di Marco de Santis
Ai miei cari alunni del Liceo Pedagogico “Fornari”
Di Gabriele d'Annunzio, Gaetano Salvemini si è occupato in più occasioni, sia come deputato che come studioso. In qualità di storico, ne ha parlato in maniera decisamente negativa, come vero e proprio antesignano dello stile, delle mire e dei riti fascisti, soprattutto nelle Lezioni di Harvard del 1943, raccolte nel famoso volume intitolato Le origini del fascismo in Italia.
Ricostruendo l'assetto politico italiano allo scoppio della prima guerra mondiale, Salvemini ricorda come i nazionalisti sostenessero l'alleanza tra Stato e Chiesa contro il socialismo. Essi parlavano enfaticamente della “più grande Italia” e delle aquile romane nuovamente in volo su tutto il Mediterraneo e al di là delle Alpi. Annunciavano che il destino imperiale dell'Italia era incontrastabile e sollecitavano la creazione di uno spirito guerriero nei giovani italiani, insistendo affinché si agisse subito, non importa dove, con eroica indifferenza al pericolo. «In questo insieme di pensieri e di emozioni Gabriele D'Annunzio», aggiunge lo storico, «iniettò una vena di morbosa sensualità».
Quando, nel settembre del 1914, gli austriaci subirono le prime sconfitte in Galizia e i tedeschi furono fermati sulla Marna, i nazionalisti italiani fecero propaganda per un programma di massimo ingrandimento territoriale. «Il loro capobanda», spiega Salvemini, «era Gabriele D'Annunzio. Questo dilettante di sadiche emozioni stava invecchiando, e la sua arte perdeva il vigore della giovinezza. I suoi scritti di quegli anni fanno pensare ai sogni di gloria, di ricchezza, di sangue e di concupiscenza di un cameriere. Il popolo italiano, con il suo buon senso e la sua innata umanità, non capì mai niente di questo caso di teratologia morale. Tutti coloro che dovettero spiegare agli italiani la necessità di affiancarsi all'Intesa antitedesca mai si servirono dei messaggi che D'Annunzio metteva fuori». Ma all'estero lo scrittore «era conosciuto come il più grande poeta italiano vivente, e sapeva ben lui come promuovere la pubblicità intorno al suo nome. Nessun altro paese ebbe, come l'Italia, la mala sorte di essere rappresentata negli ambienti intellettuali, durante e dopo la guerra, da un uomo che era caduto tanto in basso quanto a perversione morale e mediocrità letteraria».
Nell'aprile del 1919, mentre si trovava alla conferenza di pace di Parigi, il presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson pubblicò su diversi giornali un messaggio ostile alla delegazione italiana capeggiata dal presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando e dal ministro degli esteri Giorgio Sidney Sonnino, che chiedevano l'annessione della Dalmazia in base alle clausole del Patto di Londra e quella di Fiume in base al principio di autodecisione dei popoli. Wilson, che non era vincolato dal Patto di Londra e sosteneva le pretese jugoslave sull'Istria e sulla Dalmazia, chiamava a sostegno della soluzione americana direttamente in causa il popolo italiano, con ciò implicitamente contestando la capacità di Orlando e Sonnino di interpretarne gli interessi. Per l'affronto, Orlando e Sonnino abbandonarono la conferenza di pace e si precipitarono a Roma per chiedere il voto di fiducia, che in effetti ottennero. «Il 4 maggio si tenne a Roma un grande comizio, in cui il sindaco di Roma chiese la Dalmazia più Fiume, e D'Annunzio attaccò grossolanamente Wilson e la moglie, proclamando che “un ritorno a Parigi avrebbe significato il disonore d'Italia”. La sera di quello stesso giorno Sonnino e Orlando partivano per Parigi, senza aver chiesto né ottenuto nessuna condizione, ma semplicemente allo scopo di evitare le rappresaglie che la loro assenza avrebbe provocato».
