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Il pifferaio Il racconto
15 gennaio 2003

La terra futura apparterrà ai topi, agli scarafaggi e ai piccioni. L'uomo non sopravviverà a meno che non riesca a sviluppare un sistema di vita acquatico, insomma, non si faccia crescere le branchie. Perché la cosa curiosa è che, sulla Terra, l'uomo è un inquilino sbagliato in quanto può vivere su appena un terzo della superficie del globo e non può farlo, se non ricorrendo a mezzi medianici, sul resto. Così non è sbagliato pensare che in un non lontano futuro il problema topi (e per il momento trascuriamo gli scarafaggi e i piccioni) sia non più controllabile. Già oggi sono un enorme problema che bene o male si tiene sotto controllo. Ma domani… Domani ci sarà qualcuno che farà (o tenterà di fare) come il noto pifferaio di Harlem. (d.a.) Tutto era pronto, ogni cosa al suo posto. La notte era uguale a qualsiasi altra delle notti che mortificavano la città. La gente onesta dormiva, la disonesta anche. Per le strade i soliti nottambuli e gente di malaffare. Ma tutto questo a luì non importava nulla. La sua macchina era pronta, era l'unica cosa che contava. Sorridendo debolmente accarezzò con lo sguardo il piccolo strumento che reggeva delicatamente nelle mani. Era molto simile ad un flauto d'argento e oro collegato tramite un cavetto ad una grossa apparecchiatura che ricordava un grande armadio irto di cavi e cavetti. Questi si raggruppavano a quattro a quattro e si infilavano in un pozzetto di fogna lì vicino. L'uomo seguì con gli occhi il sinuoso avvolgersi dei cordoncini neri e pensò che grazie ad essi il suo più grande sogno stava per avverarsi. E lui sarebbe diventato un eroe. Un brivido di piacevole soddisfazione gli aumentò le pulsazioni del cuore. Sì, un eroe. Ma se l'era meritato. Anni e anni di ricerche, studi, relazioni, accolti sovente dall'ilarità dei colleghi scienziati, anni e anni di fatiche immani che gli avevano regalato solo capelli bianchi, un cuore ballerino quasi a pezzi e gravi difficoltà finanziarie. Eppure, in barba a tutti coloro che l'avevano deriso, alla soglia degli ottant'anni, era riuscito a creare, pezzo dopo pezzo. la sua prodigiosa macchina. In grado di distruggere i suoi più odiati nemici: i topi. Il sistema era semplicissimo, forse per questo nessuno ci aveva mai pensato: gli ultrasuoni. Certo, non era stata una scoperta, tutti gli esseri viventi erano sensibili agli ultrasuoni, anche se in maniera diversa Era solo un problema di frequenza. Occorreva tenerla sufficientemente elevata da renderla non percettibile dagli uomini, ma tanto fastidiosa per i topi da farli impazzire. Aveva sostituito il cristallo di quarzo del trasduttore con un oscillatore a magneto-strizione poiché lo considerava più efficace. Ecco, in quel modo si sarebbe finalmente liberato dagli odiosi animalacci, anzi avrebbe liberato l'umanità intera. Con estrema cura aveva posizionato nella fogna della città una serie di trasmettitori in grado di emettere i suoni alla frequenza voluta. Chissà, forse qualche animale domestico sarebbe stato coinvolto, ma... pazienza, un piccolo sacrificio per un vantaggio enorme. Controllò l'orologio. Quasi le tre di notte, praticamente l'ora di massima attività dei roditori. Anche per quello aveva condotto studi accuratissimi. Ancora pochi minuti e avrebbe azionato la macchina. Nell'attesa la sua mente andò alla sua fanciullezza, all'atroce ricordo di quando lui e sua sorella erano stati assaliti da alcuni topi affamati. Lui si era salvato miracolosamente senza un graffio, ma sua sorella era stata morsa. Ed era morta due giorni dopo. Strinse le labbra e riguardò l'orologio. Le tre in punto. Con un gesto vagamente teatrale, quasi avesse per platea il mondo, abbassò una leva a fianco della macchina. Poi afferrò il piffero d'argento e oro e se lo portò alle labbra e soffiò. Non ne venne fuori alcun suono. E doveva essere così. Bisognava iniziare da una frequenza altissima, intorno al 100.000 Hz, per poi scendere molto lentamente per indugiare alla frequenza voluta, tra i 30.000 e i 20.000 Hz. E andare anche oltre, solo per