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Omicidio Bufi, chiesto il processo per 4 indagati
A una svolta dopo 11 anni la vicenda della ragazza trovata morta sulla 16bis. Parla il padre di Annamaria. Secondo l'accusa è una brutta storia di strane archiviazioni, omissioni, superficialità nelle indagini, errori investigativi
15 febbraio 2003
E' una brutta storia l'omicidio di Annamaria Bufi. Una brutta storia davvero, non solo perché, come tutti i fatti di sangue in una media città di provincia, desta scalpore, sconcerto, chiacchiericcio. La storia di Annamaria, 22 anni, cranio fracassato da sei colpi di un corpo contundente, scaricata sulla statale SS16 bis la sera del 3 febbraio 1992, è una di quelle vicende che a Molfetta lascerà il segno. Più di quanto non abbia già fatto. Perché oggi l'indagato numero uno è un insospettabile professore di educazione fisica. Perché insieme a lui, indagati per favoreggiamento sono la sua ex moglie e un suo amico. Perché le indagini hanno finora portato alla luce una fitta tela di coperture, depistaggi, insabbiamenti. «Dieci anni di indagini condotte con incredibile superficialità, con omissioni gravi ed errori investigativi grossolani», avrebbe poi scritto il sostituto procuratore di Trani, Francesco Bretone. Un magistrato e sei carabinieri sono da un anno al centro di un'inchiesta bis. Per loro i reati contestati sono falso e favoreggiamento. A undici anni dai fatti, la storia di Annamaria si infoltisce di personaggi, si arricchisce di presenze più o meno eccellenti. Con un risultato, innegabile: questo omicidio sta facendo luce su scenari finora sconosciuti, sta alzando il velo forse su persone e fatti della nostra città che mai avremmo neppure osato immaginare. Per questo il caso Bufi è più che un efferato assassinio, assai più che un semplice fatto di cronaca nera: è la storia di una normalissima ventenne di provincia che è già riuscita a fare scompiglio tra le troppe certezze di un'intera città. Con la sua morte, violentissima e terribile.
Una ragazza normale
Era una ragazza tenace, Annamaria. Di quelle che non hanno peli sulla lingua e che, forti anche della loro giovane età, dicono sempre quello che pensano. “Spesso– spiega il padre, Franco Bufi – ho pensato che ad ammazzare Annamaria sia stato il suo stesso coraggio. Che quella sera di 11 anni fa abbia detto all'assassino una parola di troppo, esattamente quello che sentiva, senza pensarci su: una verità scomoda, un insulto, un'offesa, una minaccia dettata dalla foga del momento. E che per questo chi era con lei in quel momento abbia reagito”. Una ventenne “testarda”, dunque. Che sapeva quello che voleva e che mai si sarebbe piegata a situazioni che non le fossero andate a genio. Una ragazza “normale”, una famiglia molfettese “normale”. Madre casalinga, padre marittimo. Dopo tre anni di scuola per segretaria di azienda, Annamaria decide di interrompere gli studi. Per iniziare, subito dopo, a lavorare. Trova un impiego presso una concessionaria di automobili, e, dopo qualche anno, presso la Metano Sud. E' una ragazza in gamba, fa bene il suo lavoro, i colleghi la stimano molto. Spigliata, comunicativa, affidabile: Annamaria è una ragazza con i piedi per terra e senza grilli per la testa. “Aveva molti amici – ricorda il padre – e non faceva distinzioni di classe: aperta, socievole con tutti”. Con la famiglia il rapporto era sempre stato sereno. Nessuno scontro in particolare aveva mai turbato la vita di casa Bufi. Ubbidiente e ligia alle piccole regole familiari, Annamaria non aveva mai dato pensieri ai genitori. “Mia figlia conduceva una vita regolare”, precisa Franco Bufi. “Una passeggiata la sera, con gli amici, dopo il lavoro, una pizza il sabato: rincasava sempre presto e quando prevedeva anche piccoli ritardi, avvisava sempre casa”. Tutto incredibilmente normale. Eppure Annamaria portava con sé un grande segreto. Una storia d'amore con un uomo assai più adulto di lei. Che andava avanti da 7 lunghi anni. Un uomo sposato, di oltre vent'anni più grande di Annamaria. E' Domenico Marino Bindi, docente di educazione fisica, noto in città per la sua fama di sportivo. L'uomo parlerà poi di una relazione soltanto sessuale. Ma per Annamaria, che si confidava solo con il suo diario e alcune sue amiche, quel rapporto era molto di più. La famiglia non sapeva, non aveva mai sospettato nulla: a poche ore dal delitto, i genitori verranno a conoscenza di una parte della vita della loro figlia che non avrebbero mai e poi mai immaginato. “Annamaria fu bravissima a nascondere tutto”, ammette il padre. “Non avremmo mai pensato…”. Nella media città di provincia che vive spesso di pettegolezzi e bigotte chiacchiere da bar, quella ragazza “con l'amante” 10 anni fa fece scandalo. E, forse, non mosse altro che fastidiosi brusii intorno alla sua vita privata. “Mia figlia non era e non è la prima né l'ultima ad aver avuto una relazione con un uomo sposato”, dice oggi il padre. “Certo non avremmo condiviso questa scelta ed è comprensibile che Annamaria l'abbia tenuta nascosta a me e a mia moglie”. E poi chiarisce: “Il punto non è che mia figlia avesse una relazione con quest'uomo, il punto è che qualcuno me l'ha ammazzata”.
