Quando Felice mi ha mandato una mail per ricordarmi di scrivere qualcosa per i primi dieci anni di Quindici, ho subito spento il pc e aperto lo scaffale in cui conservo tutti gli articoli scritti per la redazione (una cinquantina in tutto), domandandomi da quanto tempo io mi fossi imbarcata in questa avventura. Da dieci anni anch'io, che ne ho venticinque, mi sembrava un dato veramente improbabile. Così ho ripreso quella “lettera al direttore” che inaugurò la mia collaborazione con il giornale e che, a rileggerla oggi, mi fa una tenerezza incredibile, e ho guardato la data di quella pagina 8 su cui fu pubblicata: 18 marzo 1995. Nove anni, insomma. È da nove anni su dieci che faccio parte di “quelli del ventilatore”. Da non crederci.
Raccontare come mi sono avvicinata a Quindici significa, per me, ricordare una domenica di febbraio in cui mio zio Michele (l'infaticabile diessino di famiglia) mi accompagnò alla Sala dei Templari e mi presentò Felice de Sanctis, l'egregio direttore, dicendogli “Felì, chess vol fa la giornaliste. Vait tau ce put fa”. Erano gli anni in cui a Molfetta si riprendeva a sognare e io, benché appena adolescente, percepivo in modo chiaro quel clima di possibilità e quell'aria nuova. L'aria dei tempi in cui il ventilatore era attivo e funzionante a pieno ritmo, e noi tutti sotto a prenderci il vento in faccia felici e contenti. A me, allora sedicenne, sembravano quelli gli anni giusti in cui iniziare a chiedere ad alta voce cose che finalmente, forse, qualcuno sarebbe stato ad ascoltare.
Così nacque quella lettera arrabbiata e lamentosa, che Felice pubblicò in grande stile, con il pennacchio sopra, nove anni fa. Qualche settimana dopo, andai in redazione per ringraziarlo della grande occasione che mi aveva dato, di esordire in quel mondo del giornalismo che sarebbe diventato, poi, il centro dei miei studi e anche (quantomeno in parte) la mia professione. Lui, però, cambiò subito argomento e mi disse implacabile: “Nella tua lettera chiedevi spazio, per te e per i giovani di Molfetta. Allora avevo pensato di darti una rubrica. Vorrei chiamarla Pianeta Giovani. Ci puoi scrivere quello che vuoi. Mi fido. Te la senti?”. Era la seconda volta che lo vedevo, Felice. E subito mi balzò agli occhi, chiara, la sua più grande qualità (che è, poi, anche il suo limite più evidente): l'incoscienza. Mi dissi che si era sbagliato, forse, e invece una settimana dopo mi chiamò a casa e mi disse semplicemente: “Allora? Con cosa cominciamo?”. Così mi misi al lavoro, e ne venne fuori un articolone lunghissimo che era una specie di prosecuzione della lettera lamentosa di cui sopra: La paura di essere accettati. Quando lo rilessi, pubblicato con tanto di titolone, mi prese un colpo. Sembrava un sermone, intriso di citazioni della mia allora amata Oriana Fallaci. Eccessivo e trabordante. E anche quella targhetta “Pianeta Giovani”, sulla pagina, mi risultò subito un tantino pretenziosa. Mi convinsi che nessuno avrebbe mai fatto caso a quel mio polpettone indigesto. Qualche giorno dopo, però, partecipai a un incontro al Palazzetto dello Sport, uno dei primi, indimenticabili incontri che inauguravano il Progetto Giovani, e mi vidi bussare sulla spalla lei, nientepopodimenochè l'Assessora, Maria Pia De Candia che, con il suo capello corto e le sue conferenze sull'educazione alla sessualità nelle scuole occupate, si era guadagnata tutte la simpatia e la reverenziale venerazione di noi studenti medi. “Bello l'articolo, Paola. Pieno di spunti”, mi disse l'Assessora. E io mi squagliai dall'emozione (Maria Pia De Candia, l'Assessora, si era letta un mio articolo!) e capii che Quindici era davvero uno strumento di partecipazione da non sottovalutare, un foglio vivo, che passava di mano in mano, di corridoio in corridoio, di famiglia in famiglia, di partito in associazione. Un giornale vero e proprio, che faceva informazione locale, certo, ma anche, da buon giornale legato al territorio, che promuoveva lo scambio di opinioni e il pubblico dibattito (in una Molfetta – va ricordato – che ha visto, negli anni a venire, chiudere tutte le sue tv locali, indebolirsi tutte le sue realtà radiofoniche – Radio Idea a parte, credo - e rispondere a questo vuoto pneumatico dell'informazione cittadina con riviste pur meritevoli negli intenti, ma comunicativamente deboli e, nella lettura, ai limiti dell'incomprensibile).
