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Osare la pace: il Vangelo radicale di don Tonino Bello Nichi Vendola alla Fondazione Valente nel trentennale del Venerabile
15 aprile 2023

La guerra odia la pace, non solo la ammutolisce e la spezza, ma la diffama, la sporca, cerca di delegittimarne la voce. Lo imparò sulla propria pelle don Tonino Bello, che non tacque dinanzi al ritorno in grande stile della guerra e che fu trattato come un disertore e un disfattista dalla grande stampa e dal potere politico. La denigrazione morale del pacifismo era allora ed è oggi il segno di un cupo riflesso illiberale, di una grave miopia culturale: per la semplice ragione che in un evo contemporaneo così disumanizzato e militarizzato il pacifismo è l’unica riserva di futuro, l’unica risorsa di salvezza, è la memoria e la traccia della civiltà. La pace è un’idea alta e rivoluzionaria di organizzazione delle relazioni tra gli individui, i popoli e gli Stati. Perché disarmare l’economia, la politica, le nazioni, appare sempre più l’unico realismo accettabile dinanzi all’incombere della catastrofe. Ma quando la politica cede il trono alle armi, il pacifismo turba e disturba: perché è il disvelamento della menzogna implicita in ogni guerra, perché pone una domanda aperta e ineludibile sui destini dell’umanità. E chiede di essere preso sul serio e non strattonato dai cingolati del pensiero unico. A che serve o a chi serve rappresentare il pacifismo come intelligenza col nemico, diserzione, fuga ingenua dal dovere di cavalcare la storia? Forse il racconto delle armi, oggi a Kiev come ieri a Bagdad o a Kabul, non tollera controcanti? Evidentemente la guerra ha bisogno di uomini in uniforme e di pensieri uniformi. Diciamo la verità: la forza dell’anti-pacifismo è nell’essere un prodotto speciale della “dittatura del presente”, nel suo inibire qualunque percorso di approfondimento del passato (per esempio le cause oppure le conseguenze di un conflitto armato) e contemporaneamente nel suo vietare qualsiasi idea di futuro che non sia la replica delle medesime politiche di potenza che, com’è noto, portano in pancia gli embrioni della guerra. Non abbiamo mai potuto fare un bilancio di verità delle guerre fatte. Come se fingessimo di non sapere come è andata a finire in Iraq, in Afghanistan, in Libia, in Siria, nei Balcani. Non solo i profeti, anche gli storici devono tacere: è vero o no che le guerre nascono da bugie e con le bugie crescono? E quando le bugie sono conclamate occorre cambiare argomento prepararsi alla prossima guerra, visto che l’unica economia che non conosce crisi è quella della compravendita di armi. E in ciascuna guerra, come un filo rosso che tutte le lega, sempre si è aperto il fronte incandescente della caccia ai pacifisti. Il Vescovo di Molfetta fu messo in croce perché non tacque, non si piegò al clima di intimidazione e di falsificazione di quella leva obbligatoria che comandava il reclutamento della pubblica opinione. Lui sapeva che solo un cammino di pace può condurre i popoli della terra verso mete di giustizia, di eguaglianza, di liberazione. Lui fu messo in croce perché la guerra, appunto, detesta la pace. E non si accontenta solo di combattere in trincea. Vuole vincere nelle retrovie. Vuole la resa culturale. L’unico disarmo consentito è quello dei nostri cervelli. Per questo parlare di don Tonino non può essere un fatto meramente commemorativo o un rito di nostalgia: le sue parole, nella loro disperante attualità, ci servono come lanterne per illuminare i nostri passi in questi giorni di buio, per non smarrirci in questa troppo lunga notte della disumanità. La “buona novella” di don Tonino Bello non fu mai una retorica di consolazione né un galateo della fede, non fu una costellazione di parole belle e possibili, tonde e prudenti, spirituali e concilianti: neppure fu l’enfatico annuncio di un risarcimento ultraterreno per le nostre pene mondane: nel suo “ordine del discorso” l’annuncio evangelico fu innanzitutto amore per i poveri, semplice e diretto come quello del poverello d’Assisi che si fa fratello dei lebbrosi e testimonia la santità dello spogliarsi dei beni mondani. Fu dunque abbraccio scandaloso all’umanità derelitta che vive e muore ai margini della nostra opulenza borghese. Fu la ricerca di Cristo non solo nella cavità di un tabernacolo o nella friabile trasparenza di un’ostia, ma nei corpi macilenti degli ultimi, nei volti sgomenti delle vittime di ogni sorta di violenza, di quelli che pure con inconsapevole saggezza chiamiamo “poveri cristi”. Ma fu anche la denuncia senza reticenze delle