essere sicuri che qualche grosso schifosissimo sorcio non riuscisse a resistere. E sarebbe bastato. Questo però non era in grado di farlo con le sue tremanti mani da vecchio. Già vecchiaia carogna! Si avvicinò alla grande macchina e nell'apposito quadrante digitò uno seguito da cinque zeri, poi inserì l'automatico per la riduzione millimetrica della frequenza. L'avrebbe interrotto lui stesso al momento opportuno. Sollevò lo sguardo verso la città quasi schiacciata dalla luna piena e tentennò il capo. Bisognava attendere dai quattro ai sei minuti. Si strofinò le mani. Che continuassero pure quegli sciocchi dei suoi colleghi a perder tempo utilizzando gli ultrasuoni per scrostare la ruggine o frantumare i calcoli senza l'intervento del bisturi. Nervosamente portò il cronometro vicinissimo agli occhi, non ci vedeva poi tanto bene. Sì, il tempo era trascorso. Fremente tornò a guardare dalla parte della città. E si morse le labbra. Lontanissimo un guizzo, subito seguito da un altro, e un altro ancora. E un mare grigio-nero impazzito puntò su di lui. Che cominciò a battere le mani folle di gioia. C'era riuscito... il SUO esperimento ERA RIUSCITO, aveva trovato il modo di stanare quel maledetti. Ballò, piroettò su se stesso e cadde su un ginocchio facendosi male. Ma la felicità soverchiava ampiamente il dolore fisico. Tornò a fissare la marea brulicante di topi che si muoveva freneticamente e che si dirigeva verso una profonda crepa nel suolo. Una volta aveva pensato che sarebbe stato sufficiente farli finire lì dentro, ma si era reso conto che solo i primi sarebbero morti, mentre la maggior parte avrebbe avuto l'urto attutito dai corpi dei propri simili e si sarebbe salvata, per tornare nelle proprie tane. Allora aveva fatto installare nella crepa un potente inceneritore. Non avrebbero avuto scampo. Lacrime di felicità presero ad inondargli gli occhi. Era stato un successo, in barba a chi gli aveva ridacchiato alle spalle, in barba a chi l'aveva denigrato fors'anche solo per rubargli la cattedra all'Università. Dall'alto della sua collinetta vide la gran massa di viscidi ventri rigonfi fluire verso la morte. E quando i primi impazziti si gettarono nell'inceneritore uno stomachevole fetore di carne bruciata appestò l'aria. Ma per lui era il più intenso e dolce dei profumi. Fece quattro salti e cantò un'allegra canzoncina infantile. Oramai gli riusciva difficile controllarsi. Per questo che non fece molto caso al cuore che aveva cominciato a pulsare in maniera irregolare. E d'improvviso un dolore lancinante al petto e al braccio sinistro lo fece boccheggiare. Cadde in ginocchio capendo subito che il suo cuore si stava spaccando. Eppure sorrise. Sì, stava morendo, ma che importava? Che ragione aveva ancora di vivere? Era riuscito a realizzare il suo sogno. Strinse i denti per non urlare dal dolore. Egualmente però un rantolo gli sfuggi dalle labbra violacee. Fu allora che udì il sibilo. Era appena percettibile, appena fastidioso, come un lontanissimo fischio d'un treno in arrivo. Che cresceva. Cielo! Si morse le labbra a sangue. La macchina... misericordia... la macchina... era sull'automatico... la frequenza degli ultrasuoni.... si stava abbassando, presto avrebbe sconvolto anche il cervello umano. Si girò e mentre il dolore lo martoriava cercò di percorrere i pochi metri che lo separavano dallo strumento argento e oro che aveva deposto su un tavolo. Ma persino il respirare gli dava fitte lancinanti. Il suo sguardo stravolto tornò alla massa compatta dei topi che continuavano a rincorrersi verso l'inceneritore. Vide qualche cane ululante e qualche gatto a pelo ritto. Il sibilo era divenuto irritante, come quello del gesso che stride sulla lavagna. Allora con gli occhi sbarrati raccolse le forze residue e tentò un balzo in avanti. Morì prima di toccare terra. Proprio quando i primi uomini urlanti giunsero correndo come forsennati verso il puzzolente inceneritore. Donato Altomare Le pubblicazioni di Donato Altomare sono reperibili presso la libreria Corto Maltese in Molfetta alla via M. di Savoia, 106.
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