Durante l'assenza di Orlando e Sonnino, David Lloyd George e Georges Clemenceau si erano divise le colonie tedesche in Africa, escludendone l'Italia. Fu un altro scacco per la nazione, che alimentò il mito della “vittoria mutilata”, una formula demagogica inventata proprio da D'Annunzio. Quando, per l'imperizia mostrata nelle trattative di pace, la caduta del ministero Orlando cominciò ad apparire probabile e Francesco Saverio Nitti «a esser dato come possibile successore, i nazionalisti mobilitarono contro di lui D'Annunzio. Nei giornali del 26 maggio, D'Annunzio denunciava una “congiura” capeggiata da Giolitti e da Nitti, e invocava contro di loro “un castigo diritto come il getto del lanciafiamme maneggiato dall'Ardito”».
Nel giugno del 1919, continua Salvemini, iniziarono a circolare voci di un complotto per un colpo di mano militare: «si sarebbe dovuto sciogliere la Camera dei deputati, e arrestare “i responsabili del disastro del paese”, dichiarare illegali le organizzazioni operaie e iniziare una guerra contro la Yugoslavia. Il Duca d'Aosta (cugino del re), il generale Giardino, D'Annunzio, Federzoni e Mussolini avrebbero fatto parte del complotto; gli “arditi” e gli ufficiali avrebbero costituito le forze di combattimento. Giardino, Federzoni, D'Annunzio e Mussolini smentirono». Anzi «D'Annunzio annunciava di non intessere complotti, ma “nel nome del popolo vero” era pronto ad osare qualsiasi impresa».
L'impresa fiumana era già nell'aria. Infatti il «12 settembre, per impedire che la città di Fiume fosse lasciata alle truppe inglesi e francesi, D'Annunzio, alla testa di un reggimento dell'esercito regolare e di un gruppo di “arditi” che si erano impadroniti di fucili e autoblindo, occupò la città. Dietro di lui si precipitarono a Fiume molti giovani generosi, intossicati dalle frenesie della “vittoria mutilata”, che non cercavano nessun profitto personale e avrebbero fatto qualsiasi sacrificio pur di servire il loro ideale patriottico. Ma vi si precipitarono anche una folla variopinta di avventurieri, che all'umile ed onesto lavoro quotidiano preferivano la spensierata vita parassitaria del servizio militare, senza il rischio di una guerra vera; rivoluzionari pazzoidi, che pensavano che D'Annunzio fosse un Lenin occidentale; uomini d'affari dal passato torbido; cocainomani e prostitute. In pochi giorni D'Annunzio ebbe sotto il suo comando 15.000 uomini, muniti di artiglieria, aeroplani e quattro navi da guerra. Tre generali, Maggiotto, Ceccherini e Tamajo, passarono apertamente dalla sua parte. […] La stessa cricca di ufficiali superiori e uomini politici che nel 1919 favorì D'Annunzio, doveva favorire Mussolini nel 1921 e nel 1922: la “marcia su Fiume” del 1919 fu il precedente della “marcia su Roma” del 1922. A Fiume le scorte che erano state una volta di proprietà del governo austriaco e che alla fine della guerra erano ammassate nei magazzini militari, caddero nelle mani dei “cortigiani” di D'Annunzio. In una città di 39.000 abitanti, di cui 15.000 slavi, tremila cittadini italiani di Fiume divennero impiegati del “governo”. […] Durante i quindici mesi in cui Fiume rimase sotto il controllo di D'Annunzio, questi tremila impiegati e tutti coloro che piombavano a Fiume da ogni parte d'Italia formarono il così detto “Partito italiano” di Fiume. Da parte sua D'Annunzio aveva fondato uno stato totalitario, e un solo partito aveva diritto di esistenza, quello di D'Annunzio. Nell'ottobre vi fu un “plebiscito” talmente truccato, che in una città dove si trovavano 15.000 slavi ostili a D'Annunzio egli raccolse la “unanimità” dei voti. Quando nel dicembre ci mancò poco che un altro “plebiscito” rivelasse a D'Annunzio che la popolazione era stanca di lui, gli “arditi” si impossessarono delle urne e impedirono il conto dei voti. Nella città fu decretata la pena di morte immediata per tutti coloro “che professavano sentimenti ostili a Fiume”. La pratica di costringere chi portava nel cuore sentimenti impuri a bere l'olio di ricino, fu inventata dai “legionari” di D'Annunzio a Fiume. […] La canzone “Giovinezza” e il cosiddetto saluto romano, fatto sollevando per aria la mano destra, erano durante la guerra la canzone e il saluto degli “arditi” e furono adottati a Fiume. Le adunate all'aria aperta, nelle quali il capo pone delle domande e la folla, alzando la mano destra, grida “Sì” o quanto altro è stato prefabbricato, furono usate da D'Annunzio a Fiume. La città anticipò sino al più piccolo particolare tutto quanto doveva accadere in Italia dopo la conquista fascista».
