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I pupi armati siciliani e la magia del Pulo Evento culturale promosso dall'Associazione"Giacinto Panunzio"
15 settembre 2000

Giovanni de Gennaro>b> Il Pulo di Molfetta è luogo magico, catalizzatore, come un polo opposto al mare, di un’altra storia cittadina. Attorno e dentro le sue grotte è fiorita nei millenni, dall’età neolitica a quella del bronzo, la vita umana, sin quando si è affacciata sul mare ad incontrare genti diverse di rive lontane, adriatiche, balcaniche, mediterranee. Sul ciglio del Pulo i francescani eressero un convento da cui spaziava il loro sguardo per i cieli e da cui scendevano nelle sue viscere a pregare. Ivi, quattro secoli fa, il Venerabile padre Paniscotti trovava certezze intransigenti per scagliare anatemi, nelle sue predicazioni, contro protestanti, ebrei, infedeli musulmani. Viceversa in quel cratere, naturalisti di tutta Europa ed i sovrani di Napoli, credettero d’aver trovato il segreto della potenza militare nel salnitro, dono spontaneo della pietra. Cosa suggerisce ora al poeta Enrico Panunzio quella conca verde in cui svetta l’agile mirto sacro a Venere e fa macchia il folto alloro simbolo di gloria, ed eleganti asfodeli si sposano a maestose foglie di acanto, ornamento dell’arte greca? Quali fantasie gli suggeriscono i frutti aspri dell’anzeruolo, del sorbo, del carrubo, del melograno, del fico d’India spinoso, lì sopravvissuti alle culture di mercato? Il fascino del Pulo questa volta gli ha evocato le armi e gli amori dei paladini carolingi, la bellezza incantatrice di Angelica, la pazzia di Orlando, il viaggio di Astolfo sulla Luna dove volano i pensieri perduti degli uomini. La cappella del convento ha ospitato dal 3 al 7 settembre il teatro di pupi armati siciliani del maestro Domenico Cuticchio, venuti ad imparentarsi da lontane città d’Europa con i pupi della collezione dello scrittore Panunzio; per quattro serate è risonata del fragore delle spade, di solenni giuramenti di fedeltà, di gridi di morte, di sospiri d’amore, mentre scintillavano le armature d’oro e d’argento dei cavalieri. Piccoli e grandi hanno affollato la sala, seguendo con il fiato sospeso le sorti del travolgente Orlando che faceva dimenticare l’asettico James Bond. Non mi è sembrata più una invenzione letteraria la storia che Luigi Capuana racconta dello spettatore che va a svegliare di notte il puparo per sapere se Orlando scamperà al tradimento di Gano di Magonza. Le gesta di Rinaldo e Ruggero rappresentate da Mimmo Cuticchio richiamano alla memoria dei molfettesi la “commedia di Pasqualino”, come era chiamato il teatrino dei pupi che appassionò sulla banchina del Duomo, sino agli anni Quaranta, un fedele pubblico di vecchi marinai e di ragazzi avventurosi. Ma ripete anche l’iniziativa degli stessi Enrico Panunzio, allora bibliotecario dell’Istituto italiano di cultura, e Giacomo Cuticchio, di rappresentare a Parigi, nella “cave” della Librairie 73 del Quartiere latino la “Chanson de Roland” vista da un siciliano ed un pugliese. Che cosa accomuna questi spettatori tanto diversi, gli ultimi marinai della vela, i raffinati intellettuali parigini degli anni Sessanta, ed i bambini del terzo millennio? Si può credere che sia l’essenza di ogni rappresentazione drammatica, la sua struttura nella lotta tra virtù e furore, con la vittoria del bene contrastato sul male, che serve a compensare sul piano psicologico ed estetico le nostre sconfitte esistenziali, in cui siamo noi di scena con elmi piumati e corazze lucenti a pronunziare parole solenni come epigrafi sul marmo. La sera del 7 settembre Mimmo Cuticchio ha narrato “lo cunto” nel chiostro del convento tra scenari d’edera e buganvillea, tenendo inchiodati all’ascolto gli spettatori più smaliziati. La tecnica della narrazione, così intensamente partecipata da assumere ritmi drammatici, è di origini ancestrali. Si basa sugli elementi primitivi del linguaggio, l’onomatopeia ed il valore espressivo del fonema che rendono il sentimento del narratore. L’esaltazione della virtù, l’incantamento amoroso, la malizia del tradimento, la pietà e l’orrore della morte, lo stupore del meraviglioso, sono espressi con cambi di voce, di tono e di ritmo, con pause di sommessa riflessione o brandendo la vecchia spada che gli è stata trasmessa dal maestro, o battendo i piedi e agitando braccia e corpo, con mimica efficace. Ma soprattutto quando deve descrivere una battaglia, impeti d’ira e di follia, quando alla ragione subentrano passione e istinto, le parole perdono il significato logico e si spezzano in suoni sillabici onomatopeici. Sembra la tecnica futurista che usò F. T. Marinetti o lo stile degli espressionisti tedeschi, comune a certe preghiere, a invocazioni magiche, a canzoni popolari in cui le parole si sono frantumate ma conservando ritmo e tonalità di grande forza comunicativa. Queste serate a Torre Pulo inserite nella “Rassegna” organizzata dal Comune, “Il Giubileo in Puglia” e promosse dalla “Associazione Giacinto Panunzio”, sono state, per la fama internazionale della “Associazione Figli d’arte Cuticchio”, un importante avvenimento culturale. Solo un poeta come Enrico Panunzio, che è il Presidente della Associazione intitolata a suo padre, poteva mettere insieme la magia del Pulo, il clima culturale di Parigi, il teatro dei pupi, con la sua vasta e squisita cultura, nel commento alle rappresentazioni. Il Pulo è il suo luogo dell’anima, da quando ventenni, insieme a Franco Poli, Tonino Nuovo, Salvatore Salvemini, l’indimenticabile Raffaele Ruta, e chi scrive, ci riunivamo, con il pittore istriano Sficco che dimenticava la fame dipingendo e accompagnando, su un mandolino slavo, nostalgiche canzoni della sua terra, ad interrogare le stelle sulla nostra avventura esistenziale in quegli anni d’attesa dal 1943 al ‘45.
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