Così, con entusiasmo, la mia avventura a Quindici è continuata. In molti momenti, è vero, mi sono sentita (e forse sono stata) molto “giornalista di area”, una guglielmina doc, per usare una simpatica espressione cara ai detractores. Questo è accaduto soprattutto con la lunga serie di articoli scritti sulle Feste dei Giovani del giugno e del settembre '96, manifestazioni che promossi in prima persona, come membro dell'allora rinato movimento studentesco molfettese, e che non smetterò mai di difendere e incensare senza ritegno. L'unicità di quella esperienza, infatti, andrebbe ancora oggi ribadita, ricordata e analizzata, in quanto palestra di politica e di partecipazione per tanti giovani ed esperienza di municipalità partecipata ante litteram, in cui a un manipolo di vivaci ragazzi furono aperte le porte degli assessorati e mostrati i registri dei bilanci, furono date scrivanie e telefoni, fu delegata la scelta di qualsiasi cosa, dalla posizione degli stand al nome della band da far esibire, dal colore dei manifesti ai testi da scriverci sopra.
Chi pensa, però, che Quindici sia solo un giornale di area, ad informazione controllata da chissà quale oscuro manovratore, si sbaglia di grosso. Bastino, a riprova della più totale mancanza di censura, due piccoli esempi personali, uno dell'ultimo periodo del GuglielmoMinerviniBis e l'altro dell'estate 2000: l'articolo Concerto di Battiato, una contestazione fondata e il pezzo Niente da festeggiare. Nel primo caso si attaccava duramente una iniziativa fortemente voluta e difesa dall'allora sindaco Guglielmo Minervini, in cui erano stati stanziati 40 milioni di vecchie lire per un evento quasi a porte chiuse; nel secondo si criticava duramente la scarsa capacità di iniziativa della sezione cittadina dei Ds, promotrice di una Festa dell'Unità più che deludente. I due articoli non erano affatto rispondenti alla linea editoriale del giornale, ma sono passati lo stesso, senza che nessuno abbia modificato una sola virgola. È cronaca anche questa.
Dal 1997 ho lasciato Molfetta per trasferirmi a Roma e la mia collaborazione con Quindici si è, come ovvio, assai diradata. Il giornale, dal canto suo, negli anni, si è trasformato non poco. È passato per qualche divorzio e qualche calo di tensione forte, proprio come la sinistra cittadina, e la redazione si è un po' svuotata, come i partiti del centro-sinistra.
Ho provato a convincere molti amici a fare un salto in redazione per contribuire con nuove idee e nuove forze a questo importante organo di informazione. Spesso la risposta che ho ricevuto è stata proprio "Non potremmo scrivere liberamente quello che pensiamo". E questa è cosa falsa, perché tra i tanti difetti della nostra redazione questo è l'unico, forse, impossibile da riconoscerci. È solo un pregiudizio; un alibi immediatamente
confutabile, se messo alla prova dei fatti.
Al contrario, quella che Felice ancora oggi tiene in piedi, insieme a Lella, Giulio, Tiziana e gli altri, è una redazione libera e soprattutto aperta, che non ha regalato a Molfetta "solo" cento numeri di informazione onesta e qualche giornalista pubblicista in più, ma ha dato corrente costante a quel ventilatore che ancora oggi continua a girare a piene pale.
In un momento, infatti, in cui molte forze della sinistra locale sembrano ancora tramortite e incapaci di rialzarsi, i volontari della penna che hanno prestato tempo, inchiostro e pazienza a questo giornale non hanno mai staccato la spina.
Paola Natalicchio