Quanti non avevano ancora capito la gravità della congiura militare – nota Salvemini – dovevano comprenderlo il 23 novembre 1919, quando il governo lasciò che i giornali pubblicassero la notizia che «il 14 D'Annunzio aveva lasciato Fiume dirigendosi su una nave a Zara, capitale della Dalmazia, senza che la flotta italiana facesse niente per fermarlo, e che a Zara il vice ammiraglio Millo, governatore della Dalmazia inviato dal governo italiano, lo aveva ricevuto con solenni onori, dandogli pubblicamente la sua parola d'onore che non avrebbe mai abbandonato la Dalmazia». Alla nuova Camera uscita dalle elezioni novembrine del 1919, Salvemini, eletto deputato nella lista dei Combattenti, nella seduta del 21 dicembre, puntò l'indice sui rapporti tra il governo civile e le più alte cariche militari. Chiese come mai il governo non avesse punito né il generale Diaz, per non aver impedito l'impresa di Fiume, né il vice ammiraglio Millo, per aver dato la sua parola d'onore a D'Annunzio macchiandosi di insubordinazione.
Finché D'Annunzio mantenne a Fiume la sua “reggenza del Carnaro”, cercò sempre di approfittare dei disordini spontanei che si verificarono dovunque durante il “biennio rosso”. Nei primi del 1920 s'intrecciò a Firenze una cospirazione segreta. Il segretario generale del sindacato Lavoratori del mare Giuseppe Giulietti, d'intesa con D'Annunzio, annunciò in una riunione che «tutti i comandanti militari che avevano il comando dei reggimenti posti tra Fiume e Roma, erano fedeli a D'Annunzio e pronti a marciare su Roma; i deputati repubblicani e alcuni deputati socialisti erano d'accordo; la organizzazione segreta che doveva organizzare la marcia su Roma si chiamava “Sagra Lampa”. Gli altri partecipanti sostennero che il momento non poteva riuscire senza l'appoggio della Confederazione generale del lavoro. Giulietti si incaricò di tastare il terreno. Uno dei leaders della Confederazione era d'accordo, ma gli altri rifiutarono. In tal modo la “Sagra Lampa” fu spenta. Ma D'Annunzio non si scoraggiò per questo. Tra il 26 e il 29 giugno 1920, ad Ancona i soldati si rifiutarono di partire per l'Albania. Il 28 giugno, un emissario di D'Annunzio, il tenente Claudio Mariani, si recò ad Ancona latore di un messaggio di D'Annunzio, del generale Ceccherini e del maggiore Santini, con cui D'Annunzio metteva a disposizione dei soldati rivoltosi “tutte le forze comuniste (sic) di Fiume”».
In un altro discorso al Parlamento, tenuto il 7 agosto 1920, Salvemini sollevò la questione del malgoverno dannunziano: «Fiume, signori, è diventata un centro di disonore e ridicolo per l'Italia. […] Il comando di Fiume è diventato un lupanare. Anche recentemente vi fu una terribile lite tra due amanti del poeta, con grandi urli e strappi di capelli e rotolamenti per terra in una sala del comando. […] Un capitano Pasetti teneva un postribolo: e lo teneva in uniforme, insieme con l'attendente. Una stanza era riservata al comandante, e sulla porta era posto un cartello: Comando. […] Tra gli amici che hanno accompagnato il poeta, il capitano Mangano ha rubato 930 mila lire alla cassa; altri ufficiali di fiducia hanno rubato 100 mila lire. Dalla sottoscrizione per Fiume furono sottratte da Mussolini 480 mila lire per le spese elettorali». I soldi presi da Mussolini corrispondono a circa 700 milioni del 1997 e a oltre 360 mila euro attuali.
