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Coronavirus. Riflessioni di una studentessa del Liceo Scientifico di Molfetta
Il Liceo Scientifico di Molfetta
26 marzo 2020

MOLFETTA – La riflessione di una studentessa del Liceo Scientifico “Einstein” di Molfetta, al tempo del coronavirus

«Che questo sia un momento difficile lo stiamo capendo, ormai, tutti e penso che anche gli scettici dell’ultima ora si stanno ricredendo alla luce delle notizie che di giorno in giorno ci vengono propinate, come un bollettino di guerra, da tutti i canali dell’informazione. In questi giorni mi sono chiesto che nulla avrebbe retto il confronto con quello che medici e infermieri stanno sopportando in molte zone d’Italia, negli ospedali e nei luoghi di sofferenza, dove i polmoni smettono di funzionare e le persone chiudono immeritatamente e anonimamente la propria esistenza, fatta di sacrifici, di impegno e dedizione. Ed è vero, ritengo che, d’ora in poi, non smetteremo mai di ringraziare tutti gli operatori sanitari, le forze dell’ordine, la classe politica e dirigenziale, i lavoratori delle filiere produttive essenziali per il servizio reso al paese e per averci fatto apprezzare la parte migliore dell’essere umano.

Ma non avrei mai pensato, da operatore della scuola, di dover assistere a questo paradosso: la distanza forzata sta avvicinando gli alunni alla scuola, la lontananza fisica si è trasformata in vicinanza di sentimenti.

E la riprova è nelle parole sincere di questa studentessa che ha voluto mantenere l’anonimato.

«Mi sono sempre lamentata di come la scuola fosse ormai diventata casa mia. Alcune volte ci passavo anche dieci ore, fino a quando i lampioni gialli non illuminavano la strada trafficata. Ed effettivamente la scuola era diventata la mia casa e riuscivo a studiare produttivamente in trenta minuti. Un evento senza precedenti. E quando non studiavo, imparavo in ogni caso: imparavo dalla vita della gente che s’intratteneva con me durante la ricreazione. I corridoi della mia scuola hanno un disegno raffigurante il bacio tra Honecker e Brezhnev sulle pareti… E lì c’è ancora il profumo del caffè amaro, «come la vita».

Quella scuola ha ancora il nostro odore, conosce le nostre preoccupazioni, i nostri litigi… La mia classe ha le sedie personalizzate e, se ci entri, puoi sentire l’eco delle nostre risa o i lamenti di chi sa di aver toppato all’ultimo compito di matematica.

Il laboratorio, sempre freddo, ora è pieno di polvere. Forse ci sono ancora i miei appunti scritti a penna sul banco, forse no. E il bagno… non sente più i nostri pianti o i vari pettegolezzi su ragazzi e professori.

Perfino l’ufficio del vicepreside, sempre in disordine, adesso pare morto. Fa strano pensare al suo computer spento, spoglio di tutti quei promemoria attaccati sullo schermo all’ultimo momento. E se penso che all’ingresso non c’è più Speranza a salutarmi al mattino… beh, mi sale un po’ di tristezza.

La scuola era la mia casa. E non era solo studiare come matti dal pomeriggio presto alla sera tardi, troppo presa dall’ansia dell’interrogazione, non era solo avere crisi di nervi per le troppe richieste da parte dei professori, non era solo bloccarsi all’interrogazione perché sicuri di aver sbagliato. La scuola era anche stare con quei ragazzi che tanto amano il cinema e la musica e discutono in cerchio di videogiochi, seduti sulle sedie in pelle rubate all’aula docenti, come romani su triclini…

Era condividere l’affanno dei prof prima di «Io ricordo», preparare le scene, l’organizzazione, la scenografia, i costumi, per poi ritrovarsi con troppe cose da fare tutte insieme, fino a non fare le prove generali e ritrovarci con l’allarme antincendio nelle orecchie, o peggio, con un Einstein a cui cadono i baffi.

Il liceo era anche giocare a basket con una pallina di carta stagnola e un cestino. Era fare rap con la lettura metrica di Catullo. La scuola per me era partecipare alle assemblee d’istituto. E non solo quelle dove c’è la musica… era anche assemblea dinamica, motivo di discussione. Credo che questo sia un aspetto importante al quale però spesso non prestiamo attenzione…

La mia scuola è molto più grande del mio appartamento. Qui non c’è nessuno che faccia baldoria. Qui m’annoio, se devo essere onesta, non ho i mezzi per diventare chi voglio. Ho bisogno della scuola, anche quando mi fa piangere, anche quando mi fa ribollir di rabbia.

Perché io voglio crescere. Perché io sono una sognatrice.

Dedicato alla mia scuola, al Liceo Scientifico A. Einstein, e alle scuole di tutti gli studenti d’Italia. Perché, per quante volte ho detto (e dirò) che ti odio, in realtà, ti sono grata».   

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