Le prime indagini, nel 1992: si brancola nel buio
“Quella notte mi trovavo a Venezia, a bordo della nave per la quale lavoravo”, racconta il padre. “Seppi quel che era successo per telefono e mi precipitai subito a casa”. Era successo che il corpo di Annamaria era stato trovato riverso sul selciato della statale SS16bis all'altezza dell'uscita della zona artigianale. Senza vita, per uno shock emorragico dovuto a lesioni encefaliche. Morta alle 21 della sera precedente. Le indagini partirono subito, ma fu chiaro sin dal primo momento che per il caso Bufi gli inquirenti avrebbero brancolato a lungo nel buio: troppi misteri inspiegabili.
Il nome di Bindi spunta a poche ore dal delitto (nella foto: il punto della SS16 bis dove fu trovato il corpo di Annamaria Bufi), la storia della sua relazione, i sette anni segreti di Annamaria. Ma il professore di educazione fisica fornisce un alibi: quella sera si trovava nella sua palestra a Bisceglie. L'hanno visto quattro persone, ma la versione fornita da Bindi sarà in parte verificata solo cinque mesi dopo: due delle quattro persone a luglio confermeranno in modo assai vago quell'alibi. A casa di Bindi i carabinieri trovano un paio di scarpe da ginnastica dell'uomo, imbrattate di terriccio. Ma di quelle scarpe e del loro sequestro non vi è traccia in alcun verbale di allora: il particolare sarà reso noto dopo molti anni, quando, chi nel 1992 aveva effettuato la perquisizione, avrebbe testimoniato l'accaduto dinanzi ai nuovi magistrati inquirenti. Ancora, a poche ore dall'omicidio, i carabinieri ispezionano l'automobile di Bindi. L'auto, una Renault Nevada, è stata lavata da poco. Anche il vano portabagagli, come avrebbe poi dichiarato l'allora appuntato autore dell'ispezione. Ma prima del 2001 nulla si sapeva di quella perquisizione. Perché anche di questo dato non esistono verbali stesi nel 1992. La Renault a un mese dall'omicidio sarebbe stata venduta dallo stesso Bindi. Il telefono dell'ex amante di Annamaria viene posto controllo, ma le indagini dell'epoca non registrano alcun elemento significativo, almeno in apparenza. Nove anni dopo gli inquirenti avrebbero accertato che “i nastri non sono copie originali, le parti mancanti sono state cancellate sovraincidendo suoni a frequenze regolari a simulare un guasto tecnico di origine meccanica… alcune telefonate sono state cancellate”.
“La ruota gira: la fortuna sta premiando l'assassino”
Sono non poche le “stranezze” di quell'indagine, poi accertate nel 2001 dal sostituto procuratore della Repubblica, Francesco Bretone. Il padre di Annamaria ricorda così i giorni, le settimane immediatamente successive all'assassinio di sua figlia: «Ogni giorno, dopo l'omicidio di Annamaria, mi recavo personalmente alla caserma dei Carabinieri di Molfetta. Ogni giorno sperando che le indagini registrassero qualche novità. Mi dicevano: la ruota gira, oggi la fortuna sta premiando l'assassino, domani potrebbe premiare noi che cerchiamo la verità. C'era poi chi, per rassicurarmi, garantiva: “Non si preoccupi: trovare l'assassino per magistrati e carabinieri è come mettersi un fiore all'occhiello”. Ricordo ancora le parole di un inquirente di allora: “La giustizia è come una macchina: se manca la benzina, si ferma”. Cercavano un input, insomma. Un punto di riferimento per orientarsi finalmente nel buio delle indagini. Almeno così mi dicevano. Eppure l'indagato numero uno era proprio lì. A un passo dalla vita di Annamaria». Assai di rado le indagini del 1992 si incrociarono con le vite dei genitori di Annamaria. “Io fui interrogato una sola volta a distanza di qualche mese dai fatti”, ricorda Franco Bufi. “Poche domande soltanto: per quale compagnia di navigazione lavorassi, da quanti anni prestassi servizio. Fu interrogata anche mia moglie e ci fu anche chi, a poco tempo dall'omicidio, ebbe il coraggio di farle notare che forse, da mamma, aveva prestato poca attenzione a sua figlia, alla sua vita privata”.
