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Io giovane disoccupato scrivo a Quindici: sindaco hai detto che il lavoro c'è, allora è una bufala?
23 agosto 2009

MOLFETTA - Un giovane disoccupato di Molfetta lancia un appello attraverso il quotidiano “Quindici on line” e si rivolge direttamente al sindaco che ha dichiarato che il lavoro c'è. In realtà, come scrive Sergio, è quasi impossibile trovare lavoro a Molfetta. Il compito di un organo di informazione non è quello di creare o dare posti di lavoro, possiamo solo fare da portavoce a queste situazioni di disagio sociale, segnalandole a chi può fare qualcosa di concreto avendone i poteri e avendo ricevuto un mandato in tal senso dai cittadini elettori. Giriamo al sindaco Azzollini questa lettera (abbiamo anche il recapito telefonico del giovane, in caso qualcuno possa o voglia dargli una mano) che conferma come la nostra città, malgrado i proclami trionfalistici, stia sempre più regredendo e il problema della disoccupazione sia fra i più gravi di una città allo sbando. Non si può restare insensibili all'appello di un giovane. Ecco la lettera: «Mi chiamo Sergio ho 25 anni e ho voluto scrivere questa lettera da pubblicare sul sito di Quindici in quanto sono tuttora disoccupato e chiedo al Comune di assumere giovani negli sportelli del municipio, in quanto lì ci sono anziani e di bandire un concorso per tale assunzione. Così come i vigili urbani scarseggiano. Non potrebbe l'amministrazione bandire un concorso per l'assunzione a tale impiego??? parlo anche degli ausiliari della sosta ecc... Sono diplomato da 6 anni come tecnico della gestione aziendale ad indirizzo informatico e sono disoccupato. beh, caro sindaco dite che c'è lavoro per i giovani??? È una bufala. Si sono aperti Fashion District, Ipercoop, Lidl, Miragica. Ma le assunzioni a quando??? Lì ci vanno tutti i figli di papà».
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LA DIGNITA' DEL LAVORO In un'epoca che inscrive nel suo statuto un uso ideologico della flessibilità del lavoro, giova fare un breve excursus storico sull'argomento, per comprendere che, in nome della modernità, il concetto di comunità si sta riducendo alla sua accezione reazionaria. Indubbiamente il tema concernente il lavoro ha sempre suscitato interesse; infatti, già Esiodo, nella Grecia antica, parlava della dignità del lavoro e del suo posto nell'ordine morale. Nel corso dei secoli, il lavoro, però, è stato assunto in una duplice valenza: come gioia e come pena. Per citare alcuni esempi, Tolstoj ritiene che il lavoro renda crudeli, Zola loda il lavoro, Sartre parla dei giorni maledetti della settimana. Prendendo in esame Marx, Bergson, Freud, emergono tre aspetti fondamentali: mezzo di sussistenza, soddisfazione dei bisogni vitali e legame sociale. Al di là delle diverse griglie interpretative, il dato inconfutabile è che il lavoro dovrebbe essere fonte di gratificazione e di socializzazione, ma, la verità fattuale dimostra che è stato sempre il fattore determinante della discriminazione sociale. Una visione sinistra è poi quella della seconda guerra mondiale, basti pensare che all'entrata del campo di Auschwitz vi era scritto: "Il lavoro rende liberi" , un motto paradossale e cinico, se si pensa che in quel campo sono stati massacrati quattro milioni di uomini. Ovviamente, non potendo trattare con dovizia di dettagli tutta la storia del lavoro, circoscrivendo il discorso, si può formulare una proposizione-chiave, ossia che non è l'attività laboriosa e creativa, bensì la privazione del lavoro che è intollerabile all'uomo. Facendo un'analisi globale sul tema del lavoro, si evince che le società che hanno preceduto il capitalismo erano caratterizzate da un vincolo personale fra dominanti e dominati, mentre, con il capitalismo, i rapporti sociali hanno assunto una natura astratta, anonima. Attualmente, superata la fase taylorista-fordista, tramontata la logica della produzione di massa, sono venute meno la programmabilità e l'uniformità. Senza voler enfatizzare il fordismo, è lecito riconoscere che, per via della programmazione strategica, garantiva il riconoscimento del lavoratore. Marco Revelli sostiene che il fordismo è paragonabile al cristallo, in virtù della sua linearità, invece, il post-fordismo al fumo, per il suo carattere proteiforme e inafferrabile. In questa nuova prospettiva, il lavoro organizzativo destruttura, delocalizza il lavoro, rendendolo flessibile, precario e sempre più immateriale. Artatamente la flessibilità viene spacciata come superamento della divisione del lavoro e come un cambiamento epocale, che dovrebbe liberare l'umanità dalle condanne bibliche e dagli effetti nefasti della logica del mercato. In