Grande successo di pubblico e critica ha riscosso la collettiva “La Puglia, ponte tra culture”, per la quarta edizione della ormai consolidata rassegna d’arte contemporanea allestita dall’Associazione “Puglia d’arte e d’artisti”, a cura della Presidente e Maestra d’arte Daniela Calfapietro. L’artista si è avvalsa della collaborazione del critico d’arte Marco Caccavo, che ha inaugurato l’esposizione. Quest’anno, la rassegna ha potuto annoverare l’importante partecipazione, in qualità di Padrino della stessa, dello stilista Gulliermo Mariotto; ospite straniero e ambasciatrice interculturale, sua sorella Gina Mariotto, pittrice internazionalmente nota, e gli ospiti extraregionali Massimo Romani e Davide Ferro da Novara e Nicola Filazzola da Matera, con la collaborazione di Adsum Arte di Terlizzi. Molto apprezzate anche le performance di Miguel Gomez (video), Gregorio Sgarra e Nestia Abbattista (canto), la conferenza del Prof. Davide Mortellaro e le presentazioni dei libri di Rocco Berloco, Nadia Laccetti, Raffaele Mastrolonardo e Ilaria Palomba. Subito chiaro appare l’intento culturale del vernissage, che si avvale di molteplici linguaggi espressivi, con prevalenza del codice pittorico, ma aperture alla fotografia, alla produzione scultorea e al settore dell’art design. La chiave di volta è il sincretismo culturale, in un’epoca che sta confermando la vocazione, già innata nella nostra terra, a configurarsi quale crogiuolo di culture, in un fascinoso e fecondo melting pot. L’intento della curatrice è quindi quello di stabilire un ryhtmos armonico, quasi introducendoci in una sorta di sacrario, in cui “metope e colonne paiono suggerire significati subliminali positivi”. Così, l’eco biblica dell’Esodo, rappresentato con straordinaria potenza drammatica e vibrante vigore espressivo da Mario Colonna (già Direttore dell’Accademia delle Belle Arti di Bari) all’inizio del percorso, ritorna, mutate le condizioni storiche, ma non il dolore, nell’appello a un’interculturalità meno sofferta, più accogliente, di Brunella Amato. Non casualmente, anche Michelangelo De Virgilio ripropone, attraverso la lavorazione dell’acciaio, un accorato inno alla pace, ispirato allaspiritualità di Mons. Bello. La pena del viaggio, dell’”errare” discosto da una meta amata, forse inaccessibile, vibra, accanto al desiderio di conoscenza sempre sotteso all’inesausta navigazione, nella lotta di Odisseo di Franco Valente (come nella tensione filantropica punita di Prometeo, cui si contrappone l’arroganza del potere in Menelao). In essa, l’agonismo si traduce nella possente torsione delle membra e nell’espressività dei volti. Talora il viaggio assurge a catabasi nell’ignoto, come nel caso di Giona nel ventre della balena o di Pinocchio (Collodi riscriveva, a distanza di secoli, l’episodio biblico): come ammonisce Carmela De Dato nelle sue opere installative, in cui si avvale anche della tecnica mista legno-stoffa-ceramica, la discesa nei vortici dell’abisso, se può assurgere a esperienza di conoscenza, non di rado finisce col simboleggiare l’estremo sacrificio dei deboli a vantaggio dei potenti. L’idea di una Puglia come ponte tra ere e culture è un Leitmotiv, che subito l’allestimento squaderna attraverso la fotografia di Mauro Germinario all’inizio del percorso tra i pannelli della mostra. Il fotografo molfettese immediatamente rivela la duttilità culturale di questa terra, mentre ne segnala anche le innegabili peculiarità nei garbugli di ulivi – “tempio della natura” (come li ha definiti la curatrice), cui poi funge da splendido contraltare la cattedrale di Ruvo. Essi sembrano svettare, nelle gigantografie, come deità di un’eternità sospesa. Eppure il male corrode quei numi tutelari delle nostre lande campestri ed ecco materializzarsi, nell’opera di Maria Addamiano, lo spettro – cromaticamente affascinante – della xylella, emblema di una natura, nume ferito, che può strappare all’uomo ciò che non ha meritato né saputo apprezzare, ma anche dello scorrere inesorabile del tempo, che tutto sgretola. Eppure esso non può cancellare