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Don Tonino: la laicità, la città, la politica Le parole di un vescovo: “provocazioni fatte pietre”
15 aprile 2003

Un rischio, sempre in agguato, è quello di fare di don Tonino un “santino”: conservare di lui ricordi edificanti, eroici pure, ma depotenziati della forza di cambiamento radicale della sua lezione di vita. E, invece, credo che a dieci anni dalla sua scomparsa occorra misurarsi con gli stessi interrogativi sull'uomo, sulla storia, sulla Chiesa, con cui don Tonino si è misurato. Don Tonino, la sua vita, i suoi scritti sono “provocazioni fatte pietre”; se a queste provocazioni continuassimo a sottrarci, di questo grande uomo e vescovo resteranno ricordi, ripeto, certamente edificanti ma privi di impatto sulla vita della comunità. La Chiesa per la quale si è consumato don Tonino è una Chiesa “icona della Trinità”, che sa riflettere tra gli uomini il volto di Dio “ricco di misericordia”. E' la “Chiesa del grembiule, che sa compiere in ogni momento il gesto del giovedì santo, che depone i paramenti gloriosi e indossa quelli del servizio, che sa fare a meno delle sicurezze umane, anche quelle ecclesiastiche, e “spoglia se stessa assumendo la condizione di serva”. Che altro è questa se non l'attualizzazione piena del Concilio? Ciò che è singolare nella sua testimonianza, però, è la capacità di condurre fin dentro il cuore dell'istituzione la tensione al cambiamento evangelico, senza sconti, senza misura. Tutt'uno con il suo magistero, le sue opere e la sua profezia di pace, è difficile distinguere in lui il vescovo dal profeta della pace, il figlio del sud dal mistico, l'uomo di cultura, lo scrittore, il poeta dall'uomo di azione. Io mi limito a guardare alla sua lezione da tre angoli visuali, per altro nemmeno chiaramente distinti l'uno dall'altro: la laicità, la città, la politica. La laicità. L'ansia per una laicità vissuta in positivo (non come clero mancato) la comunica sin dall'inizio del suo episcopato. I suoi inviti a praticare la laicità in positivo non sono occasionali, volti magari ad accaparrarsi le simpatie del mondo laico. Poggiano su un'idea di Chiesa aperta, non clericale. “La nostra Chiesa è curva su se stessa (Chiesa clericale), o si curva sul mondo (Chiesa laicale)? L'ordine del giorno per il suo impegno e per le sue discussioni glielo dà il mondo?” Sono le domande che, in diversi convegni ecclesiali, pone al centro dell'attenzione. Purtroppo, le risposte non sono state sempre pari alla profondità della riflessione cui quelle cruciali domande rimandavano. Ma è la rinuncia a schemi interpretativi dottrinari della realtà, l'andare a vedere le cose direttamente, senza pregiudizi e senza riguardi, sfidando il conformismo delle regole e dei ruoli, la fondamentale lezione di laicità che don Tonino Bello ha saputo proporre con efficacia. Percepimmo subito che don Tonino non avrebbe fermato la sua chiesa sulla soglia della retorica della solidarietà. A pochi mesi dal suo ingresso nella diocesi, a Giovinazzo scoppia la crisi delle Acciaierie e 850 operai rischiano il licenziamento per la chiusura dello stabilimento. Don Tonino non esita neppure un istante a testimoniare la solidarietà della Chiesa locale ai lavoratori in lotta. Si è scritto del suo seguire passo passo l'evoluzione della difficile vertenza, partecipando direttamente, tra lo stupore degli operai, alle assemblee del Consiglio di fabbrica, della messa a disposizione di somme prelevate da un fondo diocesano, dell'incontro con il giudice per scongiurare processi a carico degli operai che avevano occupato la stazione ferroviaria, dell'incontro a Roma con il ministro dell'Industria, Pandolfi. Di tutto questo si è scritto. Ma ciò che più mi colpì fu il racconto della tensione precedente all'incontro con il ministro Pandolfi. Aveva dedicato tutto il tempo dell'attesa alla rilettura di un promemoria preparato con scrupolo insieme ai rappresentanti sindacali. Non voleva che al vescovo il Governo rispondesse con generici impegni o che a lui si guardasse con la sufficienza con cui si guarda all'uomo di Chiesa che al “buon cuore” non sa associare il “buon cervello”. Una testimonianza che vale più di cento prediche sulle responsabilità dei laici cristiani. In tema di laicità, vale la pena sottolineare come il rispetto per le culture è stato programmatico in don Tonino. Già all'avvio del suo episcopato affermò con netta convinzione “l'esigenza di aprire il dialogo con la cultura contemporanea, senza scegliersi gli interlocutori di comodo e rispettando sempre la distanza che ci separa dal mistero dell'altro.” Ma il suo pensiero si manifesta più organicamente nel progetto pastorale: “Motivazioni ideologiche e personali hanno indotto molti nostri fratelli battezzati a non condividere più con noi né il pane, né la tenda, né la strada. A noi incombe, però, il dovere non solo di accoglierli, ma anche di offrire loro continue possibilità di ripensamenti, di verifiche, di rispettosi confronti.” A sostegno di questo ci sono poi le pagine bellissime scritte su Gaetano Salvemini, (“Quel graffio che non ha mai smesso di sanguinare”): “Salvemini è stato e rimane una anticlericale tutto d'un pezzo e senza cedimenti. Mai, però, volgare, o