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“Per Luigi non odio né amore”
15 settembre 2020

Nonostante la sua fresca età, Gianni Antonio Palumbo è un narratore di lungo corso. Infatti ha esordito a vent’anni col romanzo “nero” I fantasmi di un poeta (1998), dandosi poi al genere fantasy col romanzo Krankreich. Tramonto di un sogno (2000), vincitore del Premio “Valle dei Trulli” per la “Letteratura giovane”. L’itinerario è proseguito col romanzo «minimal-metafisico» Eternità. La leggenda di Destino e Sospensione (2003) e con la bella silloge di racconti Il segreto di Chelidonia (2014). Redattore di «Quindici» e «Luce e Vita», professore di lettere e latino al Liceo “Matteo Spinelli” di Giovinazzo, docente esterno a contratto presso l’Università di Foggia per Metodologia della critica letteraria e Filologia della Letteratura italiana, direttore artistico della “Notte bianca della Poesia”, intenditore d’arte e raffinato critico letterario, Gianni Palumbo è uno specialista della cultura umanistico-rinascimentale, segnalatosi tra l’altro come editore critico delle Rime di Isabella Morra (2019). La sua poliedricità è resa più sfaccettata dalla raccolta di poesie Non alla luna, non al vento di marzo (2004) e da numerosi testi teatrali, alcuni dei quali pubblicati dal 2011 al 2014 sulla rivista «La Vallisa» (Lena, Il diavolo a cavallo, Chi ha paura delle ombre?, La preghiera di Eleonora). La produzione narrativa di Palumbo è stata incrementata nel luglio del 2020 dal romanzo Per Luigi non odio né amore, pubblicato dalla casa editrice “Scatole Parlanti” del Gruppo Utterson di Viterbo (pp. 204, € 15). Esigenze editoriali classificano in copertina quest’opera come “giallo”. Più esattamente il romanzo va inquadrato nel subgenere “noir”, ma le forti implicazioni introspettive e pulsionali lo avvicinano molto al romanzo psicologico. Da dove proviene il titolo di quest’opera? Proviene dal discorso di Robespierre per la condanna a morte di Luigi XVI: «… non ho per Luigi né amore né odio. Odio solo i suoi delitti». La frase viene pronunciata dallo studente Giulio Ancona per la fine del prof. Enrico Verdi, precipitato dalla torre campanaria della chiesa della Maddalena nella cittadina immaginaria di Candevari, in provincia di Brindisi. Viene poi ripetuta dal giovane, geniale e tormentato docente di disegno Mattia Landi nei confronti del coltissimo accademico Arturo Molteni, plagiatore di coscienze fanatico di Robespierre e uomo occultamente violento. Il titolo, insomma, allude all’atteggiamento di distacco dell’autore nei confronti del milieu descritto, pregno di vessazioni militaresche, tensioni sociali e violenze varie, in una densa mescidanza di amore, sesso e morte, cui fa da contraltare il «paese innocente» delle proprie bambine, dedicatarie dell’opera. Tutto accade nel 1978, anno del processo alle Brigate rosse, del rapimento e assassinio di Aldo Moro, della legge sull’aborto, delle dimissioni del presidente Leone a causa allo scandalo Lockheed e dei pontificati di Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. Per ovvi motivi, la trama può essere solo accennata, ma basti sapere che in quel contesto storico a Candevari, dove al di là dei trulli del borgo vecchio, si ergono l’Istituto “Principe Amedeo”, ricetto di orfani problematici provenienti da vari luoghi d’Italia, e l’Accademia Amaranta, prestigioso collegio per adolescenti della ricca borghesia, la sparizione di Mattia Landi mette in moto le indagini del commissario Giuseppe Fano e della più sagace collaboratrice Marta Salvo. La donna, abbandonata da tempo dal marito, finisce per subire il fascino di Giulio Ancona, violinista provetto e allievo prodigio dell’Amaranta, la cui bellezza nasconde tuttavia un malvagio «cuore di ghiaccio». In un movimentato susseguirsi di vicende, si assiste all’incendio di un’area della biblioteca dell’Amaranta, al mistero di un’ombra femminile amante dei lepidotteri che si aggira di nascosto nella stessa biblioteca, al tragico volo del prof. Verdi, alla morte della sedicenne Fiorella Giudice in séguito a un fallito stupro di gruppo, ai perfidi intrighi del prof. Molteni, all’infatuazione omosessuale di suo figlio Salvo, alla follia e alla rovinosa caduta della sua seducente figlia Eleonora e via dicendo. Il romanzo di Gianni Palumbo presenta un impianto plurilinguistico che nel sorvegliato dettato italiano innesta, a seconda dei personaggi, frasi rumene, motti e versi latini, espressioni dialettali brindisine e certi guizzi crudamente realistici della parlata bassa o giovanile. Non mancano citazioni colte letterarie, musicali ed entomologiche, come gli accenni all’Attacus atlas, la tropicale farfalla cobra, o alla Gonepteryx cleopatra, la mediterranea farfalla cleopatra, alle quali fa riscontro la spilla con una farfalla nera sottratta da un ragazzo dell’Amaranta alla Giudice ormai morta, il cui ritrovamento in un cassetto è contemporaneamente sconvolgente e risolutivo per la dottoressa Salvo. La costruzione narrativa del romanzo si avvale sapientemente di descrizioni, dialoghi, lacerti onirici, retrospezioni, mutamenti di focalizzazione con pagine di diario, una lettera e un verbale, ma attinge anche al flusso di coscienza e a calibrate riprese di blocchi testuali circoscritti, finalizzati all’illuminazione di momenti anteriori durante rimuginamenti rivelatori. In un alternarsi di colpi di scena, il plot si dipana avvincente con un ben dosato climax ascendente, conquistando il lettore con una storia intricata e intrigante. © Riproduzione riservata

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