Le false piste
Le indagini si interrompono il 18 dicembre 1992. Messe da parte le piste dello zio della ragazza (guardia campestre, sottoposto alla prova del guanto di paraffina, anche se Annamaria era stata uccisa non da un'arma da fuoco, ma dai colpi violenti di un corpo contundente, come confermerà poi anche il medico legale di allora) e della “golf beige” (la cugina della ragazza aveva parlato di automobile ferma sotto casa di Annamaria, con un ragazzo alla guida che chiacchierava con lei: ma orari e luoghi frequentati da Annamaria poco prima dell'omicidio avrebbero consentito di scartare subito quest'ipotesi), il caso viene archiviato. Bindi viene ritenuto estraneo ai fatti e nel 1992 non appare iscritto nel registro degli indagati. (nella foto: il tribunale di Trani)
Molfetta, città di omertà
Passano quattro anni. Anni di silenzi, reticenze. La famiglia di Annamaria registra una scarsissima collaborazione da parte di amici e conoscenti della figlia. La città sembra dimenticare un fatto pure così grave. Anche la stampa, locale e nazionale, pare ignorare l'omicidio: eppure in quegli anni altri “gialli” di giovani donne uccise in misteriose circostanze trovano larghissimo spazio sulle pagine dei giornali. Amici e vicini di casa non collaborano. «Erano soltanto curiosi», precisa Franco Bufi. «Non conoscevo nessuno degli amici di mia figlia prima che fosse uccisa: dopo l'omicidio ho conosciuto quelli più intimi. Ricordo che nel '92, in occasione di una diretta televisiva su Raidue, i due amici più cari di Annamaria si rifiutarono di partecipare e offrire la loro testimonianza. “Ti rivolgi sempre a noi due!...”, mi dissero». Il padre di Annamaria non si sottrae a spiegare quell'omertà diffusa sull'omicidio di sua figlia: «L'omertà non è un concetto lontano da noi. Non abita solo in Sicilia, non riguarda solo i fatti di mafia. L'omertà fa parte del nostro modo di vedere le cose. Appartiene soprattutto agli adulti». Poi spiega, con un esempio: «Crede che se lei stessa avesse saputo qualcosa, avesse soltanto pensato di poter fornire qualche elemento utile agli inquirenti, le sarebbe stato semplice rivolgersi ai magistrati e deporre la sua testimonianza, senza andare incontro alle resistenze della sua famiglia? Certamente i suoi parenti, più adulti di lei, anche solo per evitarle rogne, le avrebbero consigliato di starsene al suo posto e di non intromettersi in una storia così pericolosa. Insomma, anche la sua buona volontà, la sua onestà di ragazza giovane, intenzionata a fare il suo dovere, si sarebbe scontrata con una diffusa coscienza omertosa. Non parliamo poi delle persone in qualche modo legate alla vicenda o al presunto assassino!».
“Nessun segno dall'ex amante di mia figlia”
Nei mesi che seguirono l'assassinio di Annamaria, Bindi evita ogni contatto con i genitori della ragazza. E' quasi dirimpettaio della famiglia Bufi, ma con la famiglia di Annamaria non ci sarà mai alcun incontro. “Di Marino Bindi – ricorda Franco Bufi - conoscevo vagamente il padre, la madre, il fratello. Una conoscenza superficiale: spesso da ragazzo giocavo nella sala da biliardo di proprietà del padre di Bindi. Oltre questo niente ha mai legato me e mia moglie né a lui né alla sua famiglia. Né prima che accadesse il fatto, né dopo. Certo, da un uomo innocente che per 7 anni ha avuto una relazione con mia figlia, mi sarei aspettato dopo l'omicidio un segno, un gesto di collaborazione. Una lettera, una telefonata, una parola di conforto. Invece niente. Anzi posso aggiungere che dopo l'assassinio quando casualmente ho incrociato Bindi per strada, in automobile, lui ha sempre evitato il mio sguardo. Lo ricordo benissimo: più volte ha coperto il volto con la sua mano. Forse credeva che questo bastasse a non farsi riconoscere”.
