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Affondi, un libro per riflettere sul destino di Molfetta  
15 aprile 2007

Un faro sulla copertina e “affondi” come titolo per esprimere il bisogno di uno sguardo che vada più in profondità e si abbassi sotto la scorza della superficie. A rileggerli insieme questi editoriali che srotolano il filo degli avvenimenti di oltre un decennio, fa l'effetto di uno scandaglio che si cala sul fondo per perlustrare la natura di ogni singolo elemento del paesaggio della cronaca. Un'indagine indispensabile per tenere la rotta. Ovvio, l'imbarcazione è la città. L'autore di questi editoriali Felice de Sanctis, e noi con lui, l'ha vista in questi anni avanzare, ma anche fermarsi, sbandare, deviare e poi arretrare. La sua domanda, e la nostra con la sua, è incalzante, persino ossessiva, come l'esistenza della pallida balena per il capitano Achab: dove sta andando Molfetta? A rileggerli tutti insieme questi scritti generano un sano senso di storicizzazione dell'ultimo decennio. Molfetta è cambiata? La risposta è sì e no. E anche l'opinione di Felice oscilla tra questi due estremi contraddittori. Sì, Molfetta è cambiata nel senso che “in questi ultimi anni è cresciuta e soprattutto sono state poste le basi per un valido sviluppo economico”, afferma il direttore della rivista Quindici nell'aprile del 2001. Di fronte ha le trasformazioni urbanistiche ed economiche in pieno svolgimento: il compimento della vecchia zona artigianale, l'avvio della nuova zona artigianale, l'effervescenza della zona industriale, la crisi strutturale dell'agricoltura e quella irreversibile della pesca, poi ancora il processo di riqualificazione del centro storico, il nuovo piano regolatore. Dunque, Molfetta è cambiata. Mollata la gomena delle sue sicurezze, si è rimessa in movimento. Ha cominciato a plasmare il paesaggio urbano e a ricostruire la struttura economica. Questa è l'impronta che lascia la stagione politica e amministrativa del centrosinistra nella seconda metà degli anni '90, sospinta da un coagulo straordinario di energie sociali, di idee e intuizioni che hanno sprigionato una forza potente di cambiamento strutturale. Ma prendere atto di questo cambiamento assolutamente decisivo per la qualità del futuro di Molfetta, all'autore non basta, e nemmeno a noi con lui. L'inquietudine spinge lo scandaglio ad abbassarsi sul fondo per cogliere le invarianze che restano immutate. Dentro, meglio sotto, questa Molfetta che cambia, ne resta una che non muta, ancorata a se stessa, ai propri limiti, ai propri vizi. È la città dell'individualismo sovrano che impedisce il consolidamento delle solidarietà collettive. Del particolare privato pronto sempre a irridere il valore della sfera pubblica. Della piccola e grande illegalità sollecita ad autoassolversi con la categoria del bisogno. Dell'invidia incontinente che tiene gli animi in uno stato di guerriglia permanente contro l'affermazione dell'altro. Degli altri. Di tutti gli altri. Cambia la città ma non la sua cultura. Cambia fuori ma non dentro. Cambia all'esterno ma non all'interno. Questione di antropologia? Siamo fatti male quindi nessun cambiamento potrà radicarsi nella nostra coscienza comunitaria? C'è una parte di Molfetta che pensa che Molfetta ha il destino segnato perché i molfettesi sono incapaci di darselo un destino. Al massimo possono costruirselo da soli in qualunque latitudine del pianeta, magari nell'eccellenza di un'impresa, di un'organizzazione moderna, nella solitudine dell'emigrazione o di una imbarcazione, ma qui nella loro città, no, un destino, per il quale lavorare tutti insieme, proprio non riescono a immaginarselo. C'è un fatalismo antropologico che ha trovato casa in molte anime belle della città. A me pare che questi editoriali costituiscano una salutare obiezione a questa raffinata forma di pigrizia intellettuale. Piuttosto a rileggerli questi testi viene in mente la lezione attualissima di Gaetano Salvemini, quella di fine ottocento e quella del 1954, nella quale il ragionamento alla fine ritorna sempre lì, al tema della borghesia, meglio delle borghesie. Oggi come ai tempi di Salvemini, il problema di Molfetta è il problema delle sue borghesie. Delle sue molte borghesie. Della borghesia delle professioni, del notabilato, degli scampoli della vecchia aristocrazia, dei nuovi arrivati, dei nuovi ceti spregiudicati e rampanti. Quando le borghesie si abbandonano alla tutela delle proprie condizioni particolari, normalmente di privilegio, allora lo spazio pubblico si restringe, la cultura degrada, la città arretra. Quando le borghesie, mollano la cura del loro particolare e si investono nella rappresentanza degli interessi generali, assumendo la responsabilità di agire un pensiero lungo sul quale sfidare la comunità, allora le potenzialità sociali esplodono, la cultura si rinsalda effervescente, la città scatta dinamica. I cicli di Molfetta coincidono con i cicli dell'assunzione di responsabilità delle sue borghesie. E oggi, si chiede Felice de Sanctis, e noi con lui? Se si vuole comprendere Molfetta basta osservarla dal buco della serratura della politica. Estinto il vecchio notabilato, quasi scomparsa la borghesia delle professioni, a dominare la scena sono i nuovi ceti, culturalmente prevalenti, nell'espressione del senso comune, ma socialmente invisibili, che giungono alla politica come una forma di riscatto sociale, come un'occasione per compensare sconfitte professionali o solo esistenziali. E giungono alla politica senza una riserva etica e con un'avidità inquietante. Il torrente di procedimenti penali che sta travolgendo la città rivela un nuovo volto della politica spregiudicata, rozza, grossolana, sensibile, molto sensibile alle seduzioni dell'illegalità. Dal buco della serratura della politica si vede una Molfetta finita nelle mani di furbetti del mattoncino, ossessionati più dalla voglia di capitalizzare presto e molto i dividendi del potere pubblico, e in particolare del piano regolatore, che a costruire scenari di futuro per Molfetta. Cosa ci manca per riprendere il cammino del cambiamento? Mancano padri che presidino lo spazio della coscienza morale della comunità, che affidino alla loro autorevolezza il peso di una parola che guida. Mancano figli che decidano di restare non per rassegnarsi ma per lottare, affinché diventi un buon giorno possibile realizzare qui, nella loro terra, i loro sogni. Una delle nostre muse più autorevoli degli ultimi decenni, Salvatore Salvemini, si è congedato avvolto da un'atmosfera di indifferenza collettiva che assomiglia troppo a quella che accompagna l'incessante e muto congedo di un'intera generazione di giovani da questa città. Riprenderei la riflessione sul cambiamento di qui. Dal valore del passato e del futuro. Dal filo che si spezza ogni volta che si perde il valore delle persone. Dei padri e dei figli. E della responsabilità che abbiamo noi, generazione di mezzo, di impedire che questo disormeggio mandi alla deriva la città.
Autore: Guglielmo Minervini
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