1. LA TESTIMONIANZA DELL' AVV. CARMINE SPADAVECCHIA Seppur feroce in politica, Salvemini era un uomo buono e di generosità estrema. E' questo il ricordo dell'avv. Carmine Spadavecchia,suo “discepolo nelle idee”, come lui stesso si definisce, e coraggioso e veemente difensore dell'asilo “Filippetto” e della sua storia. Ritornando con la memoria agli anni passati sui banchi di scuola Spadavecchia ci confessa di aver fatto lì il suo primo incontro con Salvemini, grazie all'insegnamento di professori come Tommaso Fiore e alla lettura del volume salveminiano “Mazzini”. Successivamente, quando l'avvocato è agli albori della sua carriera avviene il primo incontro di persona, il 12 Aprile del 1951 a Bari. Qui Salvemini era stato invitato dall'Associazione Amici della Cultura a parlare sul tema: “Era l'Italia prefascista una democrazia?”. Ed è in questa occasione che, ricorda l'avvocato, una tal professoressa Calò, molfettese, lo chiama per nome e gli propone di andare a fare una passeggiata a Molfetta ma Salvemini, irritato, si rifiuta. “Non voglio esser costretto a stringere la mano a persone che non avrei mai voluto incontrare nella vita e che prenderei piuttosto a pedate”. Questi, dunque, i sentimenti che già nel '51 animavano l'Uomo Salvemini, più volte oltraggiato da quanti, parenti, conoscenti, concittadini, per anni avevano finto di non riconoscerlo in seguito alla sua battaglia antifascista, e soprattutto profondamente ferito dalla disonorevole storia del suo caro asilo “Filippetto”. E se quelli erano i suoi sentimenti di allora non osiamo immaginare cosa egli ne penserebbe oggi, a pochi giorni dall'emanazione di una delibera della Giunta Comunale che, senza tener conto del passato storico dell'asilo, cancella, senza vergogna, il ricordo di un atto d'amore di un padre verso un figlio perduto e di un uomo verso la sua città natale e tutti i suoi figli.A proposito della questione l'avvocato racconta del suo ultimo incontro con Salvemini, avvenuto nel maggio del '57 nella Villa La Rufola a Capo di Sorrento, pochi mesi prima della sua morte. Dopo un breve colloquio con un Salvemini provato dalla malattia ma ancora capace di emozionarsi al ricordo di un suo vecchio insegnante, parente della moglie dell'avvocato lì presente, quest'ultimo chiacchiera a lungo con Giuliana Benzoni, proprietaria della villa e fedele segretaria di Salvemini, la quale gli confessa che la questione del “Filippetto” “costituiva da sempre il più grande rammarico di Gaetano” e gli chiede di investigare sulla sua storia. Appena rientrato a Molfetta l'avvocato si dedica subito ad un'invana ricerca negli archivi della Congregazione di Carità (l'attuale assessorato alla Socialità), per poi ricordarsi di un tale notaio Fontana, incontrato anni prima a Bari in occasione di una delle conferenze tenute da Salvemini ed ex tesoriere della Congregazione alla quale, tra l'altro, Salvemini aveva fatto una donazione consistente in una parte di suolo e in una somma di denaro da destinare alla costruzione dell'asilo “Filippetto” in memoria di Filippo Salvemini, primogenito dell'intellettuale morto nel terremoto che colpì Messina nel 1908. Ed è questo notaio Fontana che, dopo qualche esitazione e con commozione, consegna un lungo dossier all'avvocato dicendogli: “Ecco: questa è la storia terribile del Filippetto”. Tra queste carte, poi, Carmine Spadavecchia ritrova il Decreto Regio in data 8 gennaio 1911 che contiene l'atto di donazione di Salvemini e il Decreto Reale in data 18 dicembre 1913 n.1397 che attesta l'atto di istituzione dell'asilo. Ma di tutte queste carte non hanno tenuto conto le amministrazioni di Molfetta, soprattutto quelle che si sono succedute negli anni del Fascismo, come illustra l'avvocato nel suo libro “Salvemini e il Filippetto”. Negli anni del post-fascismo vengono emanati alcuni provvedimenti tesi a ripristinare il provvedimento legislativo di istituzione dell'asilo, ma è solo sotto l'amministrazione Carnicella che l'avvocato e il preside Giovanni de Gennaro riescono a completare una petizione popolare affiancata da un progetto che