le vestigia di un passato anche contraddittorio e ogni viaggio – talora di sola andata – finisce così con l’assomigliare, non di rado, all’intricarsi in uno gliuommero, come finemente traspare dalla produzione di Nicola Filazzola. La peculiarità del paesaggio pugliese emerge anche nelle opere di Vito Gianfreda, che arabesca sulla città bianca tra luci e fantasie geometrizzanti. O nelle pupe della Daunia di Carmen Perilla, bambole di cartapesta dipinta che narrano di echi elladici e di storie di infanzia e sembrano essere esse stesse portatrici di vita. Nel malioso labirinto di Maria Bonaduce, che, nell’ampio formato, costruisce un vero e proprio dedalo, i cui tasselli assorbono la luminosità delle plaghe di Puglia. La tensione è metafisica e al contempo informale e i versi della Szymborska fungono da puntello di un percorso, ch’è ancora una volta altamente anche autocognitivo. Gina Mariotto realizza, nei suoi grandi quadri astratto-figurativi, poderose rappresentazioni, a tratti di sapore quasi transavanguardistico. La potenza vitale (quella dei Tajones lejanos e della Fiesta) è flusso energetico figlio delle radici sudamericane, che bilancia il compassato influsso della cultura della Vienna mitteleuropea, in cui l’artista risiede da anni, presente in Rinascimento. L’intensità dei cromatismi trasporta l’osservatore in una dimensione da cui la cristallizzazione è bandita e torna possibile, quasi a portata di mano, la gioia. Un altro dei punti chiave di questo percorso è il carattere sacro della nostra terra e tradizione. Antonio Laurelli lo rievoca in forme altamente simboliche nel suo tondo, un rubeo tripudio di emblemi. Davide Ferri, nei triangoli e nella luce dorata del sole, vede la nostra terra quasi irrorata dal divino. Vincenzo Corcelli, restauratore d’arte, punta sull’antropologico, introducendo nelle maglie del sacro quella “tignola” che lo corrode, così come deforma i visi umani. Massimo Romani, in “Mythos”, quasi sacralizza gli elementi del paesaggio, alludendo a una loro esistenza archetipica e a una loro carica salvifica dinanzi alla tragedia dell’umano. Giovanni Morgese, attraverso i suoi codici arcani tracciati nel legno, sembra narrare una storia sospesa tra umanesimo e tensione a un divino, che, forse, risiede già nell’uomo stesso. Anche le opere degli interior designer alludono a questa tradizione: i pouffala di Francesco Mancini, le poltrone di Gadaleta industries (che collabora con l’apporto digitale alla riuscita della mostra) e le produzioni di Rossella Trentadue, che in “Helios” allude alla cultura come simbolo solare, in linea con la tradizione dantesca, e riveste una libreria di pagine di libri antichi, a rievocare l’idea del nihil dictum quin prius dictum, ma anche a ribadire come il senso del passato da sempre rappresenti per l’uomo un filo d’Arianna nei meandri dell’esistenza. Proprio come l’installazione di Angela Strippoli, che coniuga il lindore dell’abito bianco con l’ingegnosa idea di accompagnare, in un percorso a tappe, lo snodarsi dell’allestimento. Un viaggio tra umano (il filo rosso) e divino (quest’ultimo rappresentato dal filo dorato), in cui è trascritta l’identità della Puglia, accanto al tessuto sociale delle sei province. La sacralità dei gesti e dell’essenza emerge nitida nelle opere di Daniela Calfapietro. Nella ceramica, che esalta l’Estate sitibonda, ma ne tradisce anche la natura quasi di Megàle Mater. Nell’installazione, tributo allo spazio della memoria, con echi duchampiani. Ritorna, sacer, un crogiuolo di rituali, con il panno posato sul seggio/trono che evoca memorie, amare proprio in virtù della loro perduta dolcezza. Al temps jadis si contrappone il presente (stigmatizzato in “Eredità: horror vacui”), che inscatola e scarnifica ogni bellezza. Nello specchio si riflette il nostro destino, che sembra configurarsi quale orribile vuoto che, in assenza di una reazione decisa e drastica da parte dell’uomo, potrebbe ‘impossessarsi di tutto, destituendo di sostanza e riducendo a miraggio anche il simbolo dell’ulivo.
Autore: Gianni Antonio Palumbo