leggi economiche che distillano ricchezza per pochi dal lavoro povero dei molti, fu analisi puntuale delle “strutture di peccato” che investono sulla guerra e sul commercio di armi e che proiettano fin su nell’alto dei cieli un progresso cupo e cannibalesco di tecnologie militari e di minacce globali. Il mite sacerdote nato ad Alessano, nella struggente e poetica umiltà di un Salento di contadini e di pescatori, di muretti a secco e di fichi d’india, in quella punta estrema dell’Europa me-diterranea che è una “fine del mondo”, quell’uomo alto, atletico e dai modi dolcissimi, nel suo cammino pastorale ha anticipato di almeno un quarto di secolo temi, sfide, parole-chiave, gesti che avrebbero poi costituito, negli anni che stiamo vivendo, tanta parte del magistero di Papa Francesco: di un pontefice venuto anche lui da una “fine del mondo” e come don Tonino considerato un “eretico” dall’ala più estremista del cattolicesimo conservatore. Bergoglio non ha collocato il Concilio Vaticano II in una campana di vetro, in una ostensione formalistica e celebrativa, ma lo ha messo sulle spalle di una Chiesa impigrita, secolarizzata, tentata dai diavoli del potere, affinché re-imparasse dal Vangelo le beatitudini spesso tradite della povertà, della giustizia, della mitezza, del dovere di testimoniare le parole della salvezza anche rischiando il martirio. Così era la Chiesa sognata e incarnata da don Tonino: fondata sulle beatitudini evangeliche, abitata da costruttori di pace, non appesantita dai segni del potere ma carica del potere dei segni, pronta ad abitare il disagio della croce piuttosto che la comodità del trono, vestita con i paramenti del grembiule e pronta a genuflettersi dinanzi all’altare maggiore dei piedi dei poveri, mai serva dei potenti ma serva di un Dio che è charitas sine modo, che cioè è smisuratezza dell’amore, che è accoglienza del molteplice e del multiverso, che è potenza del custodire, del curare, del salvare, del conoscere, del farsi prossimo. Un Vangelo radicale quello che chiede non solo di consolare gli afflitti, ma di affliggere i consolati, di incalzare la politica con domande esigenti, di abbattere i muri di quei pregiudizi e luoghi comuni che spezzano l’unità del genere umano, di scacciare i mercanti dal tempio e di liberare la casa di Dio dal peccato dei “sacri affari”. Questo Vangelo fu la vita stessa per Monsignor Bello, Vescovo della parresia e profeta della scomodità, che entrò nelle nostre parrocchie e nelle nostre case – a Molfetta, Giovinazzo, Ruvo e Terlizzi – portando conforto, scompiglio, stupore, speranza, misericordia e scandalo: lo scandalo di un’apertura incondizionata all’ascolto dell’umano, all’etica dei volti, a quella “convivialità delle differenze” che sarà l’espressione scultorea con cui spiegherà il più ostico e misterioso dei dogmi: quella della trinità, quella di un Dio uno e trino. E se si cercano miracoli nella “carriera” ecclesiastica di don Tonino se ne possono trovare in abbondanza, diversi da quelli che evocano più la magia che non la fede religiosa: non apparizioni di madonne piangenti o prodigi spettacolari, bensì i miracoli di un amore incondizionato per l’umanità, non evocata come concetto astratto ma incontrata per strada. E sulle vie dei mondi crocifissi lui seppe asciugare le lacrime a tante Marie, di Nazareth e di altri cento luoghi, e nei sottoscala della storia seppe sciogliere il sangue di tanti oppressi dal vincolo dell’indifferenza. E il suo miracolo fu la parola coerente col gesto: disse accoglienza e l’episcopio di Molfetta accolse sfrattati, migranti, senza fissa dimora, sbandati. Portava incisa nel suo cuore la parabola del buon Samaritano (Luca 10,25-37), il quale, dinanzi ad un uomo aggredito dai briganti, è capace di vivere tutti i verbi della charitas: lo vide, ne ebbe compassione, gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, lo caricò sul suo giumento, lo portò con sé, si prese cura di lui. Don Tonino era impressionato dalla potenza di quel crescendo di verbi, una sorta di summa teologica dell’eresia cristiana: erano tutti i verbi dell’approssimazione, parola indagata nei sotterranei della sua felice complessità dallo sguardo “meridiano” di un grande pensatore come Franco Cassano; farsi prossimo, non solo aiutare il prossimo, ma molto di più: farsi prossimo, mutarsi in icona di fraternità. Come non pensare a quel folgorante aforisma di Adorno che dice: “l’amore è scorgere il simile nel dissimile”? E in quello stesso racconto di Luca, a fronte della viltà del sacerdote e del levita (i leviti erano una tribù di ebrei con compiti di cura