prevedeva sia il ripristino del nome e della funzione originaria dell'asilo secondo il desiderio di Salvemini e sia opere di completamento dell'edificio che doveva essere munito di un auditorium e di un Centro Studi dedicato a Salvemini, e consegnano la petizione e il progetto all'amministrazione. La morte di Carnicella getta, purtroppo, nuove perplessità sull'approvazione della petizione fino a quando, con gli sforzi infaticabili di tutta l'Associazione salveminiana, non si ottiene che venga deliberato il progetto della petizione popolare negli anni del governo di Guglielmo Minervini. Con la delibera n.63 del 27/03/1996 l'associazione ottiene l'impegno a realizzare ciò previsto nel progetto e la promessa che i lavori sarebbero cominciati non appena ci fosse stata la disponibilità economica. Ma come spesso accade questa disponibilità economica non è arrivata e la delibera è stata abbandonata tra le tante e polverose carte degli uffici del Comune. Ad ogni modo il fatto che l'obbligazione dell'amministrazione Minervini nei confronti di quella delibera non sia stata estinta non significa che essa possa essere cancellata e sostituita arbitrariamente da un'altra, come quella emanata poche settimane fa dalla Giunta Comunale e che vede il passaggio della gestione dell'asilo “Filippetto” da comunale a statale. Anziché essere cancellata la vecchia delibera dovrebbe essere uniformata alle linee di governo della nuova amministrazione continuando a costituire un atto rispettoso della sensibilità e della personalità storica di Gaetano Salvemini, colpito dal dolore della perdita di tutta la sua famiglia. Ricorda ancora l'avvocato Spadavecchia quanto scriveva sulla rivista “L'illustrazione italiana” (ottobre 1957, anno 84esimo, n.10, pag.49-95-96) Niccolò Tucci, collega di Salvemini in America, a proposito del suo profondo dolore per il mancato ritrovamento del corpo del più giovane dei suo figli, Ughetto: “…Lo chiamò per le strade piangendo,… lo cercò tra i cadaveri degli altri…, mise un bando, poi due, in tutte le città… scrutò le facce della gente… e non lo trovò mai… Non ne parlava mai e di notte chiamava la moglie e questo figlio e diceva è di qua, è di la… e allora si capiva che lui non era mai partito da Messina… E agli altri che l'indomani gli chiedessero come aveva dormito rispondeva 'Benissimo'…”. Nessun dubbio che sono queste le parole del Salvemini Uomo e che è quest'Uomo, prima di tutto, che l'ultima decisione della Giunta Comunale offende e sulla quale occorrerebbe un serio ripensamento.
2 . LA TESTIMONIANZA DI LILIANA MINERVINI GADALETA Quella di Liliana Minervini Gadaleta è la storia dell'incontro originale e inaspettato con Salvemini, avvenuto per caso durante i mesi di preparazione di una tesi di laurea in Economia Politica. E anche questa storia, come quella dell'avv. Spadavecchia, si apre con parole a noi note quando la signora Minervini prova a spiegarci com' era quel Salvemini Uomo che oggi vorremmo ricordare e ci dice: “Feroce in politica e con chi per motivi politici fingeva di non conoscerlo, Salvemini era un uomo buono e generoso con tutte la persone”. Soprattutto con i giovani come lei – aggiunge - che, benché studentessa di Filosofia all'Università Cattolica di Milano, aveva deciso di intraprendere una tesi di Economia Politica sul Catasto Murattiano di Molfetta, dimostrando così lo stesso interesse che anche Salvemini, all'inizio della sua storia intellettuale, aveva avuto per la sua città natale. Ed è proprio nei mesi di accaniti ricerche e studi che Liliana faceva con il suo fidanzato, Giovanni Minervini, futuro studioso di Salvemini (di cui Quindici ha pubblicato alcuni scritti, che questi, ricordando che un suo maestro, Giacinto Panunzio, appassionato salveminiano, gli aveva parlato di un saggio giovanile di Salvemini su Molfetta, suggerisce a Liliana di “scrivere al Maestro per poterlo consultare, dato che a quel tempo il saggio non era stato ancora pubblicato”. «Salvemini mi rispose subito con una lettera,– scrive Liliana in una lettera al Professor Bucchi – inviandomi, meraviglia!, l'unica