realtà, la flessibilità, è un eufemismo che legittima un modello di lavoro iniquo e servile. Ciò consente di eliminare la dignità del lavoro, in sede politica, giuridica e sociale. Un aspetto da non sottovalutare è che, nella fase odierna, il capitale, per via dell'indefinito potenziamento della tecnica, diviene accumulazione di conoscenza, ossia capitale cognitivo. Roberto Finelli osserva che questo paradigma richiede forza-lavoro mentale, sicché la forza-lavoro cessa di essere il corpo e comincia ad essere la mente. Al di là dei paradigmi diffusi dall'inquinamento ideologico dilagante, emerge che, sia pure in guise diverse, i meccanismi del capitalismo si ripetono, perché alla base di tutti i processi, si afferma sempre la sussunzione del lavoro vivo in lavoro oggettivato. Purtroppo, nel dibattito contemporaneo, si tende a raggiungere giudizi definitivi e a fare previsioni epocali, spesso più suggestive che fondate, più attive sul piano dell'immaginario che su quello di un'analisi critica. A questo proposito Enrique Dussel osserva che agli intellettuali sfugge la complessità e l'ampiezza della situazione esistente, infatti, pochi riescono a focalizzare l'attenzione sulla relazione tra capitalismo avanzato del "Primo mondo" e lo sfruttamento del "Terzo mondo". Partendo da questi presupposti, Dussel sottolinea che la globalizzazione, con la sua essenza disumanizzante, sta perpetrando le oppressioni più brutali nell'America latina. Preso atto che le osservazioni fatte non risultano esaustive, ritengo che fare esplicito riferimento al tema del lavoro vivo possa sortire effetti positivi. Come lucidamente rileva Marx, il capitalismo "succhia lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia". Il lavoro vivo è potenza, possibilità, abilità, cioè capacità lavorativa del soggetto vivente e, quindi, è forma reale, non feticizzata della persona, ma diventa cosa,nella posizione feticizzata. Attualmente,con il crescente dominio della tecnica, non solo si ripropone, come vuole E.Severino, la dialettica hegeliana del "Signore" e del "Servo", ma si rivela anche attuale l'analisi Marxiana fatta nei "Grundrisse", nel capitolo delle macchine. Marx sostiene che, con il sistema automatico delle macchine, l'attività dell'operaio è ridotta a semplice astrazione di attività, sicché al lavoro oggettivato si oppone il lavoro vivo. Ciò significa che il lavoro vivo è ridotto a semplice accessorio vivente di queste macchine, come mezzo della loro azione. E' evidente che il lavoro vivo è la chiave materiale di tutta la dinamica della produzione, è la potenza che trasforma la natura in storia. Il lavoro vivo, però, è "l'indomabile Dioniso della libertà" e quindi, per la sua natura, non si può adeguare ai parametri dell'alienazione ed è, proprio in virtù di tali assunzioni, che può costituire l'elemento dinamico di rottura del sistema. D'altronde, il lavoro vivo, rappresentando la vis viva del soggetto vivente, può, con la sua potenza, produrre vaste reti di lavoro sociale autoorganizzato, fuori dalle catene del capitale. Ne consegue che solo partendo dai bisogni reali, si pone la dimensione politica dell'antagonismo tra capitale e lavoro vivo. Vero è che la logica dell'azienda sopprime gli antagonismi tra capitale e lavoro, spostando questi antagonismi verso gli esclusi e i lavoratori periferici. In questo quadro, stile Toyota, si inscrivono anche le imprese subappaltatrici, che forniscono sottoinsiemi completi, sviluppati con l'impresa-madre. Ciò consente di imporre la flessibilità degli orari e degli organici impiegati. Questo "disordine istituito" impone l'esigenza di creare nuove relazioni sociali,nuovi spazi, nuove forme di vita. In questa prospettiva, si dovrebbe riconoscere a tutti il diritto di lavorare in modo discontinuo, garantendo, nel contempo, un reddito continuo. Ciò non significa optare per forme obsolete di assistenzialismo, ma consentire la libertà di scelta. Una nuova cultura del lavoro, dunque, per promuovere l'autoorganizzazione del lavoro e creare una sovranità individuale e collettiva del tempo. Anche a questo proposito lo spettro di Marx torna a parlare affermando che "il lavoro è il fuoco che da vita e forma; le cose sono transitorie e temporali, giacché subiscono l'attività formatrice del tempo vivente". Il lavoro vivo, dunque, liberandosi dalle catene reificanti del lavoro salariato, può produrre vita, società, cultura. Wanda Piccinonno L'Avamposto degli Incom

