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Gherardo Colombo: si fa ancora troppo poco per risolvere i problemi della giustizia. Occorre una corretta applicazione delle regole
15 dicembre 2007

Non ha lasciato la magistratura con proclami, ma con la classica lettera di dimissioni indirizzata ai suoi “datori di lavoro”, il Csm e il ministero della Giustizia. A 60 anni e con 33 anni di toga alle spalle, Gherardo Colombo, noto al grande pubblico per alcune delle più importanti indagini giudiziarie degli ultimi anni: dalla scoperta della loggia P2 al processo Imi/Sir passando per Tangentopoli, non ha rinunciato a servire la giustizia. Ma oggi opera con un approccio differente, non da giudice ma da “testimone”. Prendendo atto che a 15 anni di distanza dall'inizio di Tangentopoli si è arrivati a una “riabilitazione dei corrotti” e che “nel nostro Paese i cittadini non hanno un buon rapporto con le regole, che appena possono eludono”, ha scelto di dedicarsi a “un'attività prodromica all'accertamento della corretta applicazione delle regole, ovvero alla spiegazione del senso stesso delle regole per cambiarne l'approccio del cittadino, che deve applicarle piuttosto che eluderle”. L'abbiamo incontrato a margine del suo intervento al convegno per i vent'anni della casa editrice molfettese la Meridiana, e ci ha messo subito in guardia dal toccare i temi delle inchieste per le quali la gente, al termine degli incontri che sta facendo in tutta Italia, ancora si avvicina per ringraziarlo. Gli chiediamo del diverso impatto che le inchieste sulla corruzione hanno avuto tra il Nord e il Sud del Paese. Lui ci ricorda subito le fi gure di Falcone e Borsellino e “il gran lavoro che hanno svolto nella lotta alla mafi a” aprendo uno squarcio anche sui rapporti con i politici. Come loro tanti altri che anche al Sud hanno svolto inchieste su questi reati. Poi torna a guardare in alto, quasi si rivolgesse a quel Nord in cui i risultati processuali hanno disatteso la forte domanda di cambiamento. “I processi sono durati un'enormità e quindi alcuni sono fi niti con prescrizioni, o con assoluzioni, in alcuni casi giustifi catissime nel merito, altre dipese solo dal fatto che sono cambiate le leggi in corso d'opera”. Poi ci conferma l'impressione che “molto poco venga fatto per la reale risoluzione dei problemi della giustizia”. Ciascuno ha le sue responsabilità: “fa poco il Parlamento che non modifi ca organicamente i codici di procedura, fa poco il governo che ormai è un decennio che alla giustizia non destina risorse adeguate, fanno poco i magistrati perché è loro competenza l'organizzazione degli uffi ci, e in ultimo anche gli avvocati hanno le loro colpe”. Un quadro poco rassicurante, in cui la lentezza dei processi è solo un effetto e non la causa dei mali della giustizia. Allora siamo ancora tutti uguali davanti alla legge? “Tutto questo non ci fa essere particolarmente uguali davanti alla legge. Di fatto succede che chi è colto in fragranza generalmente per reati di strada, subisce un processo molto rapido con poche garanzie. Mentre, invece, chi viene coinvolto in processi o indagini per fatti relativi a reati, che procurano danni maggiori, e per cui sono richieste indagini complicate, spesso succede che interviene prima la prescrizione che la defi nizione in giudizio dei processi. La pena è così piuttosto certa per i reati della prima categoria, e piuttosto poco certa per i reati della seconda”. A questa percezione di una giustizia malata si aggiunge un senso di generalizzato di insicurezza, spesso imputata agli stranieri, cui sembra si voglia rispondere solo con un inasprimento delle pene. “Occorre ripensare molto in profondità al sistema della sanzione, perché si tende a identifi carla con il carcere. E' poi tutto un gioco di immagini, i cittadini si sentono insicuri e la cosa che offre maggiore sicurezza sotto il profi lo psicologico è mettere in prigione i responsabili. A volte questa percezione è reale, altre volte è indotta e mal diretta. La gente dovrebbe chiedersi quanti fatti di sangue, quanti attacchi all'integrità personale e patrimoniale si verifi cano in famiglia o nella stretta dei conoscenti e quanti si verifi cano ad opera di un agente esterno, sconosciuto, per vedere se è giustifi cato un allarme nei confronti dello sconosciuto”. Messo da parte il piglio dell'inquirente un'ultima considerazione è dedicata alla sua nuova missione di educatore. Come risponde la gente e in particolare i giovani? “Trovo una grande attenzione da parte loro. Però essendo giovani credo che abbiano bisogno di una mano nell'approfondimento del pensiero. Se i giovani spesso sono superfi ciali è perché non si fa abbastanza per coinvolgerli”. E nei confronti delle regole? “Anche qui val la pena stimolare il loro ragionamento. Perché l'invito a osservare le regole da parte degli adulti è spesso molto formale e riguarda molto poco i contenuti. Per far rifl ettere sul perchè osservare le regole, bisogna dare dei motivi che non sempre si danno. Vedo che interessando i giovani e ponendosi in un atteggiamento di ricerca comune questi si dimostrano molto disponibili”.
Autore: Michele de Sanctis
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