sguaiato. Anzi, così fine e, soprattutto, così nutrito di sofferte ragioni etiche, che oggi perfino il vescovo della città che gli ha dato i natali, un paio di anticlericali del genere, se li vorrebbe sempre a ridosso. Se non altro perché lo aiuterebbero a preservare il messaggio di Cristo da contaminazioni mondane e da inquinamenti di potere.” La città. Parole dense di passione per la nostra città, che egli ha amato davvero, le troviamo in un testo religioso bellissimo: ”Dal sapiente mixage di pietre e di documenti, di calcinacci e pergamene, di canzoni ed ex voto, di iconografie e rituali, di reperti e tradizioni, si staglia nitida non tanto la trama di un tempio, quanto la filigrana di una civiltà.” Una “filigrana tutt'altro che fuori corso”. Sì, perché i volumi di Vito Fornari o quelli di Gaetano Salvemini, le poesie di Rosaria Scardigno o le riproduzioni delle tele di Giaquinto ci aiutano a vedere in controluce la filigrana della nostra Molfetta, il marchio, cioè, della nostra comunità. Un feeling con la città che don Tonino riconosce, pur nella solitudine che spesso ha circondato le sue posizioni più scomode. Nella lettera inviata al sindaco Annalisa Altomare (7 ottobre 1992), in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria, leggiamo: “Questo vostro mettere a nudo tale consonanza interiore (che pensavo clandestina) con un popolo che sento di amare mi dà, per un verso, la quota della vostra finezza e del vostro intuito, mentre per un altro verso, mi offre un'autentica gioia. Farò di tutto perché questa mia appartenenza all'anagrafe di Molfetta vibri di un impegno pastorale più appassionato, in modo che, se l'Istituzione Municipale mi iscrive nei suoi registri, la gente, e, soprattutto, i più poveri mi iscrivano nell'anagrafe del loro cuore”. Le motivazioni che avevano condotto il Consiglio comunale a deliberare all'unanimità il conferimento della cittadinanza onoraria a mons. Bello, riassunte nelle parole pronunciate dal sindaco durante la seduta straordinaria del Consiglio comunale (1 novembre '92), sono “nel dialogo aperto con la società civile, mai rinunciatario nei confronti dei doveri della testimonianza e dell'ammonimento, giungendo persino ad un chiarificatore confronto correttissimo con lo Stato e le sue istituzioni, anche con questa municipalità”. Non è chiaro a cosa ci si volesse riferire con l'espressione “chiarificatore confronto correttissimo con lo Stato e le sue istituzioni”. Forse, alla polemica scoppiata intorno alla partecipazione italiana alla Guerra nel Golfo, contro cui don Tonino assunse posizioni molto nette, e che condusse l'Amministrazione comunale, guidata dal sindaco De Cosmo, a disertare la celebrazione religiosa del patrono S. Corrado l'8 febbraio del '91? E' probabile, ma non assolutamente certo. Nel punto più basso del degrado civile della città, lo stesso amore per Molfetta porta don Tonino a pronunciare un memorabile atto d'accusa sul malessere e sull'illegalità, ai funerali del sindaco Giovanni Carnicella, brutalmente assassinato il 7 luglio del 1992: “Un malessere che si costruisce su impercettibili detriti di illegalità diffusa, sugli scarti umani relegati nelle periferie, sui frammenti di una sottocultura della prepotenza non sempre disorganica all'apparato ufficiale.” La politica. Nel magistero di don Tonino, l'impegno politico ha grande importanza. E' vocazione laicale alla santità. Come tale, va coltivata e non lasciata all'improvvisazione. Egli mette da parte l'idea dell'impegno politico come propaggine estrema dell'evangelizzazione, rifiutando l'idea dei politici cristiani come braccio secolare della Chiesa. Questo emerge chiarissimamente durante gli incontri che periodicamente tiene con i politici locali. La politica ha una sua autonomia. Così, nel mettere in guardia dalla “tentazione, sempre in agguato, dell'integrismo” afferma senza ambiguità la legittimità del pluralismo delle opzioni, nell'ambito della comunità cristiana. E, traendo spunto dai documenti del Concilio, parla della politica come arte nobile e difficile. “Anzitutto, arte. Il che significa che chi la pratica deve essere un artista. Un uomo di genio. Una persona di fantasia. Disposta sempre meno alle costrizioni della logica di partito e sempre più all'invenzione creativa che gli viene richiesta dalla irrepetibilità della persona. In secondo luogo, arte nobile. Nobile, perché legata al mistico rigore di alte idealità. In terzo luogo, arte nobile e difficile. Difficile, perché le sue regole non sono assolute e imperiture. Sicché, proprio per evitare i pericoli dell'ideologia, vanno continuamente rimesse in discussione.” La lotta alla mediocrità è motivo di un forte appello ai politici, perché “è un delitto lasciare la politica agli avventurieri. E' un sacrilegio relegarla nelle mani di incompetenti che non studiano le leggi, che non vanno in fondo ai problemi, che snobbano le fatiche metodologiche della ricerca e magari pensano di salvarsi con il buon cuore, senza adoperare il buon cervello.” E' anche questo il don Tonino con cui non si deve mai smettere di confrontarsi, ancor più oggi, a dieci anni da quando non è più con noi. Cosimo Altomare
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