I.A.S. (Istituto per gli Affari Sociali) Un problema in Europa... L'Ufficio internazionale del lavoro di Ginevra (ILO) ha pubblicato un rapporto secondo il quale il numero dei disoccupati con meno di 24 anni è aumentato di quasi il 15% negli ultimi dieci anni (1995-2005). In cifre si parla di circa 11 milioni di giovani disoccupati in più. Se si estende tale studio nel mondo del lavoro si osserva come quasi la metà (44%) dei disoccupati sia rappresentato dai giovani sotto i 24 anni. Secondo le stime dell'Ilo servirebbero circa 400 milioni di nuovi posti di lavoro stabili per permettere ai giovani di esprimere al meglio il loro potenziale produttivo. Nel mondo ci sono oltre un miliardo e mezzo di giovani di età compresa tra i 15 ed i 24 anni ed un terzo di loro non riesce a trovare lavoro, ha smesso di cercarlo o addirittura, pur possedendo un lavoro, vive con meno di due dollari al giorno. La condizione delle donne è ancora più difficile dal momento che, soprattutto nei paesi industrializzati, le opportunità di lavoro femminile sono molto ristrette e il rischio di licenziamento è maggiore rispetto a quello dei coetanei di sesso maschile. ...ed anche in Italia Uno studio realizzato in 11 città italiane, promosso dalla Cgil e dall'Unione degli universitari e realizzato dalla Fondazione Cesar, dimostra che oltre la metà degli studenti universitari intervistati vive ancora grazie all'aiuto dei genitori, il 29% ha un lavoro regolare, mentre poco meno del 13% fa affidamento su borse di studio. Ancora più allarmante è il dato che attesta al 70% la percentuale di studenti che ha un lavoro in nero con uno stipendio medio di 500 euro, una cifra che serve a coprire le spese mensili universitarie tra i 300 e i 600 euro, fino ad un massimo di 1000 euro. Oltre a creare una situazione sociale difficile e senza paragoni (in nessun altro contesto sociale la percentuale di lavoratori in nero è così alta), la necessità di lavorare per mantenersi gli studi comporta anche un problema di frequenza agli studi per il 40% degli studenti. L'Ocse ha invece pubblicato una indagine secondo la quale nel 2004 solo il 27,2% dei giovani italiani era in possesso un lavoro stabile attestando l'Italia in 26esima posizione su poco più di 30 paesi considerati. Ad aggravare la situazione arriva l'ultimo dato dell'Istat secondo il quale in Italia più di un milione di giovani (per l'esattezza un milione e 187 mila), oltre ad essere senza lavoro, è privo di un livello minimo di istruzione. Scheda a cura dell'Ufficio Stampa.


La "politica" ha sancito in questa città una legge ferrea: tutti quelli che hanno dimostrato, indipendentemente dalle loro capacità professionali e/o dalla loro fromazione scolastica, fedeltà al "KAPO DEI KAPI", ed ai suoi "KAPI MANDAMENTO", hanno possibilità di accesso ad incarichi professionali, lavoro nel settore pubblico + o - continuativo, e lavoro in tutte le realtà private più o meno grandi che non nomino ma che tutti voi conoscete. E quando parlo di lavoro intendo il termine in senso lato sia come impresa che come lavoro dipendente. Tutti gli altri, detto papale papale, devono CREPARE!!! MORIRE DI FAME!!! SENZA "REMISSIONE DI PEKKATO"!!! Vige la regola della "FEDELTA' AL KAPO" protrattasi per parecchi anni per cui uno che aspirasse ad avere diritto di accedere ad un posto anche al parco commerciale si deve mettere in coda e fra quattro o cinque anni, forse..., se non ha sbagliato una mossa ... avrà il placet definitivo dal KAPO e/o da uno dei suoi KAPI MANDAMENTO. L'Interprete massimo di questa politica mafiosa, di questa regola kapestro per molti giovani e per molti piccoli professionisti e imprese medio piccole è il "VECCHIO TARCHIATO CIMITERIALE JETTATORE", la vera "ANIMA NERA", il primo custode di questa "regola", di questa "FERREA ORTODOSSIA MAFIOSA", che ha la fiducia assoluta del Kapo dei Kapi, e che per certi aspetti, con delega fiduciaria ed incondizionata a rappresentare il Kapo dei Kapi, quando questo va a fare il "kapo Kuoko all'Urbe", ha per certi aspetti, più potere di quest'ultimo. Se quella feccia politica nelle cui putrefatte arterie scorre ancora il sangue dello STALINISMO E DEL CENTRALISMO DEMOCRATICO (che di democratico non aveva un kazzo!!!), esprime parere negativo, su chiunque, sia esso ditta, azienda, giovane lavoratore o professinista, è finita, senza eccezione tra settore pubblico e privato che in un'economia libera, dovrebbe essere libero di poter assumere senza condizionamenti della politica. NULLA SI CREA... a Molfetta nel pubblico come neanche nel privato senza il parere favorevole disgiunto o congiunto del "nutellato" del "tarchiato cimiteriale" e, della "zarina" (dona revisoras de las racchias). MA TUTTO SI DISTRUGGE... fuori dalla fiducia di QUESTA TRIADE CAPITOLINA DEL MALE, QUESTA CUPOLA MAFISA DEL VECCHIO TABACCAIO, PURTROPPO, CONDIZIONA TUTTO E TUTTI. ABBATTIAMOLA E SE DEL CASO DENUNCIAMOLA!!!


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