copia che aveva di 'Molfetta nel 1897'», e rallegrandosi molto del fatto che una giovane si occupasse, come lui stesso aveva fatto a suo tempo, del paese in cui era nata e le chiese di dare un'occhiata al suo lavoro. Di fronte alla sorpresa di godere di tanta considerazione da parte di un tale Maestro, la signora Minervini ci racconta che Salvemini rispondeva spesso: “I vecchi sono come le uova, più le cuoci più sono dure” e che non si preoccupava mai di anteporre l'attenzione per le giovani menti alle questioni politiche e intellettuali di portata nazionale in cui era coinvolto. “Anche se non bello – ricorda Liliana Minervini – Salvemini era un uomo dallo sguardo penetrante, con chiunque parlasse prendeva appunti perché era un perfezionista”. E probabilmente questo suo perfezionismo fu la causa di tante correzioni che costrinsero Liliana a ripetere il lavoro per ben cinque volte e “chissà per quante altre volte avrei dovuto” – ci confessa – “se non fosse intervenuta la morte di tanto Maestro”. Perfezionista, esigente, eppure sempre dolce e paterno, Salvemini non si stancava mai di incoraggiare la sua giovane studentessa a lavorare ancora per poter ottenere un risultato perfetto. Una volta portato a termine l'esame di laurea, nel luglio del '54, Liliana e suo marito Giovanni si recano a Firenze in viaggio di nozze, ospiti di Salvemini nella pensione di via S. Gallo, e a proposito di questo soggiorno la signora Minervini scrive: “Il bello è che mentre io cercavo di dimenticare il paese in cui ero nata, che mi sembrava tanto lontano dalle inebrianti esperienze vissute a Milano, Salvemini invece voleva sapere notizie su Molfetta: 'Come ci sono tanti abitanti, ci sono quattro banche?' e altro e faceva il paragone con i suoi tempi e parlava con entusiasmo dei progressi compiuti”. Benché considerato un figlio ingrato dalla sua città natale, benché lontano da questa e profondamente ferito per la questione del Filippetto e per tanti altri rancori di natura politica, il Salvemini Uomo con queste parole dimostrava di non essersi mai allontanato con il cuore dalla sua Molfetta, di preoccuparsene ancora come se vivesse lì, e tradiva così quel legame viscerale che ogni uomo ha con la sua terra e che anche le contrarietà storiche e intellettuali del momento non potevano recidere. Un'altra cosa che aveva meravigliato la signora Minervini ai tempi del soggiorno a Firenze era che il fatto che Salvemini le domandasse continuamente notizie sull'esame di laurea e alla fine le dicesse: “Sai, anch'io ho passato l'esame!”. “Certo – commenta Liliana Minervini – portare Salvemini all'interno dell'Università Cattolica, nei tempi tristi che allora attraversavamo, di contrapposizioni e di condanne (cosa di cui i giovani, oggi, non riescono ad avere idea), non era cosa da poco. Ma la vicenda – conclude – andò proprio bene e si parlò, a proposito della tesi, di 'metodo sicuro'. Sfido! Dopo tutte quelle correzioni!”. Ma questo cosiddetto “metodo sicuro” era la norma per Salvemini, “instancabile raccoglitore di dati”, accurato studioso, sempre incline all'uso di un linguaggio chiaro e semplice che fosse comprensibile a tutti, soprattutto alla gente più umile. Infatti - e qui il ricordo dell'avv. Spadavecchia e quello della signora Minervini tornano a combaciare - Salvemini odiava le parole astratte e chiunque scrivesse complicato e affermava che “Tutti possono parlare difficile, pochi facile” e che “Chi parla difficile o vuole prendere in giro la povera gente che, stanca, legge i giornali dopo una giornata di lavoro, oppure non capisce bene neppure lui cosa scrive!”. E mai come oggi, a cinquant'anni dalla sua morte, queste parole non potrebbero sembrarci più vere e più “umane”, ed è questa parte di umanità, l'attaccamento alla sua terra, il pensiero costante dei giovani, dell'impegno e della serietà e quello della gente più umile, che il Salvemini intellettuale portava sempre con sé e che ne ha fatto quel personaggio di così alta statura politica e morale alla cui memoria, oggi, la nostra città ha l'onore e il dovere di rendere omaggio.