del culto), cioè di chi è evidentemente solo un burocrate della fede, di due funzionari dell’apparato clericale che scansano quell’uomo ferito e riverso per terra, che non sentono alcun invito della coscienza a correre in soccorso della vittima, a fronte di tanta “banalità del male” da parte dei custodi delle Scritture, a fronte di tanta indecente indifferenza brilla per contrasto la figura del Samaritano - cioè di un membro di una minoranza etnica e religiosa invisa agli esponenti dell’ebraismo. II Samaritano è considerato un reietto, una pietra di scarto. Ma è proprio quel maledetto samaritano che diviene l’agente del bene, il protagonista di una parabola memorabile e bellissima: come una Ong del suo tempo corre in soccorso. Non è il timbro dell’ortodossia religiosa, ma l’alito dell’amore, ciò che schiude i cuori all’economia della salvezza: ecco il senso della parabola. Don Tonino Bello, nella sua vitale e appassionata ricerca delle tracce di Dio nella storia umana, usava parole o formule inaudite, un’eloquenza che turbava, che spiazzava, che interpellava la coscienza dei moderni. “Amare voce del verbo morire”: ecco una sua espressione di intonazione biblica che non è propriamente una carezza. Ma attenzione agli inciampi semantici. Qui morire ha un senso specifico: morire alle proprie certezze, alle proprie pigrizie, ai propri pregiudizi, perdere potere nel nome della gratuità e del dono, cambiare nella relazione con gli altri, non porsi come centro del cosmo. Vale per gli individui ma vale ancor di più per le nostre società che, al tempo della globalizzazione, non possono che essere multietniche e multiculturali, ma che invece danzano sulle voragini di nuovi/vecchi nazionalismi e su grottesche ma contundenti isterie identitarie. Ed è una danza macabra, di morte e di guerra. Il contrario del Dio che danza la vita e la pace. Qui il nodo pace/guerra, nella prassi contempl-attiva del Vescovo di Molfetta, disegnava una rotta di santa collisione tra cielo e terra, tra il comandamento mosaico del “non uccidere” e la militanza pacifista, tra le visioni di Isaia e l’obiezione di coscienza. Don Tonino contro l’innesco del fuoco delle “guerre giuste”, “democratiche” e “umanitarie”, usò i gesti di una radicale contestazione. Contro l’installazione dei missili in terra di Puglia evocò l’immagine impegnativa di un Sud “arca di pace e non arco di guerra”. E seppe immaginare che tutti i Sud del mondo dovessero rivendicare il diritto a non essere terra di conquista, o meri depositi di manodopera a basso costo, o giacimenti di risorse che arricchiscono tutti i Nord. E seppe ribellarsi all’idea che il Sud fosse una riserva di mafia e seppe dire parole inedite contro il familismo amorale e le culture sub-mafiose. Ma legalità, giustizia sociale, tutela ambientale, antimafia, pace erano i tasselli di un grande mosaico, bisognosi di incastrarsi gli uni con gli altri: erano e sono gli ingredienti, tutti necessari, di una “resurrezione laica” delle nostre società. All’umanità sconfitta e barcollante Tonino Bello dedicò un’attenzione spasmodica, non pietistica, un colloquio sempre alla pari con chiunque, una condivisione vera, uno spezzare il pane insieme. L’altare per lui non fu mai una barriera, un filtro, una ridotta, un rifugio, una turris eburnea: piuttosto fu una finestra spalancata sui passi della storia, un ponte per raggiungere ogni spigolo di universo. L’ultimo dei clochard per lui aveva l’importanza e la solennità di una cattedrale barocca. Don Tonino festeggiava le persone, dava valore a quelli che incontrava, sapeva ascoltare le parole intere e quelle spezzate, aveva anche l’intelligenza dei silenzi, e aveva sempre un dono per chiunque: e io conservo come una sacra reliquia quel grande libro, le “Fonti francescane”, che mi regalò alla fine di uno dei nostri incontri, incontri che per me erano momenti epifanici, quando occhi negli occhi ci confrontavamo sulle urgenze del nostro territorio o sugli affanni e i dolori di popoli lontani, quando lui rivelava con la semplicità di un fanciullo la sua sapienza e la sua profezia. Sarajevo, per il nostro Vescovo già duramente colpito dal cancro, fu il momento più alto e doloroso del suo cammino terreno e della sua profezia: il viaggio al centro del cinismo planetario, dell’ignavia delle diplomazie del realismo, nel cuore di un martirio di cui volle essere testimone, accanto a una popolazione civile piegata dalla guerra e a cui seppe dire parole che ancora risuonano, necessarie, negli inquieti scenari balcanici. Quando tornò dalla Bosnia incontrai don Tonino in episcopio. Non ero