Per Fiume in effetti era stato raccolto tra gli italiani degli Stati Uniti un milione di lire, che tramite Mussolini doveva essere inviato a D'Annunzio. Mussolini mandò 520 mila lire allo scrittore e trattenne per sé 480 mila lire, anche per pagare i gruppi di uomini armati da lui assoldati per intimidire o sopprimere i socialisti durante la campagna elettorale. Dopo il discorso parlamentare, Mussolini cercò di tacitare Salvemini sfidandolo a duello, ma il duello non ebbe corso per una richiesta d'indagine sul danaro fatta dai secondi di Salvemini ai padrini di Mussolini, che ovviamente non accettarono.
Nell'intervento alla Camera del 7 agosto 1920, Salvemini continuò la sua requisitoria contro l'Imaginifico: «Lo stesso nome di D'Annunzio è per l'estero causa di discredito per l'Italia. Perché chi conosce bene la lingua italiana può gustare i versi e le prose di D'Annunzio per le veneri della forma; ma per chi non conosce l'italiano e ha letto solamente i peggiori romanzi, e spesso mal tradotti, D'Annunzio non è che il romanziere delle sfrenatezze sessuali e degli amori incestuosi». Quanto alla tragedia dannunziana La figlia di Jorio nel libro su Le origini del fascismo in Italia Salvemini scriverà che contrariamente «a molte opere di D'Annunzio questa non presenta nessun caso di perversione sessuale, ma solo di una passione sfrenata indifferente ad ogni legge morale».
La questione di Fiume fu liquidata da Giolitti il 12 novembre 1920 col trattato di Rapallo, stipulato tra il ministro degli esteri Carlo Sforza e i rappresentanti jugoslavi. Con esso il governo di Belgrado riconosceva all'Italia Gorizia, Trieste e l'Istria fino alle porte di Fiume, mentre il governo italiano lasciava alla Jugoslavia tutta la Dalmazia, tranne Zara, che veniva annessa all'Italia. Fiume, invece, venne dichiarata città libera. «D'Annunzio», annota Salvemini, «da Fiume proclamò che piuttosto che arrendersi sarebbe morto. Ma quando si rese conto che il governo faceva sul serio, dichiarò che l'Italia non era degna che lui si sacrificasse per essa, e si ritirò».
La “marcia su Roma” del 28 ottobre 1922 originariamente era stata fissata per il novembre del 1921. «Con il pretesto di celebrare l'anniversario della vittoria italiana (4 novembre), un gran numero di fascisti doveva raccogliersi a Roma; sarebbe stato presente D'Annunzio, il quale avrebbe dovuto tenere un discorso memorabile e mettersi poi alla testa dei fascisti per congedare i ministri e proclamarsi dittatore. Ma all'ultimo momento il poeta non si fece vedere». Il ministro della guerra Ivanoe Bonomi «lo aveva corrotto con una forte somma di cui doveva servirsi per soccorrere i veterani fiumani. D'Annunzio che era il veterano più eminente si tenne per sé tutto il denaro».
Il vate si ritirò poi a Gardone Riviera nella villa di Cargnacco da lui ribattezzata “Il Vittoriale degli Italiani” ed eretta ad automuseo. Da allora il suo posto di condottiero delle camicie nere fu pienamente occupato da Mussolini, ormai l'unico e indiscusso capo fascista: “il Duce” per antonomasia.
Nella foto: Un discorso di Gabriele D'Annunzio dal palazzo della Reggenza alla popolazione di Fiume (sett. 1920). Sarà il modello per i “bagni di folla” di Mussolini in Piazza Venezia a Roma.