1996, si riaprono le indagini
Il 1996 sembra essere l'anno della svolta. La famiglia Bufi, sostenuta dall'avvocato Giuseppe Maralfa, chiede al pm Domenico Seccia di riaprire le indagini. E il caso si riapre. Per la prima volta Bindi è iscritto nel registro degli indagati. Gli viene fatto recapitare un avviso di garanzia. Si ordinano altre intercettazioni. E' l'8 settembre 1997: dopo una settimana Bindi riceve un invito a comparire, ma non si presenta. Sostiene di essere ammalato. Passano appena quarantott'ore e gli inquirenti decidono di chiudere le indagini. “Senza motivazioni - scriverà poi il pm Bretone - … e senza aspettare comunicazioni” relative alle intercettazioni telefoniche appena ordinate. E' di queste settimane la notizia di un'ulteriore inchiesta presso la procura di Lecce, dovuta alle querele incrociate per diffamazione tra il pm che si occupò del caso Bufi nel 1996, Seccia, e il sostituto procuratore Bretone, oggi magistrato inquirente dell'omicidio di Annamaria. Quel che pare certo è che otto anni fa Bindi, pure formalmente “indagato”, non fu mai interrogato.
La svolta: Bindi arrestato
Ed è nel 2001 che per la terza volta, viene riaperto il procedimento d'indagine dal sostituto procuratore Bretone. Domenico Marino Bindi viene arrestato il 9 ottobre. Trascorre il periodo di detenzione in carcere prima, nel reparto psichiatrico di un ospedale poi. Il 12 novembre, su richiesta del pm, il Gip Michele Nardi torna a rinchiudere l'indagato dietro le sbarre. Poi, a dicembre, scaduti i nuovi termini di custodia cautelare stabiliti dal Tribunale della libertà di Bari, Bindi torna in libertà. Viene ritrovata, nel frattempo, in Germania, la Renault Nevada di Bindi. I carabinieri del Ris, mediante il test del luminol (sostanza chimica in grado di accertare la presenza di materiale organico e tracce ematiche su oggetti e superfici), rilevano “tracce biologiche”. Ma neppure il luminol test segna una svolta nelle indagini. Nessuna certezza, né alcuna conferma arriva dal test effettuato dal Ris di Roma. Il test, pur risultando positivo in 8 aree dell'abitacolo e del vano bagagli, avrebbe portato alla luce, secondo l'autore della perizia, solo "false positività" determinate probabilmente dalla contaminazione con ioni metallici. Per la famiglia Bufi si tratta di un “vero e proprio dietro-front”. “Apprendo a questo punto che il luminol, contrariamente a quello che ci avevano fatto intendere, è un test che serve davvero a poco”, dichiarerà poi il padre di Annamaria. Le aree risultate positive sono sottoposte a un ulteriore esame spettrofotometrico (raggi UV): l'indagine non dà conferme sulla presenza di sangue, che pure il luminol aveva lasciato emergere. Ancora, le stesse aree dell'automobile di Bindi, sono oggetto di un "esame genetico": emerge, in una sola area, un profilo genetico maschile, mentre "sulle altre tracce - dichiara l'autore della perizia davanti al Gup, Maria Teresa Giancaspro - possiamo dire che non c'era materiale genetico". Ma in sede di incidente probatorio lo stesso perito aveva parlato di “esiti non scientificamente accettabili”. “Significa che proprio tutto chiaro non è”, avrebbe aggiunto poi Franco Bufi. Infatti, a seguito dell'esame dei frammenti di Dna estratti dalle aree risultate positive al luminol, se “lo studio del Dna condotto su 13 loci genici – era scritto nella perizia - ha portato a individuare sul reperto F (porzione di guarnizione) un profilo genetico ascrivibile a soggetto maschile” e dunque incompatibile con il profilo di Annamaria, tuttavia, “non è possibile esprimersi in merito alla presenza di materiale organico umano sulle rimanenti porzioni di tappezzeria dell'abitacolo e del relativo vano bagagli". Insomma nulla di fatto, secondo il luminol test.