partito con lui e con la sua “Onu dei poveri” e la sua “diplomazia dal basso”, sulla sequela di Isaia, avevo avuto paura, lo confesso, mi ero dato latitante dinanzi all’annuncio di quella missione così eterodossa, così estranea ai protocolli dell’indolenza, così poetica, così carica di santità, eppure così rischiosa. La guerra per me era il racconto di mio padre, la foto appesa su un cipresso nel cimitero di Terlizzi di mio zio Enzo con la divisa da marinaio saltato a 19 anni insieme al suo sommergibile, il lutto portato addosso da mia nonna fino all’ultimo giorno della sua esistenza. La guerra erano i film e i reportage giornalistici: la visione dell’orrore, la perdita di valore della vita, l’imperativo blasfemo dell’uccidere, la devastazione di tutto, il rumore che uccide la musica. Ebbi paura, così finsi di non sentire il richiamo di don Tonino, non ero nella sua carovana il giorno dell’Immacolata del 1992. Lo incontrai appena rientrato dalla Bosnia. Ascoltai il suo racconto che snocciolava un rosario di volti, di dolore, di bellezza ferita: non fece mai cenno alla mia diserzione. E per questo il mio senso di colpa ne uscì moltiplicato. Pochi giorni dopo, eravamo quasi a Natale di quel terribile 1992, mi ritrovai anch’io al porto di Ancona a imbarcarmi su una nave in direzione di Spalato e dell’ex Jugoslavia. Partii anch’io, in missione di pace, alla volta di Sarajevo: nel cratere della guerra, nel gelo di un inverno che non dimenticherò mai, faccia a faccia con la devastazione e la paura, sui passi di don Tonino. Sinceramente non ho competenza o fede sufficiente per capire cosa siano i miracoli. So solo che quell’uomo è apparso tra noi come un dono del cielo, con la sua infinita capacità di rigenerazione delle parole e del loro significato. Ma anche come una spina nel nostro fianco, con la sua esigente ricerca di verità. Ora che lo fanno santo spero solo che oltre al dono venga custodita anche la spina. Sarebbe, è il caso di dire, un peccato sterilizzare la radicalità della profezia di don Tonino. Era un santo vero, così penso io, ma spero che non se ne faccia un santino. Tanto più che la guerra è tornata, nella sua forma più compiuta e devastante: ed è l’idrovora che succhia le risorse sottratte alla lotta contro la povertà, è l’economia che perverte la tecnologia in morte e la morte in finanza. Non era mai andata via, in verità, ma non la vedevamo finché non è tornata in Europa, vicino alle nostre case. Tornata come guerra di terra, un corpo a corpo che nelle gelide trincee dell’Ucraina ricorda le mattanze della Prima guerra mondiale. È tornata dal mare, come uno spaventoso mostro degli oceani che ha soppiantato Nettuno e il suo tridente. È arrivata dal cielo, come nella Seconda guerra mondiale, come punizione dei civili e incenerimento delle città, e poi come nei recenti anni della Guerra nel Golfo, come sterminio asettico operato al computer, come bomba intelligente che colpisce senza vedere in faccia quelli che uccide, come post-moderno angelo della morte, onnipotente e cieco. Ma oggi la guerra è tornata anche nella sua forma più estrema e ultimativa, come ipoteca sulla vita stessa del pianeta, come minaccia radicale all’umanità, come negazione del futuro. Fu il biglietto da visita di una nuova era, con cui piegare l’agonizzante potenza giapponese ed esibire un potere inaudito: con Hiroshima finisce un mondo. Ne nasce un altro che conserva dentro di sé un istinto necrofilo per l’autodistruzione. È l’atomica che, con il buio della sua luce radioattiva, ci pone dinanzi alla nostra responsabilità individuale e collettiva. Fermare la corsa verso l’Armageddon nucleare, riaprire la partita della conversione dell’economia bellica, fermare la corsa al riarmo, rimettere al centro di tutta la politica e di tutta la cultura il dovere inderogabile di proteggere la vita e di custodire il creato, di curare con la pace e la giustizia sociale le ferite della storia e dell’umanità: questo è oggi la nostra missione. Riprendere il cammino sui sentieri di Isaia, come ci esortava a fare don Tonino, mai dimenticando le parole più audaci del profeta che ancora risorgono dalla notte dei tempi a svegliarci da un sonno complice e colpevole: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo; non si eserciteranno più nell’arte della guerra”. La pace è dunque la rivoluzione di cui c’è urgenza, una rivoluzione bellissima perché non prevede spargimento di sangue e teste da tagliare, prevede solo di uccidere la guerra che è la principale fonte di ingiustizia, di dolore, di povertà.

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