non barattano gli ideali, non vendono i sogni alla realtà per essere accolti nel suo grembo”. Sono le parole di una sorta di prologo in prosa al bel libro di poesie di Beatrice Squeo, intitolato “Voci interrotte”. Beatrice è una ragazza molfettese di vent'anni; studia lettere moderne e coltiva l'abitudine di comporre versi come una sorta di bisogno interiore, che nasce da un'ispirazione spontanea e fresca, come naturale per la giovanissima età dell'autrice. La silloge, realizzata dalla tipografia Minervini di Molfetta, con in copertina “Gabbiani e frangiflutti” di Cosimo Allegretta e con l'introduzione di Giuseppe Pansini, si apre con “Animo inquieto”, angosciante disamina di quella solitudine che spesso coglie gli uomini dopo una notte insonne, quando si chiudono gli occhi, inumiditi di pianto, all'alba, “in un letto mezzo vuoto”, seminudi. Questa inquietudine, che, talvolta, sembra permeare di sé persino la natura, come l'“iris in balia del vento” di 'Magistrae', cede però, in altri versi, il posto alla gioia, alla vitalità, all'amore per il mondo e per tutte le sue manifestazioni, sentimento tipico di quella categoria di 'sognatori' a cui Beatrice si rivolge. Nasce così “San Lorenzo” e, se il titolo ci rimanda alla tristezza di una poesia pascoliana che tutti conosciamo ('X agosto', la favola nera della rondine che 'cadde tra spini'), per Beatrice la notte delle stelle cadenti (in una sorta di 'panismo' che ci richiama alla memoria certe 'laude' dannunziane) diviene l'occasione per concepire il sogno di una totale immedesimazione con la natura circostante: “Indossai il prato rugiadoso. / Il cielo fu il mio berretto”... Questa poesia, in linea con le tendenze della lirica del '900, si sviluppa, seguendo suggestioni ungarettiane o alla Quasimodo, nel breve spazio di pochi versi, con quella frammentarietà che attinge all'universale perché riesce a cogliere grandi verità e ad esprimerle in modo semplice e illuminante. Così, per Beatrice, la vita si trasforma in una corsa “su un prato di neve e vetri”, corsa che si impreziosisce, giorno dopo giorno, all'alba, quando i sogni svaniscono e la natura appare nel suo magico incanto, d'un timido riflesso d'eternità. È quell'eternità che si può scorgere nel volo “di un gabbiano”, in costante lotta con la Morte, con lo scorrere del tempo che trasforma tutto in larve prive di consistenza. La favola dell'umanità è una “favola triste”; il mondo “corre cieco, logorato dall'impeto di cambiare, poi apre gli occhi e tutto è come prima”. Eppure non si può ignorare la bellezza insita in quegli incontri d'anime che si verificano per puro caso e segnano i nostri giorni in modo inatteso e, talora, indelebile. Resta così il ricordo di “uno sguardo di luce”, “un bouquet di vento” o magari “un bacio di pioggia”. La barriera dell'incomunicabilità si frange: “Se un giorno le porte dei miei silenzi / spalancherai”, “ascolterai anche tu le voci / inudibili del mondo”, “animerai l'invisibile”, “intonerai un canto d'amore interrotto”, “volerai senza ali” (quest'ultima immagine non può non farci pensare a don Tonino Bello). Credo fermamente che la nostra città dovrebbe fare molto di più per valorizzare quei giovani talenti di cui certamente Beatrice Squeo costituisce un esempio evidente per sensibilità e potenzialità creative, tutte doti destinate a crescere con gli anni e l'esperienza. “Se ami, non temere il tramonto: / l'amore è uno scrigno di luce”. Mi vengono in mente dei versi dell'antologia di Spoon River, insieme all'immagine di un ottico (Dippold) che testa l'efficienza di un paio di nuove lenti, con cui si possa vedere luce, soltanto luce, che trasforma il mondo in giocattolo. Forse la luce di cui parlava Edgar Lee Masters non è altro che l'amore. Quell'amore che solo i sognatori e, alla De André, i fannulloni sanno mantenere in vita. Gianni Palombo
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