L'inchiesta bis di Potenza. Indagati un magistrato, un avvocato e sei carabinieri
Ma forse la vera svolta arriva a gennaio scorso. La procura di Potenza apre un'inchiesta condotta dal sostituto procuratore Mariangela Magariello, a carico degli inquirenti che per primi si occuparono del caso Bufi. Vengono anche acquisiti degli atti presso la Caserma dei carabinieri di Molfetta. Bocche cucite sulle indagini. Massima riservatezza e riserbo sui nomi degli indagati. Poi il caso esplode a livello nazionale. Per due volte il settimanale “Panorama” (l'ultima, qualche settimana fa: copie esaurite a Molfetta nel giro di poche ore), pubblica notizie e riscontri dell'inchiesta bis potentina. Ipotizzati reati di falso e favoreggiamento a carico del primo magistrato che coordinò l'inchiesta nel 1992 e di sei carabinieri (tra cui due ufficiali) allora in servizio a Molfetta e oggi iscritti nel registro degli indagati con il sospetto che undici anni fa abbiano firmato verbali non regolari e ignorato indizi determinanti. Indagato dai magistrati di Potenza anche l'avvocato di Bindi, Leonardo Iannone che nelle scorse settimane ha lasciato l'incarico. Per lui il reato ipotizzato è favoreggiamento.
La lettera del Presidente della Repubblica
Nel frattempo il padre di Annamaria, scrive alla Procura, al Comando generale dei carabinieri, al Ministro della Giustizia, al Presidente della Repubblica. Alcuni mesi fa riceve una lettera dal segretariato della Presidenza della Repubblica. Dal Quirinale, il Presidente gli fa sapere che, pur non potendo entrare naturalmente nel merito delle indagini, solleciterà "determinazioni collegiali" a carico dei magistrati, in qualità di Presidente del Csm. E ad aprile la Cassazione rigetta il ricorso di Bindi contro l'ordinanza del Tribunale della libertà che aveva confermato gli indizi di colpevolezza a suo carico.
Bretone: richiesti quattro rinvii a giudizio
L'ultimo atto, appena una settimana fa. Il sostituto procuratore della Repubblica Bretone chiede il rinvio a giudizio per quattro persone: Marino Domenico Bindi, indiziato numero uno dell'omicidio; la sua ex moglie Emilia Toni e il suo amico Onofrio Scardigno, indagati per favoreggiamento; un ufficiale dei carabinieri, il col. Michele Pagliari, nel 1992 comandante della Compagnia di Molfetta (reato ipotizzato: falso). Qualche mese ancora, e il caso Bufi sarà finalmente un processo.
Le bugie di undici anni
Ha fiducia il padre di Annamaria nella giustizia e nella possibilità che dopo 11 anni si arrivi finalmente alla verità. Non nasconde le delusioni di questi anni: ritardi della giustizia, inchieste sugli stessi magistrati e sui carabinieri, misteri irrisolti. Ma le ultime evoluzioni dell'inchiesta sull'omicidio di Annamaria hanno riaperto le porte della speranza alla famiglia Bufi. “Abbiamo raggiunto la verità storica: speriamo di raggiungere quella processuale”, dichiara sicuro Franco Bufi. “E non c'è dubbio che in questa fase del procedimento la giustizia ci è parsa assai seria e professionale: nonostante difficoltà e reticenze, gli attuali magistrati sono venuti a capo di importanti risultati”. Gli chiediamo se oggi, a seguito di quello che inchieste e contro-inchieste stanno portando alla luce sui primi anni di indagini, sente di aver commesso, da genitore, errori di valutazione, leggerezze. Se pensa che agendo anche lui diversamente, la verità sarebbe saltata fuori subito. La risposta non dà adito a equivoci: “Quando ti ammazzano una figlia, il cervello non ti funziona più. Ti si annebbia la mente, non riesci ad essere abbastanza lucido, né a distinguere dove sta il male e dove sta il bene. Ti fidi di tutti. E puoi affidarti anche a persone sbagliate, rischiando di rimanere da solo. Ecco: se mi guardo indietro e provo a ripensare ai discorsi che in questi 11 anni autorità inquirenti, amici e conoscenti mi hanno rivolto, soltanto oggi riconosco chi aveva ragione e chi, invece, voleva solo prendermi in giro”.
Tiziana Ragno
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15 Aprile 2003 alle ore 00:00:00
E' doloroso accorgersi che l'interesse giornalistico della vicenda abbia avuto inizio soltanto a distanza di più di dieci anni dal tragico evento. Probabilmente se nel 1992 ci fosse stato un interesse da parte dei giornali pari a quello attuale ciò avrebbe prodotto il risolversi pressocchè immediato della questione, permettendo di infliggere la giusta pena al responsabile. Anche se però sono passati così tanti anni è giusto e indispensabile che la giustizia faccia il suo corso; è giusto che chi ha sbagliato paghi; è giusto perchè, anche dopo più di dieci anni, bisogna rispettare Anna Maria e il suo ricordo; per "vendicare" la sua assurda ed ancora immotivata tragica dipartita.
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