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Sfaccimmo sarà lei I nostri detti memorabili
15 marzo 2003

di Marco de Santis Un conoscente, congratulandosi spontaneamente – bontà sua – col mio recentissimo lavoro Perché si dice così?, mi ha chiesto se potevo documentare, come per i detti lì riportati, l’uso del termine sfaccimë nella società molfettese del passato e quindi risalire all’etimologia della parola. Pensando di cavarmela a buon mercato, gli ho risposto che il termine in passato è stato sicuramente adoperato a Molfetta, dove è tuttora in uso, tanto è vero che si trova registrato nel lessico dialettale di Rosaria Scardigno. Quanto all’origine della parola, gli ho detto papale papale che le etimologie non si trovano così su due piedi, ma che hanno bisogno di un po’ di tempo perché si venga a capo di qualcosa di valido, almeno nei casi meno ardui e disperati. Il conoscente ha replicato che sarebbe stato bello disporre di un riferimento più articolato di un semplice lemma di vocabolario e che comunque l’etimologia di sfaccimë lo incuriosiva parecchio e quindi mi pregava di cercare tra i libri e di pensarci su. Io gli ho promesso che per l’etimo ci avrei sicuramente pensato, per la documentazione avrei perlomeno tentato e mi sono accomiatato da lui. Nelle sempre più risicate horae subsicivae, ho provato di tanto in tanto a scartabellare diversi opuscoli e volumi, ma su sfaccimë non ho trovato nessun aneddoto o frammento curioso a livello locale. Quando ormai disperavo di incocciare qualcosa di passabile, un po’ di tempo fa, mentre facevo ricerche con tutt’altro scopo in biblioteca, senza alcun merito, ma per pura e sfacciata fortuna, ho visto capitarmi sotto gli occhi due pezzi sullo stesso fatto di cronaca “nera” che facevano al caso. Gli articoli in questione riguardano un mancato regolamento di conti della piccola malavita cittadina e provinciale ed apparvero sul Corriere delle Puglie del 12 e del 16 febbraio 1906. Il primo fu siglato da Ernesto Zicolella; il secondo non risulta firmato. Ecco la storia. Tra Giuseppe Cirillo e Mauro Murolo da una parte, e il «vigilato speciale» Michele Altizio e il pregiudicato Gennaro Loiacono dall’altra, c’era una vecchia ruggine. Il 9 febbraio 1906, mentre a Molfetta, nella cantina di Pasquale Mininni, il Cirillo e il Murolo si trastullavano tracannando vino da buoni compagnoni, verso le ore 16 sopraggiunsero l’Altizio e il Loiacono. Certo qualcuno aveva fatto la spiata o era stato sguinzagliato in avanscoperta, avvertendo gli ultimi due. Entrato col compare nella bettola, l’Altizio si rivolse al Cirillo e lo apostrofò: — Sfaccimmo, a noi niente ci date? — Alle parole dell’Altizio, il Loiacono estrasse una rivoltella e, puntandola verso il Cirillo, gli disse: — Ti ricordi? Avevo promesso di spararti, e ora è arrivato il momento! — Ciò detto, fece partire un colpo. Per fortuna del Cirillo, il Loiacono non aveva una buona mira. Infatti il proiettile mancò il malavitoso. Però malauguratamente ferì a un braccio il figlio undicenne del cantiniere, Corrado Mininni, che in quel momento si trovava lì vicino. Ci fu un parapiglia, ma dopo la detonazione dell’arma accorsero prontamente quattro guardie municipali. Ho scritto “prontamente”, perché i vigili o erano già sulle tracce dei sorvegliati o erano stati messi in allarme da movimenti sospetti o erano stati avvisati da qualcuno. I «rissanti» stavano già per darsi alla fuga, ma furono bloccati dai vigili e arrestati. Per la cronaca, le «brave guardie» erano Pasquale Minervini, Giuseppe Cecchini, Antonio Tempesta e Giovanni Lo Basso. Il ragazzino ferito se la cavò con «una lesione all’avambraccio sinistro giudicata guaribile in dieci giorni». Fin qui la cronaca locale. Che dire ora dell’etimologia di sfaccimë? Partiamo dal significato. Il termine, che naturalmente non è solo molfettese, ma ampiamente meridionale, significa ‘feccia, avanzo, rifiuto’. Per traslato vale ‘carogna, delinquente, farabutto’. Si tratta perciò di un grave insulto, come si ricava pure dal fattaccio cronachistico, ma la parola trova anche impiego nel linguaggio furbesco col senso di ‘aggeggio, utensìle, strumento’, ad esempio: assì fóërë u sfaccimë (tirò fuori l’arnese), e viene pure adoperata in qualche locuzione, perlopiù in contesti d’ira o d’iperbole, per esempio: dêmmë curë sfaccimë dë mêrtìëddë! (dammi quel caspita di martello!), nu sfaccimë d’ómënë (un pezzo d’uomo, un omaccione) ecc. Se teniamo dunque conto del significato di partenza, sfaccimë potrebbe derivare da ‘feccìme’ per ‘fecciùme’, da un latino volgare (non documentato) *f a e c i m e n, a sua volta dal latino classico f a e x, f a e c i s ‘feccia (in senso proprio e figurato)’. Il prefisso sottrattivo s- (lat. d i s-) potrebbe facilmente essersi agglutinato al termine considerato sul modello di parole come sfacciare e sfacciato. In Puglia, a Molfetta, Giovinazzo, Bari, Bisceglie, Margherita di Savoia, Manfredonia, Bitonto, Terlizzi, Grumo Appula e altre città, prevale il suffisso con una sola –m–, ma a Barletta, Minervino Murge e altrove è attestato il suffisso con la consonante nasale bilabiale raddoppiata (sfaccimmë), come in Campania. Infatti a Napoli la voce suona sfaccimmë ed è usata sia al femminile sia al maschile col significato di ‘sperma’ e di ‘uomo da nulla, furfante’. In quest’ultimo senso è usato da Carlo Emilio Gadda nell’opera Il primo libro delle favole. Perciò, fate attenzione: se qualcuno dovesse darvi dello “sfaccimmo”, rispondetegli per le rime: — Sfaccimmo sarà lei! —.
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