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La politica economico-finanziaria della destra e la questione demaniale (I parte)
06 settembre 2006

NAPOLI - 6.9.2006 - All'indomani del compimento del processo di unificazione risorgimentale, culminato con l'annessione di Venezia (1866) e la proclamazione di Roma capitale d'Italia (1871), la classe dirigente nazionale, divisa sul piano politico tra moderati e democratici, tra centralisti e decentratori o autonomisti, sul piano economico si riconosceva unanimemente nelle posizioni liberiste. Pertanto, i primi governi della Destra avviarono un radicale processo di liberalizzazione, caratterizzato dall'abolizione delle dogane interne e dall'allineamento delle tariffe doganali verso l'estero su livelli molto bassi. Nel 1863 fu firmato il trattato di libero scambio con la Francia. Il volume degli scambi crebbe, ma la composizioni dei traffici commerciali rimase quella tipica di un paese prevalentemente agricolo. Inoltre, il Mezzogiorno, pur aumentando l'esportazione di vino, olio, frutta e zolfo siciliano, assistette al tracollo della propria industria locale con il venire meno della forte protezione doganale precedentemente assicuratagli dal governo borbonico. Il problema che in campo economico-finanziario afflisse in modo grave i governi del nuovo Regno fu quello del disavanzo pubblico. Quando nel 1861 i debiti dei precedenti Stati regionali furono unificati, il debito del Regno di Sardegna incise per oltre la metà sul totale. Dal 1862 fino ci fu un ulteriore incremento delle spese statali per finanziare la repressione del brigantaggio meridionale, le guerre del 1866 e del 1870, il trasferimento della Capitale a Firenze prima e a Roma poi, le costruzioni stradali e ferroviarie. Queste ultime nel giro di un decennio triplicarono, raggiungendo nel 1870 i 6.200 chilometri. Per risanare la finanza pubblica da un lato furono ridotte le spese, dall'altro furono aumentate le entrate facendo leva sui debiti, le imposte e l'alienazione dei beni demaniali. La pressione tributaria gravò principalmente sui terreni e sui consumatori. Studi settoriali hanno stimato che i proprietari terrieri pagarono in imposte comunali o statali tra un quarto e la metà dei loro redditi. Il Meridione pagò a caro prezzo il pregiudizio sulla sua ricchezza naturale e nel 1864 Napoli e la Sicilia da sole contribuirono per il 45% al gettito totale. Un vero e proprio salasso. Tra le imposte indirette quella maggiormente odiata fu l'imposta sul macinato, introdotta da Quintino Sella (nella foto) che colpiva soprattutto i poveri. Da un punto di vista dell'analisi territoriale, sia per il peso maggiore che l'agricoltura ricopriva nella formazione del prodotto interno lordo, sia per i criteri di applicazione dell'imposta fondiaria, sia per la maggiore incidenza che avevano i consumi dei prodotti a base di frumento, il Mezzogiorno risentì in modo fortemente negativo di un tale regime fiscale. Salvatore Lucchese
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